Giosuè, il Signore salva il suo popolo


«Giosuè, figlio di Nun, fin dalla sua giovinezza era al servizio di Mosè»: così si legge nella prima lettura della liturgia di questa domenica (Numeri 11,28). Sarà, dunque, su questo protagonista della conquista della Terra promessa che noi punteremo il nostro obiettivo. Certo, è impossibile in poche righe delineare un ritratto compiuto di Giosuè, al quale è intitolato un intero libro dell’Antico Testamento, ma la cui presenza affiora già a partire dai primi eventi di Israele nel deserto del Sinai durante la marcia dell’esodo dall’Egitto. Lo incontriamo, infatti, per la prima volta durante la battaglia contro il popolo di Amalek: è a questo membro della tribù ebraica di Efraim, il cui nome era un simbolo (Uil Signore salva”, variante dello stesso nome di Gesù), che Mosè affida la direzione dell’armata ebraica (Esodo 17,9-16).

Il risultato è trionfale e da quel momento il suo nome sarà legato soprattutto a imprese militari. Certo, egli sarà accanto a Mosè, del quale diverrà “aiutante”, sulla vetta del Sinai (Esodo 24,13; 32,17) e sarà anche il custode della tenda santa dell’alleanza, il santuario mobile del popolo nel deserto (Esodo 33,11). Ma il suo nome sarà sempre legato alle battaglie di Israele, a partire dalla prima esplorazione della Terra santa. Mosè, infatti, lo aveva solennemente investito come suo successore alle soglie della sua morte: «Mosè prese Giosuè, lo fece comparire davanti al sacerdote Eleazaro e davanti a tutta la comunità. Pose su di lui le mani e gli diede i suoi ordini, come il Signore aveva comandato» (Numeri 27,22-23).

Davanti a questo generale divenuto comandante supremo si apriva la grande impresa, quella della conquista della terra di Canaan, un’operazione che è descritta nei primi 12 capitoli del libro di Giosuè, l’opera che reca il suo nome in quanto egli ne è l’attore principale. Attraversato il Giordano, secondo un rituale che evoca la traversata del Mar Rosso, si assiste a una serie di stragi che lasciano perpiesso il lettore attuale della Bibbia. È quella “santa” violenza, ticondotta a ordini divini, che prende il nome di herem o “anatema”, una sorta di guerra santa che consacra a Dio in un colossale olocausto distruttivo tutto ciò che si frappone all’avanzata di Israele.

Non bisogna certo prendere alla lettera queste pagine spesso epiche e retoriche (si ricordi il famoso ordine al sole di fermarsi, evidente espressione simbolica per parlare di un giorno che “non finiva mai”, del “giorno più lungo”). È soprattutto necessario ricordare che la Bibbia non è una serie di tesi astratte su Dio, ma è la rivelazione di un Dio che cammina nella storia umana, piena di limiti, di vicende discutibili e violente ed è per questa via “paziente” che egli ci fa andar oltre lo stesso Giosuè e l’antico popolo tribale, verso altri orizzonti di amore e di pace.

Divisa la terra conquistata tra le varie tribù, Giosuè sente che la sua missione è compiuta. In un discorso-testamento, presente nel capitolo 23 del libro a lui intitolato, affida a Israele il compito di tener alta la fiaccola della sua identità. Poi a Sichem, davanti a tutte le tribù riunite nel santuario centrale di allora, celebra un atto solenne di alleanza tra Israele e il Signore. È una pagina bellissima (Giosuè 24) in cui egli pronunzia il Credo biblico e tutto il popolo risponde ripetendo la sua promessa di fedeltà al Signore, espressa attraverso il verbo biblico del culto e della fede, “servire”, ri
badito ben 14 volte.