Onesino schiavo, libero in Cristo


La brillante scenetta del ricco borioso e del povero maltrattato dipinta da Giacomo nel brano della sua Lettera che oggi si legge nella liturgia domenicale (2,1-5) ci spinge a evocare la figura neotestamentana di un uomo misero, caduto talmente in basso da essere ridotto in schiavitù. Ma per fortuna la sua vita ebbe l’occasione di incrociare quella di san Paolo. Il suo nome era Onesimo, in greco “utile”, di un’”utiità”, però, comoda per i suoi padroni ma non certo per lui. Vedremo, comunque, che anche Paolo giocherà sul nome di questo uomo sfortunato.

Riusciamo a ricostruire la sua vicenda attraverso l’ultimo e commovente biglietto che Paolo, ormai “anziano e in catene”, indirizza a Filemone, un amico ricco e generoso, ucollaboratore~ nell’annunzio del vangelo, nella cui casa si radunava una comunità di cristiani, anche se è ignota la città. A lui Paolo chiede un favore inatteso, che mette in scena proprio il nostro Onesimo.
Infatti, l’Apostolo durante la sua carcerazione — forse gli arresti domiciliari a Roma agli inizi degli anni 60 (Atti28,30-31) — aveva incontrato, istruito e “generato” alla fede cristiana, cioè battezzato, uno schiavo. Ebbene, costui era proprio Onesimo, il quale era scappato dalla casa di Filemone, suo padrone, l’amico a cui Paolo ora scrive raccomandandoglielo.

Ora, secondo il diritto romano, lo schiavo fuggito rischiava grosso: una volta catturato, le autorità lo avrebbero restituito al suo proprietario, che ne poteva decidere la sorte come meglio gli fosse gradito, senza escludere la possibilità di un’esecuzione capitale.

Paolo scrive all’amico Filemone avanzando una richiesta: essa è illuminante per comprendere la nuova visione della società che il cristianesimo voleva introdurre nelle relazioni sociali. Egli comincia proprio con quel gioco diparo le sul significato del nome Onesimo, “utile”: «Onesimo un giorno ti fu inutile, ora è utile a te e a me». E poi Io presenta all’amico come se fosse la persona più cara: «Telo rimando, lui che è il mio cuore» (letteralmente: «le mie viscere»).

Paolo continua la sua missiva in modo sempre più alto: «Onesimo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre, non più come schiavo ma molto più che schiavo, cioè come fratello amato tanto da me ma ancor più da te, sia secondo la natura umana sia per la fede nel Signore. Se, dunque, mi consideri come amico, accoglilo come me stesso... Sì, fratello, che io possa ottenere da te questo favore nel Signore: dà questo sollievo al mio cuore in Cristo!».

Si noti la passione con cui Paolo espleta la sua missione e l’affetto che rivela per questa creatura così infelice, ma fortunata per essere diventata cristiana e aver incontrato un così grande testimone di Cristo. L’Apostolo è certo della docilità di Filemone, «sapendo che farà anche più di quantogli chiede». Anzi, Paolo aggiunge un tocco di ironia: «Se in qualcosa Onesimo ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Scrivo questo di mio pugno, io, Paolo: io stesso pagherò! Anche se vorrei dirti che tu mi sei debitore e proprio dite stesso!». È bello che Paolo esca dalla scena della storia documentaria con questa deliziosa “raccomandazione” in favore di uno schiavo, Onesimo.