La storia di Osea - una lezione per Israele


La prima lettura della liturgia di questa domenica è un frammento tratto dal libro del profeta Osea. Noi ora ci interesseremo proprio della storia di quest’uomo vissuto nel VIII secolo a.C. nel regno settentrionale di Israele, quello che aveva per capitale Samaria. È lui stesso a narrarcela nei primi tre capitoli del suo libro. Tutto era cominciato con un misterioso ordine divino:
«Va’ e sposati con una prostituta e abbi figli di prostituzione perché questa terra si è prostituita e si è allontanata dal Signore» (1,2). È facile già intuire che Osea (il cui nome contiene il verbo ebraico della “salvezza”, come “Giosuè” e uGesù"), nella sua tormentata vicenda matrimoniale, doveva incarnare una sorta di lezione per Israele idolatra e infedele al suo Dio.

La moglie del profeta si chiama Gomer ed è difficile dire se già fosse una prostituta o invece una di quelle sacerdotesse dei culti della fertilità praticati dai Cananei, gli indigeni della Palestina, bollate spregiativamente dalla Bibbia come “prostitute", o ancora se fosse divenuta in seguito una prostituta. Osea, comunque, s’era innamorato intensamente di lei e aveva avuto da lei tre figli che aveva chiamato con nomi simbolici.

Il primogenito si chiamerà Izreel, nome di una città ove si erano consumate stragi e ingiustizie: quel bambino innocente, dunque, portava un nome insanguinato. La secondogenita era Lo-ruhama/i, “Non-amata”, un nome paradossale per una figlia, ma scelto per evocare l’amore divino deluso e tradito. Infine ecco un altro bambino, Lo-’ammi, “Non-mio-popolo”, un evidente rimando all’estraneità tra Dio e Israele, se è vero che perla Bibbia la formula che indica l’alleanza tra il Signore e gli Israeliti è: «Tu sei il mio popolo e io sono il tuo Dio».

Nei nomi dei figli e nei tradimenti della moglie, Osea ha voluto intuire una sorta di emblema per tutto Israele. Ma il suo cuore innamorato di Gomer non si rassegna, come non si rassegna neppure il Signore. E in una pagina bellissima — che raccomandiamo di leggere integralmente: è il capitolo 2 del suo libro — Osea si abbandona a un soliloquio appassionato.
Egli vorrebbe odiare quella donna, divorziare da lei e farle provare cosa significhi l’illusione diamanti occasionali che non hanno per lei affettovero. Ma in realtà egli non fa che sognare una cosa sola, cioè che lei decida di ritornare al focolare abbandonato.

Allora, Osea celebrerà con lei un nuovo fidanzamento e una nuova luna di miele: la corteggerà ancora, insieme ritorneranno nei luoghi della loro giovinezza, saranno loro soli, appartati negli spazi immensi del deserto, abbracciati l’uno sul cuore dell’altra (è il brano che oggi la liturgia ci propone). «In quel giorno — auspica il profeta — mi chiamerai: Marito mio! E non mi chiamerai più: Mio padrone!» (2,18). Allora anche i nomi dei figli cambieranno e tutti saranno nella gioia. Izreel conserverà il suo nome, ma nel suo senso originario che è quello di “seme divino”, cioè fecondo. La bambina “Non-amata” diverrà “Amata” e a “Non-mio-popolo” dirò: “Mio popolo” (2,25). La vicenda autobiografica del profeta si trasfigurerà, così, in una parabola della conversione e della salvezza di tutto il popolo.