Acab e il delitto della vigna di Nabot


Al centro del Vangelo di questa liturgia domenicale c’è un uomo ricco che non riesce a seguire Gesù proprio perché non può staccarsi dai “molti beni” che possiede. E Cristo reagisce con quelle celebri parole, simili a un aforisma paradossale: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio» (Marco 10,25). Sull’ostacolo rappresentato dalle ricchezze nei confronti della moralità e, quindi, sui delitti che essa può generare c’è nella Bibbia un racconto esemplare che vede come vittima un contadino, come colpevole un re e come testimone un profeta.

Il nome del contadino era Nabot, il sovrano era Acab, re di Israele, dominato dalla potente consorte, Gezabele, una principessa fenicia, e il testimone del crimine è il profeta Elia. La vicenda è narrata nel capitolo 21 del Primo Libro dei Re. Acab voleva allargare il parco della sua residenza di campagna a Izreel, nella pianura settentrionale del suo regno. Aveva interpellato Nabot, il proprietario della vigna confinante, per l’acquisto, ma ne aveva ricevuto un rifiuto netto: quel terreno era un’eredità familiare e, secondo l’antica tradizione, non doveva essere alienata.

Il re Acab era restato male, tanto da cadere in una forma di depressione. È a questo punto che entra in scena la forte regina Gezabele che escogita un piano diabolico. Essa, infatti, ricorrendo a falsi testimoni, dà il via a una sorta di processo-farsa, collegato a un rito di penitenza per allontanare le sciagure nazionali. I due falsi testimoni dichiarano che, all’origine di ogni disgrazia, c’è proprio Nabot perché egli ha maledetto Dio e il re. Questo delitto, gravissimo considerata l’efficacia della parola nelle civiltà dell’Oriente, comportava la lapidazione. «Condussero, allora, Nabot fuori della città e lo uccisero lapidandolo.
Poi mandarono a dire a Gezabele: Nabot è stato lapidato ed è morto! Essa disse allora ad Acab: Su, impadronosciti della vigna di Nabot di Izreel, il quale aveva rifiutato di vendertela, perché Nabot nonvive più, è morto!» (21,13-15).

Ma nel silenzio complice dei sudditi che non osano contestare le prevaricazioni del potere si leva chiara e forte la voce del profeta Elia che, senza mezzi termini, denuncia il crimine: «Hai assassinato e ora usurpi! Per questo dice il Signore: Nel punto ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno il tuo sangue!» (21,19). E alla terribile regina Gezabele griderà: «I cani divoreranno Gezabele nel campo di Izreel!» (21,23).

Nabot è il simbolo di tutte le vittime dei soprusi del potere, da allora fino ai nostri giorni, fino agli indios a cui ilatifondisti e le multinazionali sottraggono iterrenidi loro proprietà da sempre. Anche un altro profeta di oltre un secolo posteriore a Ella, Isaia, protesterà: «Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, ecosì restate soli ad abitare nel paese» (5,8).

Secoli dopo, nel IV secolo dell’èra cristiana, il vescovo di Milano sant’Ambrogio, dedicherà proprio a Nabot una sua opera (in latino, De Nabuthe) nella quale denunzierà con veemenza l’umiliazione dei poveri e l’arroganza dei ricchi e ribadirà con fermezza la destinazione universale dei beni della terra, voluta dal Creatore. Già il Decalogo ammoniva: «Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo!» (Deuteronomio 5,21).