HEIDEGGER

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CIRCOLO ERMENEUTICO E LOGICA DELLA COERENZA

[…] Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l'altro ha quella possibilità d'essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci [Dasein]. La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell'essere richiede l'adeguata esposizione preliminare di un ente (l'Esserci) nei riguardi del suo essere.

Ma un'impresa del genere non incorre in un evidente circolo vizioso? Che cos'è se non muoversi in un circolo vizioso determinare un ente nel suo essere e poi pretendere di impostare su tale determinazione il problema dell'essere? L'elaborazione del problema non assume già come «presupposto» ciò che solo la soluzione del problema è in grado di apportare? Le obiezioni formali, come quella di «circolo vizioso nella dimostrazione», sempre facile a sollevarsi a carico di indagini sui principi, sono sempre sterili in sede di riflessione sui procedimenti concreti della ricerca. Esse non hanno alcun peso nella comprensione delle cose e impediscono il progresso dell'indagine.

Ma in effetti, nell'impostazione del problema da noi discusso, non ha luogo alcun circolo vizioso. Un ente può esser determinato nel suo essere senza che debba per ciò stesso esser già disponibile il concetto esplicito del senso dell'essere. Se così non fosse, non si darebbe ancora fino ad oggi alcuna conoscenza ontologica, mentre la sussistenza di essa è ben difficilmente negabile. L’ «essere» è senz'altro presupposto da tutte le ontologie finora esistite: ma non come concetto disponibile, non come ciò di cui si va alla ricerca. La «presupposizione» dell'essere ha il carattere di un colpo d'occhio preliminare sull'essere, in modo che, in base a questa prima ispezione, l'ente in esame venga provvisoriamente articolato nel suo essere. Questo colpo d'occhio direttivo sull'essere nasce da quella comprensione media dell'essere in cui già da sempre ci muoviamo e che, alla fine, appartiene alla costituzione essenziale dell'Esserci. Un «presupporre» del genere non ha nulla a che fare con l'assunzione di un principio da cui si ricavano deduttivamente delle conseguenze.

Nell'impostazione del problema del senso dell'Essere non può aver luogo alcun «circolo vizioso» perché la risposta a questo problema non ha il carattere di una fondazione per deduzione, ma quello di una ostensione che fa vedere il fondamento [cfr. il concetto di ”ostensione” con il concetto di “mostrare” in Wittgenstein].

Nel problema del senso dell'essere non ha luogo alcun «circolo vizioso», bensì un singolare «stato di retro o pre-riferimento» del cercato (l'essere) al cercare quale modo di essere di un ente. L'influenza essenziale che il cercare subisce dal suo cercato fa parte del senso più proprio del problema dell'essere. Ma ciò significa soltanto che l'ente che ha il carattere dell'Esserci ha un rapporto col problema dell'essere stesso, rapporto che forse è anche del tutto particolare. […] [EeT, 23-24]

 

[…] Anche la comprensione, in quanto apertura del Ci, riguarda sempre l'essere-nel-mondo nella sua totalità. In ogni comprensione del mondo è con-compresa l'esistenza, e viceversa. Ogni interpretazione si muove nella struttura del «pre» che abbiamo descritta. L'interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compreso l'interpretando [cfr il “seguire una regola” in Wittgenstein]. Si tratta di un fatto già notato da tempo, benché solo nell'ambito di forme derivate di comprensione e di interpretazione come l'interpretazione filologica. Questa cade nel dominio della conoscenza scientifica. Un tal genere di conoscenza richiede la rigorosa giustificazione dei propri asserti. Il procedimento dimostrativo scientifico non può incominciare col presupporre ciò che si propone di dimostrare. Ma se l'interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus. Ne deriva la rimozione a priori dell'interpretazione storiografica dal dominio del conoscere rigoroso. Poiché il costituirsi del circolo è un fatto che non può essere eliminato, la storiografia finisce per doversi accontentare di procedimenti conoscitivi meno rigorosi. Si crede di poter in qualche modo ovviare a questa mancanza di rigore facendo appello al «significato spirituale» dei suoi «oggetti». Anche secondo l'opinione dello storiografo, l'ideale sarebbe, certo, che il circolo potesse essere evitato e trovasse fondamento la speranza di poter un giorno costruire una storiografia indipendente dall'autore, come si presume lo sia la scienza della natura.

Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si «sente» come un'irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo. Non è il caso di modellare comprensione e interpretazione su un particolare ideale conoscitivo, che, in ultima analisi, è pur sempre una forma derivata di conoscere, smarritasi nel compito in sé legittimo della conoscenza della semplice-presenza nella sua incomprensibilità essenziale. Il chiarimento delle condizioni fondamentali della possibilità dell'interpretazione richiede, in primo luogo, che non si disconosca in partenza l'interpretare stesso quanto alle condizioni essenziali della sua possibilità. L'importante non sta nell'uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l'espressione della pre-struttura propria dell'Esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata in modo genuino solo se l'interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole e ultimo, è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema. Poiché la comprensione, per il suo senso esistenziale stesso, è il poter-essere dell'Esserci, le presupposizioni ontologiche del conoscere storiografico trascendono in modo essenziale l'idea di rigore delle scienze esatte. La matematica non è più rigorosa della storiografia, ma semplicemente più ristretta quanto all'ambito dei fondamenti esistenziali per essa rilevanti.

Il «circolo» del conoscere appartiene alla struttura del senso, che è un fenomeno radicato nella costituzione esistenziale dell'Esserci, nella comprensione interpretante. L'ente per cui, in quanto esser-nel-mondo, ne va del suo essere stesso, ha una struttura circolare di carattere ontologico. Ma poiché il «circolo» è un'immagine che cade nel dominio ontologico della semplice-presenza (sussistenza), bisognerà guardarsi, in generale dal caratterizzare ontologicamente con questo fenomeno un ente come l'Esserci. [EeT, 193-195]

 

[…] è opportuno che l'indagine ritorni ora esplicitamente sull' «argomento del circolo», per esaminarlo alla luce della situazione ermeneutica propria della problematica ontologico fondamentale. L'«accusa di circolo» mossa all'interpretazione esistenziale dice: prima si «presuppongono» le idee dell'esistenza e dell'essere in generale, «poi» si procede all'interpretazione dell'Esserci al fine di trarne l'idea dell'essere. Ma che significa «presupporre»? Con l'idea dell'esistenza si è forse stabilita una premessa dalla quale, poi, avvalendosi delle regole formali dell'inferenza, si dedurrebbero conseguenze intorno all'essere dell'Esserci? O invece questo pre-porre non ha il carattere del progettare comprendente, cosicché l'interpretazione che elabora questa comprensione cede finalmente la parola proprio all'ente che dev'essere interpretato, affinché esso, in base a se stesso, decida se, in quanto e' questo ente, possiede o no quella costituzione ontologica in conformità alla quale esso fu aperto nel progetto formalmente delineante? C'è forse un altro modo in cui l'ente può prendere la parola intorno al proprio essere? Nell'analitica esistenziale il «circolo» nella dimostrazione non può mai essere «evitato», proprio perché essa, in generale, non si muove nelle regole della «logica della coerenza». Ciò che la comprensione comune tende a eliminare al fine di evitare il «circolo», credendo di attenersi in tal modo al rigore della ricerca scientifica, è nient'altro che la struttura fondamentale della Cura. Originariamente costituito da essa, l'Esserci è già sempre avanti-a-sé. Essendo, esso si è già sempre progettato in determinate possibilità della sua esistenza, e in questi progetti esistentivi ha preontologicamente con-progettato-qualcosa come l'esistenza e l'essere. Tutto ciò non varrà anche per quel progettare essenziale che è proprio dell'indagine esistenziale, la quale, come tutte le indagini, è un modo di essere dell'Esserci aprente e tende a elaborare concettualmente la comprensione dell'essere propria dell'esistenza?

Tuttavia l'«accusa di circolo» proviene essa stessa da un modo di essere dell'Esserci. Alla comprensione comune, tipica dell'immedesimazione nel prendersi cura del Si, rimane estraneo qualcosa del genere del progettare, e tanto più qualcosa del genere del progettare ontologico, e ciò perché tale comprensione si contrappone ad esso «in linea di principio». La comprensione comune, sia essa «teoretica» o «pratica», prende cura esclusivamente dell'ente incontrato nella visione ambientale preveggente. Ciò che la caratterizza è la tendenza a esperire l'ente solo «di fatto», per potersi così sottrarre alla comprensione dell'essere. Essa non si rende conto che l'ente può essere sperimentato nella sua «fatticità» solo se l'essere è già compreso, benché non concettualmente. La comprensione comune mistifica la comprensione. Ed è appunto per questo che essa spaccia per «violento» ciò che si trova al di là della sua portata comprensiva e il procedere stesso al di là.

Parlare di un «circolo» nella comprensione significa disconoscere: 1) Che la comprensione stessa è un modo fondamentale di essere dell'Esserci. 2) Che questo essere è costituito dalla Cura. Voler negare il circolo, volerlo nascondere o eliminare, equivale a ribadire definitivamente questo disconoscimento. Lo sforzo dev'essere invece diretto a inserirsi originariamente e recisamente in questo «circolo», per garantirsi, sin dall'inizio dell'analisi, un colpo d'occhio preciso sulla circolarità dell'essere dell’Esserci. L'ontologia dell'Esserci non «presuppone» troppo ma troppo poco se «muove» da un Io privo di mondo per poi attribuire ad esso un oggetto e un rapporto con questo oggetto ontologicamente infondato. La visuale è troppo ristretta se, assunta «la vita» a problema, si tiene conto anche della morte solo in un secondo tempo e casualmente. L'oggetto tematico risulta artificiosamente e dogmaticamente amputato se ci si chiude, «innanzi tutto», in un «soggetto teoretico», per integrarlo poi «dal punto di vista pratico», con l'aggiunta di un'«etica». […] [EeT, 380-381]

 

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[LsU; passim]

…Il primo umanismo, ossia quello romano, e tutte le varie specie di umanismo, che si sono seguite fin qui, presuppongono l'essenza più generale dell'uomo come cosa evidente: l'uomo è l' animal rationale. Questa determinazione, non solo è la traduzione latina del greco logon econ, ma è anche un'interpretazione metafisica. Non che sia falsa: ma essa è condizionata dalla metafisica. La metafisica infatti, presuppone l'essente nel suo essere, e pensa così l'essere dell'essente. Ma essa non pensa a distinguere l'uno dall'altro: non si chiede la verità dell'essere stesso, e neppure, quindi, si chiede in qual modo l'essenza dell'uomo appartenga alla verità dell'essere. Questa domanda la metafisica sin ora non se l'è posta: essa è una questione inaccessibile alla Metafisica in quanto metafisica.

Siamo, insomma, su la buona strada per la determinazione della sua essenza, se e in quanto poniamo i limiti dell'uomo, dell'uomo come essere vivente fra gli altri esseri viventi, in confronto alle piante, ai bruti, a Dio? Certo, si può così procedere: porre in tal modo l'uomo in seno all'essente come un essente fra gli altri. E si può sempre dire, così, qualcosa di giusto sull'uomo. Ma si deve anche mettere bene in chiaro questo: che l'uomo, in questo modo, resta alla fine inserito nella sfera dell'animalità, anche se, poi, non lo si pone come uguale al bruto, ma gli si attribuisce una specifica differenza. Si pensa, infatti, così, sempre, principalmente, l'homo animalis anche se l'anima vien posta come animus sive mens, e questa, più tardi, come soggetto, come persona, come spirito. Questa posizione è sempre una forma di metafisica. Ma, in questo modo, l'essenza dell'uomo vien pensata troppo angustamente, e non nella sua origine, la quale, nella sua essenza, resta, per l'umanità storica, pur sempre il suo avvenire essenziale. La metafisica pensa l'uomo movendo dall'animalitas, non lo pensa nella direzione della sua humanitas.

La metafisica è chiusa alla questione della semplice ed essenziale costituzione dell'uomo, per cui egli realizza la propria essenza solo se a questa viene appellato dall'Essere: ché solo in questo appello egli può dire di aver trovato ciò in cui consiste la sua essenza, e soltanto per questa consistenza egli possiede il Linguaggio ch'è la dimora in cui alla sua essenza viene assicurata la sua estaticità. Io chiamo ex-sistenza dell'uomo il suo stare nel tralucere dell'essere. Solo all'uomo è proprio questo modo di essere. E l'ex-sistenza, così intesa, non soltanto è il fondamento della possibilità della ratio, ma è ciò in cui l'essenza dell'uomo garantisce la provenienza della sua determinazione.

Di ex-sistenza si può parlare soltanto per l'essenza dell'uomo, cioè soltanto nel modo umano di essere: ché soltanto l'uomo è, per quanto ne abbiamo esperienza, involto nel destino dell’ex-sistenza.

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[…] la verità dell'essere come lo stesso tralucere di essa resta nascosta alla metafisica [cioè all’uomo comune, il modo comune di pensare].

Egli crede addirittura che sia quello il più vicino. Invece, più vicino di ciò ch'è più vicino, per il comune modo di pensare, e più lontano di quel che per esso è più lontano, e' la vicinanza stessa, ossia la verità dell'essere.

Questa vicinanza si realizza essenzialmente come lo stesso linguaggio. Il linguaggio non è semplicemente quel linguaggio, che noi, nel caso migliore, ci rappresentiamo come l'unità di formazione dei suoni (o della parola scritta), melodia e ritmo, e significazione. Noi pensiamo quella formazione del suono e la sua immagine scritta come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come la sua anima, e il corrispondente significato come lo spirito del linguaggio. Pensiamo, così, il linguaggio abitualmente in corrispondenza all'essenza dell'uomo, in quanto questo viene rappresentato come animal rationale, ossia come l'unità di corpo-anima-spirito. Ma come nell'humanitas dell'homo animalis resta occultata l'ex-sistenza e con questa il rapporto della verità dell'essere all'uomo, così 1' interpretazione metafisico-animale del linguaggio nasconde l'essenza storica del suo essere, per la quale il linguaggio e' la casa dell'Essere, fatta dall'Essere e di esso compenetrata. Onde la sua essenza deve essere pensata in corrispondenza all'Essere, ossia come questa corrispondenza stessa, cioè come la dimora dell'essenza umana.

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[Heidegger prosegue difendendosi contro i fraintendimenti di “Essere e Tempo”] […] Poiché [ivi] si parla contro l' “umanismo”, si teme una difesa dell' Inumano ed un'esaltazione della barbara brutalità. Che cosa di più “logico”, infatti, che, a chi nega l'umanismo, non resti se non l'affermazione dell'inumanità?

- E poiché si parla contro la “logica”, si pensa subito che qui si avanzi la pretesa di rinunziare al rigore del pensiero, e al suo posto restaurare la supremazia dell'arbitrario, degli impulsi e dei sentimenti, e di proclamare, così, che la verità e' nell' “irrazionalismo”. Che c'è, di nuovo, di più “logico” che questo: che, chi attacca la logica, difende l'alogico? - Si parla contro i “valori”? Ed ecco lo spavento innanzi a una filosofia che osa abbandonare al disprezzo i beni supremi dell'umanità. Che di più “logico”, infatti? Un pensiero, che nega i valori, deve necessariamente far passare tutto come privo di valore. - Poiché si dice che l'essere dell'uomo consiste nell'“essere-nel-mondo”, si dice che, così, l'essenza dell'uomo è degradata a un puro “di qua”, per cui la filosofia si perde, di nuovo, nel positivismo. Che di più «logico» di questo: chi afferma la mondanità dell'uomo non dà valore se non al “di qua”, e però nega l'“ al di là”, e rifiuta ogni “trascendenza “? - E poiché si rinvia alla parola di Nietzsche della “morte di Dio”, si qualifica tale rinvio come ateismo. Che di più “logico”, infatti, che, chi ha approvato “la morte di Dio”, sia un “senza Dio”? Poiché in ogni luogo su citato si parla contro ciò che l'umanità tiene di più “sacro-santo”, questa filosofia insegna un “nichilismo” irresponsabile e distruttore. Che di più logico? Colui che nega dappertutto ciò che veramente è, deve necessariamente porsi dal lato del non-essere, e predicare perciò che il significato della realtà è il puro niente.

Come si procede qui? Essi sentono parlare di “umanismo “, di “logica”, di “valori”, di “mondo”, di “Dio”, e di un'opposizione a questi, e questi vengono riconosciuti e presi tutti come il lato positivo: per cui, tutto ciò che, non quadrando esattamente con quel che si dice a quel modo, parla contro di esso, lo si prende subito come la sua negazione, e la negazione si prende come il “negativo” nel senso del “distruttivo”. Costoro, appellandosi alla tanto conclamata logica e alla razionalità, credono che, tutto ciò che non è positivo, sia, senz'altro, negativo, e porti, quindi, a rigettare la ragione, e meriti perciò di essere bollato come una depravazione. Si è talmente pieni di “logicità”, che, tutto ciò ch'è contro l'abituale poltroneria dell'opinare, vien subito riguardato come il contrario da rigettare. Si getta, tutto ciò che non è conforme a quel positivo noto e amato, nella fossa già preparata della semplice negazione, nella quale tutto è negato, e però tutto finisce nel niente, e conchiude così nel nichilismo: tutto finisce in un nichilismo che essi stessi hanno inventato con l'aiuto della logica.

INSUFFICIENZA DELLA LOGICA CONTRADITTORIA.

Ma il “contro”, che un pensiero adduce contro il modo comune di opinare, porta necessariamente alla mera negazione e al mero negativo? Questo accade solamente nel caso (e, in questo caso, inevitabilmente e definitiva-mente, ossia senza nessuna libera considerazione di altro), in cui già si sia posto, quel che si opina, come il “positivo”, e sia già stata decisa, partendo da esso, la sfera delle possibili opposizioni a esso, in modo assoluto e insieme negativo. In un tal modo di procedere si nasconde il rifiuto di esporre alla considerazione il “positivo” stabilito in precedenza insieme alla posizione e alla opposizione, in cui crede di essersi posto al sicuro. Con il continuo appello alla logica si vuoi dare l'apparenza di affidarsi esclusivamente al pensiero, mentre è proprio a pensare che si è rinunciato.

Che l'opposizione all'“umanismo” in alcun modo porti alla difesa dell' inumano, e che, invece, essa apra prospettive ben differenti, dovrebbe, in qualche modo, esser divenuto chiaro.

La logica intende il pensiero come rappresentazione dell'essente nel suo essere, il quale si presenta, così, nella generalità del concetto. Ma che diremo allora della considerazione che riguardi 1'Essere stesso, e cioè il pensiero pensante la verità dell' Essere? È solo con questo pensiero che si coglie l'essenza originaria del logos, che già con Platone e con Aristotele, il fondatore della “logica”, si trova perduta e sepolta. Pensare contro la “logica” non vuol dire spezzare una lancia per l'illogico: vuol dire, invece, ripensare il logos e la sua essenza quale apparve ai primordi del pensiero. Ossia: sforzarsi una buona volta e prepararsi a un tale ripensamento. Che importano a noi tutti i sistemi di logica, per vasti che siano, se essi cominciano, e per di più senza sapere quel che fanno, col sottrarsi al compito di porre in questione, innanzi tutto e soprattutto, l'essenza del logos? Se noi volessimo rispondere alle obiezioni con obiezioni (il che non porta frutto alcuno), potremmo dire a tanto maggior diritto che l'irrazionalismo, come rinunzia alla razionalità, è proprio quel che regna, non riconosciuto e non contrastato, nella difesa di questa logica, la quale crede di poter sottrarsi alla considerazione del logos e all'essenza della razionalità, di cui il logos dà il fondamento.

SOGGETTIVISMO DEI VALORI.

Il pensiero che si pone contro i “valori” non afferma già che tutti i valori dichiarati tali, la “cultura”, l'“ arte”, la “scienza”, la “dignità umana”, il “mondo” e “Dio”, non valgono nulla. Si tratta piuttosto di comprendere finalmente che, appunto con questa qualificazione di qualcosa come “valore”, a quel che viene cosi valorizzato vien sottratta proprio la sua dignità: qualificandolo, infatti, come valore, esso viene abbassato a oggetto soltanto di valutazione umana. Ciò che qualcosa è nel suo essere, non si esaurisce nella sua oggettività, soprattutto quando questa oggettività ha il carattere del valore: ché ogni valutare è, anche dove esso valuta positivamente, un soggettivare. Esso non fa essere l'essente, ma fa valere l'essente soltanto come oggetto della sua attività. Lo strano affaticarsi a dimostrare l'oggettività dei valori non sa quel che fa. Proclamare infine “Dio” come “il supremo valore” è una degradazione dell'essenza di Dio. Pensare valutando è, qui come dovunque, la più grande bestemmia che si possa pensare contro l'essere. Pensare contro i valori, dunque, non vuol dire esaltare l'assenza di valore e la nullità dell’essente: significa, invece, contro la soggettivazione dell’essente portare l’oggetto semplicemente alla luce della verità dell’essere innanzi al pensiero.

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[…] Si tenga sempre presente la parola di Hoelderlin sul linguaggio nel frammento “Ma in capanne abita l'uomo”, nel quale il poeta chiama il linguaggio “dei beni il più pericoloso”. […]

[…] Che la parola, che parla dell' Essere come della destinazione della verità, sia a ciò appropriata: questa è la prima legge del pensiero - e non già quelle regole di logica, che non possono divenir tali se non per la legge del pensiero. Fare attenzione a tale convenienza della Parola pensante, importa non. soltanto badare sempre a ciò che dell'essere è da dire e come si ha da dire. Non meno essenziale resta di badare, per quel che si ha da pensare, sino a qual punto, in qual momento della storia dell'essere, in quale colloquio con questa, e per quali esigenze, è possibile dire ciò che si deve dire. Questa triplice condizione, di cui parlava una mia lettera precedente, è, nella sua. in-terna coerenza, determinata dalla legge su accennata della convenienza del pensiero che pensa storicamente 1' Essere, così: riflessione rigorosa, parlare accurato, risparmio di parole.

È tempo, oramai, di perdere l'abitudine a sopravvalutare la filosofia, e di chiederle perciò troppo. Per i bisogni attuali del mondo ci vuole meno filosofia, e un pensiero più meditato: meno letteratura, e una cura maggiore delle lettere che usiamo [cfr. Wittgenstein, PU]. Il pensiero futuro non sarà più filosofia, perché esso penserà più originalmente che non la metafisica (nome che dice la stessa cosa). Ma il pensiero futuro non potrà neppure, come Hegel desiderava, rifiutare il nome di “amore della saggezza”, ed essere divenuto la sapienza stessa nella forma del sapere assoluto. Il pensiero è su la via della discesa verso la povertà della sua essenza anticipatrice. Essa raggruppa il linguaggio per dire la parola semplice. Il Linguaggio è, cosi, il linguaggio dell' Essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con la sua parola il pensiero traccia orme non apparenti nel linguaggio: meno apparenti ancora di quelle che traccia il contadino col suo lento passo attraverso il campo.

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