NOTE FILOSOFICHE SUL TEOREMA DI GÖDEL E DINTORNI.

 

Lo scopo di questo breve articolo è quello di mettere in evidenza il come questo teorema abbia imposto dei confini a certe istanze razionalistiche generali e non solo matematiche o logiche. La questione sul significato del teorema di G. è in effetti complessa e coinvolge la ragione, l’intelletto, la scienza e i suoi fondamenti in generale. Il problema generale della certezza e di un fondamento assoluto della matematica e della logica è un problema filosofico-scientifico (lo stesso Gödel partecipava ai convegni di epistemologia, che è appunto una branca della filosofia) che si pone cioè in una zona di confine e su cui quindi è difficile (e forse inutile) porre un confine netto. D’altronde che il problema diventi anche filosofico è indubbio nel momento in cui una qualsiasi attività conoscitiva si rivolge alle proprie condizioni di possibilità piuttosto che al suo oggetto specifico.

Vediamo brevemente quali sono le conclusioni cui G. arriva attraverso il suo teorema. Con la sua ricerca G. riusciva a dimostrare "l'indecidibilità" di un sistema formale (o completamente formalizzato). Egli si riferiva ai Principia Mathematica di Russel-Whitehead come ad uno di tali sistemi. Ma si riferiva anche all'ambizioso programma di Hilbert. La sostanziale differenza tra le ricerche di Russell e quelle di Hilbert, sta nel fatto che il primo era indirizzato alla giustificazione di tutta la matematica in generale attraverso la logica (questo ramo di indagine sarà chiamato Logicismo), mentre il secondo si rivolse all'analisi logico-formale interna alle singole teorie matematiche attraverso una riduzione degli assiomi ad un numero finito (Formalismo).

Non rientra nei limiti di questo articolo dare una descrizione, seppur sommaria, del teorema in questione (in effetti sono due). Anche la importante questione del metodo utilizzato per la dimostrazione e la dimostrazione stessa eccedono i limiti di un articolo. Tuttavia fornisco un breve accenno. Sia dato un sistema S. Questo si dice completo rispetto ad una classe K di proposizioni se per ogni proposizione esiste una catena deduttiva finita, che si sviluppa secondo le regole del calcolo logico la quale comincia con certi assiomi e finisce o con la affermazione o con la negazione della proposizione stessa (ovvero la sua verità o falsità). La non-cotraddittorietà è da intendersi in senso puramente logico-hilbertiano, come proprietà puramente combinatoria di un sistema S.

Il primo teorema dice che "ogni formalizzazione della teoria dei numeri lascia fuori di sé delle verità numeriche" cioè non è completo perché non tutte le proposizioni vere del sistema possono essere dimostrate. Come a dire che l'ambito del vero non è totalmente riconducibile a quello della dimostrazione. Quindi non esiste alcun sistema con un numero finito di assiomi che sia completo.

Il secondo teorema dice quindi che "con strumenti appartenenti alla teoria dei numeri non è possibile dimostrare la non-contraddittorietà della teoria stessa", cioè con strumenti combinatori e finitisti del sistema non è possibile giustificare (o fondare rigorosamente) il sistema stesso. Per fare ciò occorrerebbe l'aiuto di inferenze che non sono formalizzabili nello stesso sistema.

 

Gödel e il suo teorema si inseriscono alla fine di quel periodo di progetti fondazionalisti in cui alcuni hanno creduto all’istanza puramente razionale di poter dare un fondamento sicuro e solido a tutte le scienze, “purificando” la matematica attraverso il riduzionismo di Cantor, Dedekind, Peano, ecc., oppure formalizzando o  logicizzando la logica come tentarono Hilbert, Frege, Russel. Tutti questi valenti studiosi operarono ancora sulla scia della temperie scientifica positivistico-riduzionista di fine ottocento.

Il formalismo di Hilbert, prescindendo da ogni significato dei simboli matematici, facendo cioè appello solo alla forma, voleva procedere alla costruzione di un sistema puramente sintattico di simboli S, retto da un numero finito di assiomi (strumenti finitisti), dai quali secondo regole del sistema stesso si fanno derivare formule che risultato da trasformazioni tautologiche del gruppo di assiomi. In tal modo la matematica avrebbe potuto godere di una giustificazione rigorosa in cui non erano coinvolte questioni empiriche o psicologiche, ecc. (fondazionalismo). Inoltre un tale sistema assoluto era 1) completo, perché ogni singolo elemento del sistema era fondato e  2) non-contraddittorio, perché in tali condizioni non poteva darsi come risultato di un'inferenza, una contraddizione.

 

Ma qual è il significato generale (cioè in riferimento alla razionalità in genere) del teorema di Gödel? Gödel limitava col suo teorema le istanze fondazionaliste dei suoi predecessori. Questo fu l'ultimo atto che segnò la fine dei grandi progetti fondazionalisti (un altro può essere rappresentato dal paradosso di Russell che segnerà quel periodo definito come “crisi dei fondamenti”). Il significato di ciò rispetto alla razionalità, che veniva attaccata nei suoi strumenti principi (la logica e la matematica), è inevitabilmente una sua limitazione (col che non né viene inficiata minimamente la validità) per quanto riguarda le sue pretese autofondative. Questi risultati non possono essere considerati antiscientifici (come pretendono alcuni), a meno che la scienza non aspiri al possesso esclusivo di verità in qualche modo assolute o dommaticamente oggettive. Inoltre, cosa spesso dimenticata, il teorema di G. e le sue conseguenze non riguardano tanto il lavoro dello scienziato – che anzi prosegue il suo lavoro indisturbato -, quanto la questione filosofica sui fondamenti. Di fatto si è ampiamente dimostrato che un sistema formale non è in rapporto di identità con la sua funzione di verità. Ecco per esempio cosa ci dice Tarski in proposito in un articolo “Verità e Dimostrazione” pubblicato sul n.16 de “le scienze” (1969): “Il fatto che le implicazioni filosofiche del nostro risultato siano di carattere sostanzialmente negativo, non né diminuisce affatto l’importanza. Il risultato mostra, invero, che in nessun campo della matematica il concetto di dimostrabilità è un sostituto perfetto di quello di verità; la credenza che la dimostrazione formale possa costituire uno strumento adeguato per stabilire la verità di tutti gli enunciati matematici si è rivelata infondata e al trionfo iniziale dei metodi formali ha fatto seguito un notevole regresso.”

 

Ma perché logicizzare o formalizzare (sono quasi la stessa cosa) la matematica? Perché si è sentito forte questo bisogno? È necessario porsi questa domanda per capire i risvolti e le conseguenze del fallimento di questi progetti.

Quando parlo di formalismo intendo più in generale l'orientamento di pensiero che avrebbe voluto fondare rigorosamente, basandosi sulla sola forma degli enunciati e dei metodi, tutta la matematica e la logica, creando così un sistema “nel quale siano formalizzate tutte le forme dimostrative finitiste (ossia quelle intuizionisticamente inattaccabili)” (Gödel). L'intento era sempre lo stesso: unificare gli strumenti conoscitivi della scienza, dargli basi forti. Famosa è la frase di G.Frege quando affermava di voler fondare la matematica “sulla solida roccia", ed essa per Frege non poteva che venire dalla forma. La forma era la sola che poteva conferire agli strumenti della scienza una base forte.

Così Hilbert scrive nel 1900: "Ogni definito problema matematico deve necessariamente essere suscettibile di una esatta soluzione, o nella forma di una vera e propria risposta alla domanda, o per mezzo della prova dell'impossibilità della sua soluzione e il conseguente necessario fallimento di tutti i tentativi [...] Per quanto questi problemi ci appaiano inaccessibili (unapproachable), e per quanto noi ci si trovi di fronte a loro disarmati, noi abbiamo, nonostante ciò, la ferma convinzione che la loro soluzione deve consistere in un finito numero di processi puramente logici [...]  Sentiamo dentro di noi un richiamo perpetuo: c'è un problema. Cercate la sua soluzione. La potete trovare attraverso la pura ragione [...]" (Scientific american july 1988, vol.259, n.1). Hilbert si sbagliava! La pura ragione non basta. Il corsivo è mio e vuole mettere in risalto alcune espressioni che mostrano un certo grado di "esigenza", di "richiamo", di "dovere", insomma di un bisogno che sta alla base della ricerca (puramente razionale) e che ne condiziona inevitabilmente (e ingiustificatamente) l'orientamento.

Comunque questo programma subisce una battuta di arresto. Leggiamola in un intervento di J.v.Neumann “Gli studi critici sui fondamenti della matematica degli ultimi decenni e in particolare il sistema dell’”intuizionismo” di Brouwer hanno riaperto il problema delle origini della validità, generalmente supposta assoluta, della matematica classica”. Qui era Brouwer che sollevava problemi.

E infatti più tardi (1944) Gödel scriverà "è ormai chiaro che la soluzione di alcuni problemi dell'aritmetica richiede l'uso di assunti che trascendono sostanzialmente l'aritmetica [...] certamente, in queste condizioni la matematica può perdere buona parte della sua "certezza assoluta", ma, sotto l'influenza della moderna critica dei fondamenti, questo è già largamente avvenuto." (Scientific american july 1988, vol.259, n.1).

Gödel nel 1931 era arrivato alla conclusione che per un sistema è “dunque assolutamente impossibile una dimostrazione finitista di non-contraddittorietà come quella ricercata dai formalisti. Se poi uno dei sistemi finora costituiti (p.e. i Principia Mathematica) sia davvero così potente (o se davvero un sistema di tale potenza esista) appare problematico” (da un articolo). Quindi se un tale sistema (formale) fosse stato scoperto, sarebbe stato “potente” da un punto di vista scientifico-razionale perché avrebbe potuto tenere, per così dire, “alla larga” qualsiasi impurità di contenuto o intuizionista. Queste impurità infatti sono sempre state viste dalla razionalità come un ostacolo per l’aspirazione alla assolutezza degli enunciati e ai sistemi scientifici di essa. Questo perché elementi non formali introducono sempre un carattere contingente (non logicamente necessario) agli enunciati stessi e ai sistemi relativi (sia matematici che non).

 

Metodi o sistemi che permettono l’introduzione di alcunché di empirico o intuitivo o psicologico, perdono da un punto di vista rigoroso e razionale in “potenza”, nel senso che perdono la certezza assoluta delle loro dimostrazioni, il loro carattere necessario. Sembrano essere più deboli, più “impuri”. Per questo si è sempre preferita la forma, in quanto essa è pura, ideale, necessaria, unitaria. Anche in passato vi era stata questa istanza razional-fondazionalista, p.e. con Leibniz, il quale nel suo Specimen calculi universalis cercò di logicizzare la matematica dando una definizione puramente logica di numero. Ma oggi sappiamo bene che in effetti "la purezza cristallina della logica non [...] era affatto data come un risultato; era un'esigenza" (Wittgenstein prop.107 “Ricerche filosofiche”).

 

Ciò significa limitare attraverso una critica razionale le possibilità della ragione stessa (ciò che si può e ciò che non si può). D’altronde mi chiedo perché la ragione non dovrebbe avere dei limiti? Se per razionalità in generale si intende ciò che è comprensibile, perché si presume che ogni cosa debba necessariamente essere razionale?

 

Tuttavia continuano i contributi a supporto del teorema in questione. Uno di questi, per esempio, è fornito da G.J.Chaitin, il principale architetto della teoria dell'informazione algoritmica. L'applicazione di questa teoria gli ha permesso di pubblicare due libri in cui illustra la natura della casualità e delle limitazioni della matematica. "è impossibile provare se ciascun membro di una famiglia di equazioni algebriche  ha un finito o un infinito numero di soluzioni: la risposta varia casualmente e quindi elude il ragionamento matematico", ma aggiunge anche "Il mio lavoro indica che - per dirla con Einstein - Dio a volte gioca a dadi con i numeri interi. Questo risultato [...] non è causa di pessimismo; non è portatore di anarchia o assenza di leggi matematiche. Quello che indica è che leggi matematiche di diverso tipo potrebbero essere applicate in certe situazioni: le leggi statistiche." (Scientific american july 1988, vol.259, n.1)

 

Tutt'oggi vige una stato indefinito ed eclettico riguardo i fondamenti della matematica. Soprattutto grazie a quei signori sopra citati. Anche l'intuizionismo (Brouwer) ha incontrato i suoi limiti. L'eclettismo sta appunto nel fatto che a fondare la matematica non è solo un metodo o sistema o teoria ecc. ma molti, e non c'è nulla di male in questo (molti si spaventano perché il sapere sembra non essere più unitario, anche l’ “unitarietà” del sapere è in fondo un’esigenza della razionalità. Bisogna vedere poi se le cose stanno veramente così). In questo sta la grandezza di Wittgenstein, lui aveva capito questo "eclettismo" non solo della matematica, ma in generale dei  linguaggi in senso lato. Molti dicono che Wittgenstein ha fornito una teoria del linguaggio (avrete sentito dire "il senso di una proposizione è l'uso che se ne fa"), ma questo non è vero. Wittgenstein stesso dice esplicitamente che non è possibile dare una teoria univoca del linguaggio. Quella frase in realtà si trova nelle Ricerche filosofiche prop.43 "per una grande classe di casi - anche se non per tutti [...] il significato di una parola è l'uso che se ne fa" (non tutti i casi, sennò sarebbe stato totalizzante). In realtà il significato è dato da una varietà di giochi linguistici cioè di modi diversi di darsi del significato, spesso nell'uso. Egli inventa la mirabile metafora dei giochi linguistici all'interno del quadro delle sue ricerche sui fondamenti della matematica. Inoltre se la comprensione è data dall'uso tuttavia non dobbiamo dimenticare che a sua volta l'uso è dato, per Wittgenstein, dalla comprensione (circolarità). E' proprio questa "apertura" non dommatica, ne scettica che mi piace in lui. I formalisti, logiciscti, intuizionisti, finitisti, positivisti, fondazionalisti naturalmente non riuscirono ad accettare tutto questo, forse perché lo vedevano come un abbandono della razionalità o comunque rimasero ancorati ad una visione/esigenza unitaria del sapere, ma naturalmente non si tratta di questo. Dice Wittgenstein nella prop.108 (Ricerche) "riconosciamo che ciò che chiamiamo proposizione, linguaggio non è quell'unità formale che immaginavamo, ma una famiglia di costrutti più o meno imparentati l'uno con l'altro. - Che ne è allora della logica? Qui il suo rigore sembra dissolversi...“.  “Qui” dice Wittgenstein, cioè solo nell’ambito della ricerca dei suoi fondamenti. Quindi con ciò non si è screditata la logica e la matematica! Anzi, per fortuna sappiamo che esse hanno delle origini molto complesse, e che l'estrema chiarezza delle loro premesse non significa affatto la loro semplicità.

 

Concludo citando una frase del Carnap maturo e pragmatista, il quale in afferenza alle posizioni di Wittgenstein, di Tarski (poste le debite differenze) e di altri, affermerà quel famoso "principio di tolleranza" che sancirà la definitiva rinuncia all'ideale illibertario logicista di assumere come paradigmatico  il linguaggio della logica e della matematica: "Per quelli che vogliono sviluppare  o usare metodi semantici, la questione decisiva non è il problema ontologico dell'esistenza di entità astratte [...] Impariamo le lezioni della storia. Assicuriamo, a chi lavora in qualsiasi campo di indagine, la libertà di usare qualunque forma di espressione che gli sembri utile [...] Siamo cauti nel fare asserzioni e critici nell'esaminarle, ma tolleranti nel permettere forme linguistiche" (in "Significato e necessità", 1947).

 

Valerio Guagnelli Scanzani.