Noè: il giusto che obbedì a Dio


Forse qualche lettore si sorprenderà sentendo dire che quel Noè, che la prima lettura di questa domenica di Quaresima ci presenta, non era un ebreo. In verità egli è una figura nota — sia pure con nomi diversi — ad altri popoli della Mesopotamia e la storia del “diluvio”, che è connessa a lui, è proposta anche da antichissimi testi babilonesi di quella regione, come l’Epopea di Ghilgamesh e il Poema di Atrakhasis. Il punto d’avvio di questo tragico ricordo era probabilmente un evento catastrofico verificatosi nell’area dei due maestosi fiumi Tigri ed Eufrate, fonti di benessere con le loro inondazioni, se incanalate, ma anche causa di devastazioni con le loro piene eccessive. Si pensi che negli ultimi 350 km prima della foce i due corsi fluviali superano un dislivello di soli 34 metri: in pratica si muovono su una pianura che può essere travolta dalla loro massa idrica.

La figura di Noè è fin troppo nota per essere ricostruita ora: la lettura dei capitoli 6-9 della Genesi è sempre affascinante, pur con certe incongruenze, dovute al fatto che in quelle pagine si intrecciano due diverse tradizioni. L’arte rimarrà sempre incantata di fronte a quell’arca dalle misure esorbitanti, una sorta di grattacielo galleggiante, lungo 156 metri, alto 30, largo 26, con la capacità di 65/70.000 metri cubi! Ogni tanto c’è qualche fantasioso che ne vuole scoprire i resti sul monte Ararat (ci ha provato anche un astronauta americano), senza pensare che quel nome nell’originale ebraico indica una regione, l’Urartu, che corrisponde all’attuale Armenia: non per nulla nelle varie tradizioni il nome del monte cambia (anche il Corano ne indica uno).

Noè, in realtà, è l’emblema dei giusti che sono presenti pure nel mondo pagano: Abramo verrà molti secoli dopo. Dio con lui stabilisce già un’alleanza che anticipa quella che stipulerà poi con Israele sul Sinai. È appunto questo l’atto culminante del racconto del diluvio, Il Signore nella sua giustizia irrompe e colpisce il male dilagante e lo fa con le acque impetuose che sono per l’antico Vicino Oriente il simbolo del nulla e del caos. Ma egli salva tutti i giusti, incarnati in Noè, «uomo giusto e integro» in una «terra corrotta e piena di violenza» (Gn 6,9.11).

Con loro dà origine a un’umanità rinnovata che dovrà abbandonare la strada della violenza: «Io», dice il Signore, «domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» (Gn 9, 5). E l’arcobaleno che sfolgora nel cielo sarà il segno non solo dell’arco del giudizio divino ormai deposto, ma anche dell’alleanza cosmica che intercorre tra Dio e l’intera creazione e tutta l’umanità. Tuttavia il male non è deI tutto estirpato. Esso riaffiora nella finale del racconto della storia di Noè.

È la mancanza di rispetto che uno dei tre figli di Noè, Cam, rivela nei confronti del padre. Nella Bibbia si dice che egli «vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli» (9,22). “Scoprire la nudità” nel linguaggio biblico è un’espressione simbolica per indicare l’atto sessuale: Cam avrebbe, allora, perpetrato un incesto con una delle mogli del padre? Il fatto che poi si dica che gli altri due fratelli, Sem e Iafet, «coprirono il padre scoperto» (9,23) fa, però, pensare più genericamente a una violazione del rispetto dovuto al capofamiglia. Certo è che anche nell’umanità rinnovata il germe del male è sempre pronto a risorge
re e a rinvigorirsi.