---

E.GARRONI

(docente di Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma

“…Ora, pare, l'attenzione di studiosi di estrazione diversissima si rivolge non più soltanto al linguaggio-sistema come tale, quanto e soprattutto anche alla questione che i significati debbono essere innanzi tutto possibili entro una qualche più originaria condizione di significazione, comunque identificata, ma in ogni caso non analizzabile in termini di significati. Tale condizione non può essere analizzata neppure in termini di "sensi concreti" delle singole manifestazioni linguistiche, dei singoli atti di «parole», che sono meri fatti, e anzi deve essere qual­cosa che appunto rende possibili, pensabili o comprensibili e i sensi concreti e i significati presupposti dai sensi: ciò che qui viene detto - lo ripeto ancora una volta al fine di evitare fraintendimenti puramente terminologici -"senso" in un senso diverso da quello dei linguisti e dei logici, non questo o quel senso concreto, ma il "senso in genere", il "senso ùberhaupt".

Non è infatti per niente evidente - al di fuori di una tecnica d'analisi utile e parziale, in nessun modo esauriente, tale da "lasciarsi alle spalle", per così dire, i presupposti per cui essa stessa è possibile: il fatto insomma che si stia già nella "significazione", in quanto "anticipazione a priori" della produzione di sensi concreti e della costituzione di significati - come una combinazione di significati, nel senso di significati analizzati classificatoriamente da una linguistica, avrebbe il potere di fare-senso, cioè di tradursi in senso concreto, di significare effettivamente, di rendere possibile una comunicazione e di riferirsi a esperienze comuni. Ammesso che siano chiari nella mente di ciascun parlante - ma l'ammissione già si lascia alle spalle i suoi presupposti - i significati delle sin­gole unità linguistiche, quali la linguistica ha analizzato, come potrebbe a sua volta significare, e rendere possibile una comunicazione, questa o quella loro combinazione? Come poter comprendere e comunicare, cioè andare al di à delle parole come tali, pur concepite non come unità isolate, ma come membri di un intero sistema differenziale di significati, se esse sono state determinate appunto in rapporto a quel sistema e non anche in rapporto ai vari contesti concreti, ciascuno dei quali per definizione non è prevedibile dappertutto? E, ammesso e non concesso che una qualche comprensione e comunicazione si stabilisca, chi e che cosa potrebbe mai decidere che non ci muoviamo esclusivamente all'interno di una sorta di astratta partita a scacchi, interpretabile in modi diversi da ciascun giocatore, e ci riferiamo invece proprio a esperienze comuni e a comuni oggetti del mondo?

Ma qui, sia chiaro, non si tratta di fugare lo spettro dello scetticismo e di cercare rassicurazioni rispetto a una temuta distruzione dell'oggettività e della dimensione sociale della comunicazione. Il fatto è che se non vogliamo tornare alle difficoltà metafisico-empiriche, a mio parere estremamente ingenue, del cosiddetto problema del "mondo esterno" - che suppone qualcosa di troppo forte, assai poco compatibile infine con i suoi non infrequenti esiti scettici: che i comunicanti siano separati tra di loro e contrapposti a un mondo di cui fanno esperienza solo nelle rappresentazioni che ciascuno di essi ne ha - bisogna inevitabilmente, e assai meno dogmaticamente, supporre che, prima delle rappresentazioni dei singoli e prima dei significati che le organizzano linguisticamente, ci sia una comune condizione di senso, implicante un riferimento al mondo, entro la quale i comunicanti già so-no ed entro cui soltanto possono sorgere significati e con­crete produzioni di senso. Anche la forma apparente­mente aggiornata di tale pseudoproblema - quale si esprime ad esempio nel famoso argomento del «cervello dentro la vasca» (Putnam) - non sfugge all'identica ingenuità metafisico-empirica, per il fatto stesso che c'è qualcuno che immagina, dall'esterno dell'immaginato, un cervello dentro la vasca con qualcuno o qualcosa che lo regola, di nuovo, dall'esterno. La trovata sarà forse ingegnosa, ma resta il fatto che essa è possibile solo se si mette tra parentesi, fuori dell'esperienza, l'autore della trovata, il suo essere contrapposto agli enti che essa contiene, cioè infine alla realtà immaginata, nonché il linguaggio sensato, più originario e non escogitato, per cui quella e altre trovate possono essere effettivamente escogitate.

A questo punto però è del tutto insufficiente la «Bedeutung» di Frege, pensata evidentemente solo in vista di asserti, di cui si occupa la logica, ed è richiesta piuttosto una condizione del senso - quale orizzonte preliminare rispetto alle distinzioni soggetto-oggetto, esperienza-linguaggio, significante-significato, e così via - donde poi anche tali distinzioni sono possibili. È richiesto puramente e semplicemente il riconoscimento del nostro, in forza del senso, essere-innanzi-tutto-nell'esperienza, prima ancora dell'insorgere di paradigmi più circostanziati.

Ma che cosa si presume di presupporre e di anteporre al linguaggio-sistema, ai sensi concreti e ai significati, quando si parla di senso, di condizione del senso o di orizzonte del senso a priori? L'obiezione più prevedibile è che saremmo tenuti a esplicitare tecnicamente tale nozione, che altrimenti si collocherebbe nel discorso teorico come un inserto speculativo neutro, un caput mortuum, qualcosa che noi mettiamo dentro la teoria, senza sapere bene, anzi senza sapere affatto, di che cosa si tratta e senza assegnargli in realtà alcuna funzione. Un'impressione del genere può insorgere per esempio - e a torto, da un altro punto di vista - durante la lettura di quel bel libro che è la Logique du sens di G. Deleuze, che ha senza dubbio molte pagine di grande interesse, nonché un titolo francamente abusivo. Infatti, come si è già detto, noi stiamo qui ai limiti di una teoria, e tanto più di una logica, e per certi versi già al di là o al di qua di essa, in quanto ci occupiamo paradossalmente di qualcosa che viene prima di una teoria qualsiasi.

Quest'ultima dichiarazione può lasciare perplessi: non solo non risponde affatto all'obiezione, ma anzi pare che la rafforzi. Tuttavia - senza qui affrontare davvero il problema, di cui ho tentato di occuparmi altrove, di ciò che sarebbe una riflessione filosofica, in quanto distinta da una teoria scientifica - credo di poter dare per scontato almeno questo: che nessuna teoria scientifica può fare a meno di riflessioni filosofiche liminari e concomitanti, o almeno della percezione implicita dei presupposti da essa non tematizzati e non tematizzabili che stanno alle sue spalle; e che, viceversa, nessuna riflessione filosofica può svolgersi del tutto al di fuori di una qualche teoria scientifica e, più in generale, di una qualche esperienza. Una teoria scientifica è in realtà un dispositivo - un paradigma più un insieme di assiomi, di ipotesi e di procedure operative - che appunto si lascia alle spalle l'esperienza stessa, in quanto necessariamente non sottoposta a quel dispositivo e quindi anticipata a priori in una qualche esperienza, entro la quale soltanto la sua costituzione è possibile. Una teoria insomma è per definizione incompleta, e non può non saperlo e non-saperlo nello stesso tempo: nella misura in cui non-lo-sa, tenderà ad estendersi - non come una scienza, ma come una metafisica - anche a quei presupposti da cui invece dipende; nella misura in cui lo-sa, sarà almeno implicitamente, come si dice, riflessione filosofica critica, tendente inversamente e correlativamente a metterla a fronte dei suoi presupposti, in quanto non sottoponibili ad essa.

Non si sta dicendo con ciò che una riflessione filosofica critica sarebbe invece una sorta di superiore teoria completa, come talvolta si è affermato con lo scopo di esaltarla o dileggiarla. Anzi essa non è neppure teoria, al­meno nel senso che non ci fornisce la minima conoscenza. E appunto quella percezione o coscienza - richiedente di essere in qualche modo tematizzata e autotematizzata in una riflessione - dell'incompletezza, della condizionatezza della scienza, che può dare l'impressione di produrre soltanto capita mortua, proposizioni che potrebbero essere eliminate senza danno per le nostre conoscenze, il nostro sapere, la nostra cultura in genere, solo se si continua a pensarla in termini di conoscenza, magari di presunto ordine superiore: i «superordini» e i «superconcetti» di Wittgenstein.

L'esempio di Frege può essere di nuovo utile, per tentare di mostrare che qui non sono affatto in gioco - almeno ce lo auguriamo - le vacuità dei filosofi speculativi. Se della «Bedeutung», per se stessa non dicibile, si può parlare solo in termini di «Sinn», della «Bedeutung» ùberhaupt, in quanto presupposto di asserti, parla tuttavia il logico, solo il logico, arrogandosi un diritto che, in forza della stessa teoria logica, non può essere fatto valere in nessun asserto genuino e che ogni asserto genuino, per essere compreso come tale, nello stesso tempo reclama: ne parla quindi avendone e non-avendone il diritto, mettendosi nella condizione di stabilire lo statuto degli asserti genuini e nello stesso tempo mettendosi al di fuori di ogni asserto genuino, non in un asserto in cui si parla in termini di «Sinn» di qualcosa, la «Bedeutung», che rende appunto possibile l'asserto, ma in una sorta di "quasi-asserto" in cui si parla direttamente il qualcosa stesso, cioè la condizione di asserti genuini possibili. Così che il logico compie un'operazione insieme scorretta e corretta: corretta, perché solo così divengono possibili e comprensibili una logica e gli asserti che essa studia; scorretta, perché la logica si incorpora in tal modo qualcosa che in realtà la precede e a cui tende illegittimamente a estendere se stessa.

A questo punto sembra essere richiesta necessariamente e paradossalmente una riflessione che non può non essere contenuta in qualche modo nella teoria e nello stesso tempo la eccede, con la piena coscienza tuttavia che le cose stanno precisamente in questi termini.

---

Attraverso ciò che chiamiamo "filosofia", dunque, noi cogliamo o ci sforziamo necessariamente di cogliere qualcosa che a rigore non può essere detto - essendo piuttosto la condizione del dire, eccedente questo o quel detto - e che tuttavia deve pur essere detto in qualche modo questo o quel detto essendo cosiffatto in forza della sua condizione - se diciamo ciò che diciamo. Il che non vuoi dire che esiste un'essenza del dire concreto, tale da riassumere e consegnarci l'intera fisionomia di tutti i possibili detti, che verrebbero così ridotti sotto una suprema categoria omogeneizzante. Questo, lo pensano solo i filosofi neopragmatisti, nella loro inconsapevole metafisica. Vuoi dire piuttosto questo: che - quali e quanti che siano i detti, sia pensabile o no il linguaggio come qualcosa di omogeneo, o sia esso piuttosto la «famiglia», nel senso di Wittgenstein, dei tanti detti eterogenei, non provvisti di almeno un tratto pertinente comune a tutti - resta il fatto che, in tanto possiamo porci il problema della loro omogeneità o eterogeneità, in quanto essi sono non oggetti in tutti i sensi diversi e imparagonabili, ma precisamente detti che si inscrivono in un orizzonte che li condiziona. Questo loro comune esser "detti", questo loro comune "orizzonte di senso", non è determinabile mediante tratti pertinenti o criteri di appartenenza. E tuttavia proprio entro, non al di fuori di quell'orizzonte, noi percepiamo il detto come detto, cioè come qualcosa-che-fa-senso, quale che sia il linguaggio che parliamo o il «gioco linguistico» che giochiamo.

Che cos'è allora la filosofia? Non è una scienza, naturalmente. Non è una qualche speciale conoscenza - infatti ci fa conoscere propriamente nulla - pur non potendo prescindere da una conoscenza. Ancor meno, si è detto, è un improbabile sapere superiore, che sarebbe pur sempre, se possibile, una scienza e una conoscenza. Non è neppure una qualche particolare esperienza - dato che con la filosofia non è affatto in gioco un 'esperienza tra esperienze - pur avendo il suo luogo, o dove altrimenti?, proprio nell'esperienza, anzi in una determinata esperienza, donde soltanto può sorgere una riflessione filosofica. Non è generico esercizio di capacità intellettuali, non è "intelligere", anche se l"'intelligere" - ma non è sempre sicuro - sembra esservi implicato, talvolta anche in un grado elevato, come nei cosiddetti "grandi pensatori". Non è senz'altro uso del linguaggio - essendo la filosofia, in quanto ne parla, in un certo senso oltre il linguaggio - sebbene senza linguaggio non vi sia alcuna filosofia, né sensata né delirante. Non è infine sentimento consapevole della vita - che, se qualcosa del genere esiste, sta semmai dappertutto e non nella sola filosofia - pur giungendo a riconoscere nel "senso" qualcosa che è ad evidenza più affine a un "sentimento", al «Sinn» come «Gefùhl», nel senso di Kant, che non a un "concetto".

Essendo il riconoscimento di qualcosa che dobbiamo poter riconoscere, se conosciamo, sappiamo, facciamo, abbiamo esperienze e proviamo sentimenti, potrà essere chiamata - più che "filosofia", nome che evocava fino a ieri l'idea di una disciplina fortemente istituzionalizzata - in modi diversi: "pensiero" (o "pensare" o "rammemorare"), "riflessione , comprensione" ecc. Ad altri, e a me stesso, è capitato di denominarla con l'espressione "risalimento": ancora una metafora (ma quale espressione non è per un certo verso una metafora?), al pari di "riflessione", forse più espressiva del fatto che la filosofia, invece di essere un riguardare l'esperienza dall'esterno dell'esperienza, come in uno specchio, essendo e non potendo non essere esperienza, sta piuttosto dentro l'esperienza, di cui si sforza di cogliere l'orizzonte dal suo stesso interno. Il fatto è che la filosofia non può e non deve essere definita in positivo: qualcosa come una filosofia è pensabile che esista, anzi che debba esistere necessariamente, solo se lo cogliamo nel suo statuto oscillante e paradossale, nel suo spingersi ai "margini estremi" dell'esperienza e del linguaggio, pur standoci sempre dentro.

Ora, proprio e solo questa attività così poco disciplinare osa, può osare di parlare di qualcosa che non può essere detto. Ma il suo osare non ha niente di eroico. In realtà non si può non osare di parlare dell'indicibile, se semplicemente diciamo il dicibile, il dicibile come tale e il dire in genere essendo precisamente indicibili. In particolare, di fronte al problema del "significato", non si può non osare di parlare, "filosoficamente" appunto, del "senso", anche se e proprio perché il senso, quale condizione di significati determinati, non è a sua volta qualcosa di determinato e di determinabile.

---

Ma questo "osare" - questo "non poter non osare deve essere inteso in una duplice accezione: in primo luogo, fondamentalmente, come "osare di dire l'indicibile attraverso il dicibile"; in secondo luogo, subordinatamente, come "osare di dire il dicibile attraverso l'indicibile". Si tratta, certo, di un solo non-poter-non-osare, caratterizzato dall'unione spericolata e obbligata, arrischiata e non eroica, nell'interrogazione filosofica, di dicibile e indicibile, di detto e dire, di significato/senso-concreto e senso in genere. Ma nel discorso, in cui deve articolarsi una effettiva, autotematizzata riflessione filosofica, esso si presenta discorsivamente come due diversi problemi, pur nascenti da una medesima interrogazione, che richiedono di essere considerati distintamente, al di qua dell'unità di fondo.

"Osare di dire l’indicibile attraverso il dicibile" individua in sostanza il già accennato "problema della filosofia” quel problema che più esattamente, riprendendo un'espressione di P. Carabellese, deve essere detto "problema interno della filosofia", nel senso di un genitivo oggettivo: il problema della possibilità della filosofia, il problema che la filosofia pone di sé a se stessa. E un problema arduo, non risolubile definitivamente e rigorosamente, almeno al modo stesso in cui possono essere risolti, a certe condizioni, i problemi logici, conoscitivi e tecnici. (Qui può tornare utile la distinzione terminologica tra "problema" e "questione", "Problem" e "Frage"). È anzi il problema che è, in qualche modo insuperabilmente, la filosofia stessa. Esso può essere espresso nella seguente forma semplificata: come è possibile che la filosofia, stando necessariamente nell'esperienza, nel condizionato e non in un luogo (in realtà un non-luogo) esterno all'esperienza, parli tuttavia dell'esperienza come tale, della sua condizione, cioè dell'incondizionato, che per altro verso fa sì che il condizionato sia precisamente ciò che è? Non andremmo forse incontro, facendo filosofia, quale che sia, ad antinomie inevitabili? E ciò non toglierebbe forse legittimità, altrettanto inevitabilmente, a ogni riflessione filosofica? E tuttavia come non fare filosofia, se già la facciamo anche quando decidiamo di non farla e dichiariamo di rimetterci per esempio ai "fatti", all’“esperienza”, al nostro "agire concreto", parlando precisamente di qualcosa che non è fatto, esperienza, agire concreto? Ma questo è l'aspetto della questione, come ho già detto, che non si prenderà qui in considerazione.

L’altro aspetto o problema - "dire il dicibile attraverso l'indicibile" - è solo apparentemente sorprendente, e può sorgere solo dopo il problema della filosofia e sulla presunzione che esso sia stato in qualche modo "risolto". E poiché una tale presunzione è sempre in una certa misura aleatoria e problematica - il problema stesso essendo risolubile solo continuamente riproponendosi nell'interrogazione fondamentale - questo secondo problema potrà parere addirittura fittizio e trascurabile: in realtà, si potrebbe dire, non passeremo mai a questo secondo problema, se siamo davvero condannati a ritornare continuamente, nell'interrogarci sull'interrogarci, al primo problema centrale e condizionante. Continueremo per un verso a interrogarci sull'interrogarci, a tematizzare il "dire come tale" e il "senso"; e per altro verso continueremo nello stesso tempo a parlare dei detti, dei sensi concreti, dei significati a essi correlati, cioè di determinati dicibile, così come ci sono dati di fatto, a condizioni puramente contingenti, nella loro sospensione e apparente liberazione, senza che si accampino su un "dire come tale" o su un "senso", cioè senza rinviarli a quella condizione per cui essi sono precisamente dei condizionati o, insomma, senza "saperne niente". E tuttavia non possiamo nello stesso tempo vietarci di pensare che si è pure in qualche modo risposto, non solo perché ci siamo sforzati di farlo e non potevamo non sforzarci di farlo, "sapendone pur qualcosa", se appunto il condizionato è tale e ne parliamo, ma anche perché il semplice rinvio della risposta alla continua riproposizione della domanda farebbe di questa domanda una domanda "astratta" - voglio dire, più precisamente: "destituita di ogni consistenza ontologica", asserita dall'esterno di un reale domandare - e si risolverebbe in una fatua filosofia "aperta" o "problematicistica", soddisfatta dell'apertura e della problematicità dichiarate, come se fossero senz'altro apertura e problematicità praticate o concretamente esperite. È quindi tanto azzardato, quanto inevitabile, porsi anche il secondo problema, anche se per caso siamo profondamente insoddisfatti della qualche risposta che abbiamo dato al primo. Soddisfacente o insoddisfacente che sia la risposta, stiamo in ogni caso in un'interrogazione che è al tempo stesso dire come tale, senso in genere, anticipazione a priori dell'esperienza.

Ma questo secondo problema - "dire il dicibile attraverso l'indicibile" - non sembra a questo punto meno arduo del primo. Il suo senso può essere espresso rapida­mente nella forma seguente: posto che il dicibile senso concreto, nonché il significato dicibile, è tale alla condizione di un senso indicibile, la tematizzazione di tale senso in genere non ostacolerà, per il fatto di essere stato pur detto in qualche modo, il dire lo stesso dicibile? Il dicibile e il detto non vedranno compromessa la loro peculiare natura di dicibile e detto?

---

La difficoltà di tale questione può apparire sulle prime irrisoria. In che senso potremmo mai temere di rischiare dicibile e detto, se continuiamo e non possiamo non continuare a dire questo o quello nelle situazioni determinate in cui di volta in volta ci troviamo? Qualsiasi cosa dica o non dica la cosiddetta "filosofia", in tutte le sue versioni critiche o metafisiche, non cambia per questo il mondo e non si trasforma radicalmente e in tutti i sensi, di solito, la nostra esperienza: stiamo pur sempre qui e ora, e abbiamo pur sempre a che fare con le contingenze che costituiscono la finitezza del nostro esserci. E nessuno infatti si aspetta che la contingenza, su cui fanno presa sensi concreti e significati, debba o possa essere dedotta da un pensiero filosofico. Ma qui non si tratta di dedurre il mondo, l'esperienza o la contingenza: si tratta piuttosto di vedere se, nella filosofia stessa, la sensatezza dei detti, che il senso condiziona, resti tale, una volta che i detti siano risaliti, in sé e oltre di sé, alla loro condizione di senso, o se per caso non rischi di rovesciarsi in insensatezza, trasformando a sua volta il senso in non-senso.

In realtà un'ironica e radicale sottovalutazione della difficoltà non è così innocente, come può parere forse sulle prime. Essa implica anzi una concezione non più sostenibile della filosofia, come riflessione che da un impossibile non-luogo esterno stabilisce e descrive non solo gli oggetti del mondo o dell'esperienza, ma mondo ed esperienza nella loro globalità, o le condizioni per cui mondo ed esperienza sono pensabili, e quindi, partitamente, sensi concreti, significati, senso in genere. Certo, se diamo per pacifico fin dall'inizio che sia possibile una tale filosofia non richiedente di autolegittimarsi, come se l'esistenza di un non-luogo privilegiato del genere fosse fuori discussione, non nascerà alcuna difficoltà dal fatto che essa si occupi di aspetti parziali del mondo e/o della sua totalità, del particolare e/o dell'universale, del contingente e/o del necessario, del condizionato e/o delle sue condizioni. Senza dubbio, ciò che può essere detta, non senza distorcente sommarietà, "metafisica tradizionale" - si tratti di Platone, di Aristotele, di Tommaso d'Aquino, di Descartes o di Leibniz, messi da parte precisamente gli aspetti critici della loro riflessione, che non permettono a rigore di dividere materialmente la storia del pensiero in un"'era metafisica" e in un"'era critica" - ha dinanzi a sé una via straordinariamente piana e liscia, dato che può permettersi il lusso di "riflettere" o "speculare", nel senso etimologico delle espressioni, senza impedimenti e senza vincoli, oltre quelli della plausibilità culturale e della coerenza logica. O, meglio, non avrà impedimenti eccetto quello, essenziale, costituito da se stessa. Tale metafisica sempre che una tale metafisica sia mai esistita davvero e in senso assoluto - può infatti descrivere e giustificare qualsiasi cosa, il dicibile e anche l'indicibile, senza far entrare in cortocircuito i propri entia rationis, a patto però di non descrivere e giustificare se stessa, accettandosi tacitamente come riflessione esterna al mondo o all'esperienza, possibile contraddittoriamente al di fuori del mondo e dell'esperienza.

Ma, appena la filosofia rientra nel mondo o nell'esperienza, ecco che tutte le sue descrizioni e giustificazioni oggettive debbono essere rimesse in questione: essa deve, sì, poter parlare in  qualche modo dell'universale, ma dall'interno del particolare, deve, sì, poter parlare del necessario, ma dall’interno del contingente, deve, sì, poter parlare della condizione o dell'incondizionato, ma dall'interno del condizionato. Parimenti deve poter parlare del senso, ma sempre dall'interno dei sensi concreti e dei significati: e un qualche cortocircuito tra senso in genere e sensi-concreti/significati, che la metafisica poteva illudersi di evitare, in quanto piuttosto lo scaricava tacitamente su se stessa, è allora, pare, difficilmente evitabile.

Sia chiaro però che una filosofia consapevole del proprio problema interno - consapevole anzi di essere essenzialmente il proprio problema interno, a partire dal quale possono essere criticamente posti tutti gli eventuali e ulteriori problemi della filosofia, nel senso questa volta di un genitivo soggettivo - rientra nel mondo o nell'esperienza non in virtù di una generica istanza antimetafisica o di una sorta di ideologia immanentistica, non cioè nella forma di una metafisica umanistica, materialistica, storicistica o neopragmatistica. Vi rientra perché criticamente rifiuta di stare altrove rispetto a dove effettivamente sta e non può non stare, pur riservandosi, se vuole e se può, di attraversare tutta la regione dell'esperienza comune per approdare in altri luoghi scarsamente frequentati, ma almeno presuntivamente non utopici e pur sempre, in qualche modo, appartenenti a un'esperienza. La filosofia non può impedire a nessuno di intraprendere questi viaggi avventurosi. Ognuno, in queste faccende, si regoli come può e vuole, secondo le proprie inclinazioni psicologiche e secondo le categorie della cultura in cui abita. Può e deve impedire però che questi viaggi siano intrapresi semplicemente partendo da un luogo che non c'è o c'è solo in un uso incontrollato e fantasticante del pensiero, vale a dire occultando ciò che è il suo problema interno e che è venuto alla luce come il suo vero e proprio problema costitutivo. Almeno da Kant in poi i sogni metafisici dei visionari non sono più possibili.

In altre parole: una filosofia cosiffatta - che a me pare essere l'unica filosofia possibile, ma, certo, non nel senso in cui si credono talvolta uniche filosofie possibili certe metafisiche ingenue, desiderose di fornirci l'unico vero sapere assoluto - è caratterizzata per ciò stesso da una costitutiva identità-differenza di particolare e universale, di contingente e necessario, di condizionato e condizione, di detto e dire come tale, di dicibile e indicibile, di senso-concreto/significato e senso in genere. Se una filosofia cosiffatta si pone il problema del senso in genere, non se lo pone accanto al problema dei sensi concreti e dei significati di cui deve pur servirsi, come se potesse porselo indipendentemente da questi, ma se lo pone attraverso sensi concreti e significati, spingendoli, per così dire, ai limiti di se stessi, nello sforzo di dire attraverso di essi ciò che è piuttosto la loro condizione interna ed eccedente. Così, la questione del senso non è scindibile - secondo una riforma critica del "trascendentale" che mi pare tipica, sia pure secondo modalità almeno apparentemente diverse, di Heidegger e di Wittgenstein - dalla questione del significato e dei sensi concreti, e dallo stesso dire in concreto sensi concreti, ma si formula piuttosto al loro interno, come un'emergenza o eccedenza "trascendentale" di ciò che è nello stesso tempo e per altro verso "empirico".

La filosofia dunque non sta dappertutto o quando che sia - vale a dire: in nessun luogo e in nessun tempo - ma, per così dire, sta precisamente qui e ora (anche se non necessariamente in un qui-ora puntuale: infine, parlando, parliamo anche il linguaggio di Kant, di Leibniz, di Tommaso, di Aristotele, di Platone), nel momento e nel luogo in cui riflettiamo criticamente usando il linguaggio comunemente usato (da non confondere necessariamente con il cosiddetto "linguaggio quotidiano") o addirittura «terra-terra», come è ben chiaro a Heidegger e Wittgenstein, e sottoponendolo nello stesso tempo a una sorta di deformazione metodica per fargli dire non senz'altro l'ovvio concreto, quale viene comunemente detto, ma, diciamo, l'ovvio della non-ovvia condizione dell'ovvio, quale comunemente non viene detto, pur stando sotto gli occhi di tutti. Con ciò la riflessione critica raddoppia l'ovvio fino a farlo apparire - quale è, in quanto ovvio - non-ovvio. Raddoppia, ripete, risale il particolare, il contingente, il condizionato nella loro interna ed eccedente universalità, necessità, incondizionatezza. In questo senso -cioè in un senso che non ha niente a che fare con un qualche storicismo - la filosofia è sempre filosofia storica: proprio qui e ora infatti, con i sensi concreti e i significati che abbiamo a disposizione, noi stiamo parlando, per quanto è possibile, del senso in genere quale condizione, dappertutto e quando che sia, di tutti i sensi concreti e i significati effettivi o possibili. Stiamo in un certo dicibile e, attraverso quel certo dicibile, parliamo di senso in genere, riferibile insomma a tutto il dicibile e insieme non separabile da quel certo dicibile da cui sorge.

Si potrebbe essere tentati di dire che proprio in un certo dicibile, in una data situazione storica, è possibile che emerga il problema del senso, non prima, non dopo, non in altre situazioni. E un'affermazione forte, se spinta fino alla delineazione di una dubbia "storia epocale del pensiero". Sembra tuttavia che il problema del senso, tale e quale, non possa sorgere - ma in un senso soltanto negativo - dove che sia e quando che sia: e sta il fatto che càpita che si ponga proprio o soprattutto qui e ora. Ma che si ponga qui e ora non significa d'altra parte - se non per un pensiero già pregiudicato realisticamente, che ha già provveduto a contrapporsi come un nulla d'esperienza a un mondo già interamente categorizzato spazio-temporalmente, esso stesso al di fuori di un'esperienza - che si esaurisca nel qui e nell'ora, quali che siano le loro dimensioni: nel qui e nell'ora, con i sensi concreti e i significati effettivamente disponibili, avviene semplicemente un risalimento possibile-impossibile al senso in genere, dappertutto e quando che sia.

Ma proprio per questo il nostro problema - "dire il dicibile attraverso l'indicibile" - si mostra ora in tutta la sua gravità: ci è ancora dato o no, alle condizioni delineate, di continuare a praticare "seriamente" il dicibile - non di fatto, naturalmente: di fatto continueranno ad assediarci infiniti sensi concreti, significati e problemi particolari, di portata familiare o planetaria, che in se stessi però potrebbero essere divenuti tragicamente non più "seri", anche se angustianti, dolorosi o terribili - una volta che l'abbiamo piegato a dire l'indicibile, rischiando di trasformarlo in una sorta di simbolo universalmente intercambiabile e di sottrargli la sua consistenza e "serietà" di dicibile, anzi di questo o quel detto, cui affidiamo di solito il nostro comportamento e il nostro destino?

---

Come una metafisica non visionaria (ma, l'esatta sua delimitazione rispetto a quella visionaria, l'affido qui soltanto al buon senso, così spesso pessimo) non può non essere in qualche misura una filosofia critica, vale a dire: non può non dar forma nello stesso tempo, attraverso i contenuti del sapere storico, a una qualche riflessione o sforzo di comprensione, per cui il compito dell'interprete dovrà essere precisamente quello di scoprire, al di sotto dell'eterogeneità contenutistica di un pensiero costituito, quasi mai in linea di principio del tutto compatto e solidale con se stesso, la vera domanda filosofica fondamentale; così ogni riflessione, che si autotematizzi come critica, non può non continuare a trasportare con sé contenuti del sapere storico. Una riflessione critica, per definizione, non si eccettua dalla storia, cioè dall'esperienza effettiva, dai sensi concreti e dai significati storici che essa trova intorno a sé. Ciò sembra assicurarle per un verso un'adesione ai sensi e ai significati storici necessaria e costante, che la cosiddetta metafisica può talvolta perdere di vista: qui e ora infatti comprendiamo dappertutto e quando che sia, non viceversa. Ma per altro verso, in quanto mira a far emergere attraverso sensi e significati storici una qualche condizione universale e necessaria, il senso appunto, non tenderà - come l'interprete qui raccomandato dei testi di metafisica - a considerare quei contenuti più come veicoli di comprensione che non come un sapere da prendere "sul serio", anzi come detriti di cui non ci può liberare, sì, in linea di principio, ma, in quanto "sottoprodotti" pur inevitabili, non "utilizzabili" al pari del "prodotto principale"?

Senza dubbio, quella condizione viene risalita, nell'unico modo criticamente accettabile, proprio per conferire sensatezza a significati e sensi concreti, nonché alle più complesse strategie del sapere individuale e sociale. Ma, nello stesso tempo, proprio la sua paradossale esplicitazione non rischierà di parificarli tutti nel loro essere varianti di sensatezza, "seri" nell'essere sensati come che sia, ma non altrettanto "seri" nel loro proprio far-senso? É un rischio, ripeto, che la cosiddetta metafisica, o piuttosto il suo stereotipo, non corre, se essa può porre da un lato il senso e dall'altro i sensi, essendo esterna a entrambi, e tanto meno se avrà senz'altro ipostatizzato nel senso i sensi. Questa presunta metafisica, nel suo ideale statuto assoluto, è ciò che è: prendere o lasciare. Ma una filosofia critica, consapevole del proprio problema interno, sì, può correrlo.

La sensatezza che essa persegue consiste in quell'identità-differenza di sensi-concreti/significati e di condizione del senso che alla fine riceve la sua luce proprio dal senso come tale, pronto a dominare e riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona. La nozione – evidentemente paradossale, sempre al limite dell'antinomia - di "identità-differenza" è in realtà una nozione instabile, oscillante. Può continuamente spezzarsi nelle sue articolazioni. Ma anche tenerla ferma, troppo ferma, nella sua instabilità e oscillazione potrebbe significare riseparare involontariamente, al modo della metafisica ipotizzata, ciò che deve essere invece distinto e unito a un tempo. Può accadere, certo, che ci si ritenga soddisfatti nel tenerla ferma, ma forse solo perché ciò ci consentirebbe, non senza inganno verbale, di continuare a parlare e di senso e di sensi, uniti sotto il profilo dell'identità, ma distinti sotto il profilo della differenza. E con ciò non si sarebbe ancora una volta riflettuto dall'esterno sull'asserita identità-differenza, e l'asserita identità-differenza non sarebbe ancora una volta soltanto uno stare-accanto del senso ai sensi, e in sostanza una mera differenza o separazione? Non avremmo, per così dire, "salvato" la filosofia critica proprio in quanto l'abbiamo trattata esattamente come una metafisica? Se d'altra parte volessimo recuperare di nuovo anche l'identità, e con ciò il genuino carattere di una filosofia critica, non accadrà che l'identità “farà aggio" sulla differenza, con il conseguente riassorbimento della sensatezza nel senso in genere, sempre pronto a trasformare in semplice variante la sensatezza dei sensi?

Solo una fede estrema e indiscussa sull'ossimoro "identità-differenza" può trattenerci dal tematizzare il problema sorprendente e irrisorio del "dire il dicibile attraverso l'indicibile". Un ossimoro non è infine che un'antinomia potenziale contratta: non è necessariamente un'antinomia, ma può diventarlo. Sarà compito della riflessione filosofica mostrare, se è possibile, che esso è non ancora propriamente un'antinomia, ma solo un "paradosso" padroneggiato e non antinomico. Ciò riguarda ancora una volta il primo problema accennato. Ma, anche ammesso che la trasformazione dell'antinomia potenziale in paradosso non antinomico risultasse accettabile, l'aver assicurato sensatezza a tutto non continuerebbe per caso a convertirsi in uno svuotare di sensatezza ogni cosa?

Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascuno di essi, convertendosi esso stesso in non-senso. E questa proposizione problematica non attiene affatto a un modo di pensare puramente speculativo, nel senso infamante dell'espressione, e riguarda invece proprio il nostro comportamento e il nostro destino. Un solo esempio, ma di dimensioni planetarie. Se è vero che, superato il vecchio etnocentrismo, l'antropologia moderna mira a conferire sensatezza a ogni cultura, a ogni "gioco culturale" possibile, insistendo sulla loro molteplicità e imparagonabilità, ciò non comporta affatto che gli altri "giochi culturali" vengano davvero "presi sul serio", dal loro proprio interno. Al contrario, vengono tutti parificati come "varianti di sensatezza", come veicoli o simboli di quel senso che rende possibili i giochi più diversi. I primi a sentirsi violentati da questa concezione non-etnocentrica sarebbero proprio i rappresentanti delle culture così salvate nella loro propria consistenza e ''serietà''. È, naturalmente, sicuro che il vecchio imperialismo coloniale e antropologico ha provocato guasti e corruzioni, oltre che tragedie materiali. Resta però il fatto che esso, senza volerlo, ha posto i gruppi egemonizzati di fronte al problema della "perdita", della (possibile o impossibile) "salvezza", della "trasformazione" e magari della "degradazione" o della "scomparsa" violenta della loro propria cultura, percepita pur sempre, e dagli oppressi e dagli oppressori, nella sua "serietà". Il "rispetto" astratto del non-etnocentrismo invece - posto che esso si realizzasse davvero, al di là delle pressioni politico-economiche, se non più militari - toglierebbe loro precisamente ogni "serietà".

Questo è però solo un esempio particolarmente evidente. Ciò che vale per le culture altre, vale parimenti per la nostro stessa cultura: a quale sapere concreto assegnare oggi "serietà " di significato, se il senso ha davvero trionfato e ha diffuso la sensatezza dove che sia e quando che sia?

---

Ho detto all'inizio di non voler propormi una tesi da dimostrare. Mi sono limitato a esporre un possibile problema, non ancora del tutto chiarito, o una questione, che riguarda non solo un'epistemologia delle scienze umane, ma, per così dire, il nostro stesso essere umani. Ho detto anche che la domanda appena tratteggiata sul convertirsi del senso in non-senso si pone ancora, pur sempre, all'interno di un orizzonte di senso. Infatti quella stessa domanda, altrimenti, non sarebbe a sua volta sensata e si toglierebbe automaticamente come domanda.

Le considerazioni appena svolte non hanno quindi una vera e propria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso in cui consiste la filosofia, vale a dire: che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla. Non soltanto è un duplice, inevitabile osare il parlare di senso attraverso significati e il parlare di significati attraverso il senso, ma è un osare, un rischio fondamentale il senso come tale, in quanto dà e toglie sensatezza, in quanto è e non è a sua volta senso.

A questo punto, se non una conclusione, posso forse arrischiare un suggerimento, suscettibile di essere meglio ripensato in seguito. Forse il senso è questo stesso rischio: questo non poter non dare sensatezza e questo non poter non toglierla. Forse il senso è il rischio, che non possiamo non correre, di cogliere la sensatezza, mentre ci viene sottratta, e di perderla, mentre la conquistiamo. Forse niente, se il senso è tale, può mai liberarci da questo duplice rischio fondamentale e acquietarci definitivamente nel­l'universale sensatezza o in un, sempre più improbabile, significato supremamente sensato, l'unico "serio”. Forse niente può tuttavia, nello stesso tempo, liberarci dal compito di riconquistare sempre di nuovo la sensatezza, alla condizione del senso, e incarnarla, per quanto è possibile, in un significato "rischioso" e "serio". Forse il senso si profila ora come il dover-essere sensato. E qui, forse, ritroviamo - come già in Kant - la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere, la cui unità si fonda su un'interrogazione non destituita di consistenza ontologica o come il rivelarsi qui-ora dell'essere-progettante dell'esperienza in cui siamo e che siamo per essere.” [ESA, 250-270]

 

 

 [ESA] – E. Garroni, Estetica uno sguardo-attraverso, Garzanti, 1989