Iotam e gli alberi riuniti in consiglio


La donna alzaa la mano e indica il monte che le sta di fronte: «I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte, mentre voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù replica: «Credimi, donna, è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità». Questo dialogo, che è letto nei Vangelo dell’odierna festa della Dedicazione della basilica Lateranense di Roma (Giovanni 4,20-24), si intesse tra una donna samaritana e Gesù ai piedi del monte sacro alla comunità scismatica di Samaria, considerata eretica dagli ebrei.

Su quel monte, alto 881 metri e chiamato Garizim, ancor oggi i pochi fedeli samaritani salgono a celebrare la loro Pasqua e lassù essi attendono che alla fine dei tempi appaia il Taheb, il “Restauratore”, cioè il loro Messia. Lassù, secoli prima, era salito un ebreo di nome Iotam, figlio di Gedeone-IerubBaal, il famoso "giudice” di Israele, e, convocati i principi della città sottostante di Sichem, aveva raccontato loro una parabola. Egli, infatti, voleva metterli in guardia contro il suo fratellastro Abimelek che, dopo aver eliminato in un bagno di sangue i suoi 70 fratelli (Iotam era l’unico scampato), aveva tentato di imporsi come re di Sichem.

La parabola di Iotam è riferita nel capitolo 9 del libro dei Giudici, ai versetti 8-15, e ha reso famoso questo oscuro personaggio dei primi tempi del soggiorno degli Ebrei nella Terra Promessa, molti anni prima che apparisse il re Davide. La parabola, in realtà, assomiglia a una favola perché mette in scena alberi parlarni (nelle fiabe di solito a parlare sono però gli animali).

Un giorno — racconta il nostro Iotam sulla cima del Garizim — gli alberi si riunirono in assemblea e all’ordine del
giorno c’era proprio l’elezione di un loro sovrano.

La prima candidatura era scontata: quale scelta migliore dell’ulivo, pianta benefica tipica del panorama mediterraneo? Ma a sorpresa il suo fu un netto ii~ fiuto: «Rinuncerò al mio olio, coi quale si onorano dèi e uomini, per andare ad agitarmi sopra gli alberi?». Toccò, allora, al fico dai frutti deliziosi e simbolo di prosperità e pace, tant’è vero che, quando non c’erano guerre, nella Bibbia si diceva che «ognuno viveva all’ombra del suo fico». Ma la replica fu identica: «RInuncerò forse alla mia dolcezza e al
mio frutto squisito per andare ad agitarmi sugli alberi?».

La terza candidatura proposta era altrettanto scontata: la vite era quasi lo stemma di Israele. Ma anch’essa declinò l’invito: «Rinuncerò al mio mosto che allieta dèi e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi?». È curioso notare come tutte queste piante avessero definito il potere un Magftarsi”, una sorta di frenesia simile alla violenza del vento. Di fronte all’imbarazzo generale, ecco farsi avanti un rovo, arbusto secco, spinoso, parassita, perché pronto sempre a sfruttare gli altri alberi per ergersi.

La sua dichiarazione è un’esemplare definizione della prevaricazione e dell’arroganza del potere: «Se ungerete un re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra. Altrimenti, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano!». Basso eppur prepotente, sterile eppur capace di distruggere col fuoco: questo è il potere. La lezione di lotam non poteva essere più chiara. Ma Abimelek l’ebbe vinta per almeno tre anni, prima di finire tragicamente in battaglia. E lotam fu costretto all’esilio, lontano dal fratello, re e tiranno.