Derive Approdi  n. 12-13  

Valore e affetto
Toni Negri


Non credo che, nelle polemiche che ormai da duecento anni hanno accompagnato lo sviluppo della teoria del valore nell'economia politica, si sia riusciti a sganciare il valore dal lavoro. Anche le correnti marginaliste e le scuole neo-classiche (per vocazione dedite a operare questo sganciamento) sono costrette a riprendere in considerazione quel rapporto (e il suo supporto: il lavoro vivo di massa) ogniqualvolta si confrontino con la politica economica in concreto. Nell'elaborazione teorica neo-classica, l'analisi delle relazioni di mercato, imprenditoriali, finanziarie e monetarie, rifiuta in principio ogni riferimento al lavoro: di fatto, lo sottace. Non a caso, quando i neo-classici sono davanti a decisioni politiche, la teoria del valore-lavoro gli risalta fuori (e ne sono tetanizzati), in quel luogo esatto nel quale i fondatori della disciplina l'avevano collocata: il luogo del conflitto (e dell'eventuale mediazione) del rapporto economico come rapporto sociale, l'ontologia della teoria economica.
      Ciò che è irreversibilmente mutato, dai tempi del predominio della teoria classica del valore, riguarda tuttavia la possibilità di svolgere la teoria del valore in termini di ordine economico, ovvero di considerare il valore come misura del lavoro concreto, sia singolarmente sia collettivamente. Le conseguenze economiche di questa difficoltà sono tanto importanti quanto i suoi presupposti antropologici e sociali. é su questi ultimi che la nostra analisi tenterà di soffermarsi - su questa novità, che trasforma la teoria del valore "dal basso" della vita.
      Nei secoli della modernizzazione capitalistica (nel passaggio, cioè, per dirla con Marx, dalla manifattura alla grande industria), la possibilità di misurazione del lavoro (che aveva sommariamente funzionato nel periodo di accumulazione) viene progressivamente meno. 1) In primo luogo, perché il lavoro - qualificandosi e complessificandosi, sia individualmente che collettivamente - non poteva più esser ridotto a quantità semplici, passibili di calcolo; 2) in secondo luogo perché il capitale, finanziarizzandosi e statualizzandosi, rendeva artificiale e manipolabile, quindi sempre più astratta, la mediazione fra i diversi settori del ciclo economico (produzione, riproduzione sociale, circolazione e divisione dei redditi).
      Ma tutto questo è preistoria. Nel mercato globale, nel postmoderno, il problema stesso della misura del valore è introvabile.
      È ben vero che nel periodo del passaggio al postmoderno, nella fase delle lotte antimperialiste e anticoloniali, la teoria del valore-lavoro è sembrata risorgere in termini macro-economici, come teoria della divisione internazionale del lavoro, dello «scambio ineguale», dello sfruttamento postcoloniale - ma questa rinascenza è apparsa subito illusoria, non appena è divenuto evidente che la complessità dei processi produttivi, oltre a essere immersa nella multinazionalizzazione dell'attività industriale e nella globalizzazione finanziaria, era ulteriormente intensificata dai processi tecnologici dell'informatica e della comunicazione, nonché dall'investimento del lavoro immateriale e scientifico. Ciò non significa che la divisione internazionale del lavoro e lo sfruttamento postcoloniale siano terminati. Al contrario, si sono straordinariamente accentuati. Ma nello stesso tempo hanno perduto la loro specificità (e quindi la possibilità di riattivare nel caso concreto la teoria del valore), perché quel tipo di sfruttamento si è esso stesso globalizzato, ha inondato i territori metropolitani, e la misura dello sfruttamento è definitivamente dispersa.
      Nell'economia del postmoderno e nei territori della globalizzazione la produzione di merci avviene attraverso il comando; la divisione del lavoro si dà attraverso il comando; l'articolazione delle misure del lavoro è disfatta nel comando globale.
      Ciò detto, il nostro tema, valore e affetto, non è stato ancora fin qui sfiorato se non attraverso il suggerimento a riconsiderare il problema del valore "dal basso".
      In effetti, quando si guardino le cose dal punto di vista dell'economia politica, cioè "dall'alto", il tema valore-affetto è talmente integrato nel processo macroeconomico da risultare invisibile. La scienza economica ignora il problema senza alcuna resipiscenza. Quando gli passa fra le mani, non gli riconosce una qualsiasi consistenza. Due casi sono, fra gli altri, esemplari. 1) Il primo concerne il lavoro domestico delle donne e/o mogli/madri. Ora, nella tradizione dell'economia politica, in nessun caso questo tema può essere posto fuori dalla considerazione del salario, diretto o indiretto, del lavoratore (maschio, padre di famiglia); oppure, in periodi più recenti, fuori dalle tecniche disciplinari del controllo demografico delle popolazioni (e dell'eventuale interesse dello Stato - capitalista collettivo - alla regolazione economica dello sviluppo demografico). Il valore è qui assunto strappandolo al lavoro (delle donne, nel caso, moglie o madre), cioè all'affetto. 2) Un secondo esempio, all'estremo opposto, cioè non più attorno ai paradigmi tradizionali dell'economia classica, ma considerando un tema affatto postmoderno: la cosiddetta «economia dell'attenzione». S'intende con ciò l'interesse ad assumere nel calcolo economico l'interattività dell'utente dei servizi di comunicazione. Anche in questo caso, pur nello sforzo evidente di assorbire la produzione di soggettività, la scienza economica ignora la consistenza di questa. Pone l'attenzione nel calcolo di audience, appiattisce controlla e comanda la produzione di soggettività su un orizzonte disincarnato. Il lavoro (attenzione) è qui sussunto strappandolo al valore (del soggetto), cioè all'affetto.
      Dobbiamo partire da quest'ignoranza dell'economia politica per definire il tema valore-affetto. E dobbiamo definirlo a partire da un apparente paradosso che vorrei così definire: quanto più la misura del valore diventa ineffettuale, tanto più il valore della forza lavoro diviene determinante nella produzione; quanto più l'economia politica sottace il valore della forza lavoro, tanto più il valore della forza lavoro si estende, incide su un terreno globale, biopolitico. Su questo ritmo paradossale il lavoro diventa affetto, meglio, il lavoro trova il suo valore nell'affetto, se questo è definito come «potenza di agire» (Spinoza). Il paradosso può dunque essere riespresso in questi termini: quanto più la teoria del valore perde il suo riferimento al soggetto (la misura era questo riferimento, come base della mediazione e del comando), tanto più il valore del lavoro risiede nell'affetto, cioè nel lavoro vivo che si autonomizza dal rapporto di capitale, ed esprime - attraverso tutti i pori del corpo, singolare o collettivo - la sua potenza di autovalorizzazione.

Decostruzione

      La mia prima tesi, decostruttiva e storica, è che misurare il lavoro, quindi ordinarlo e ricondurlo a una teoria del valore, è impossibile quando, come oggi, la forza lavoro non è più né fuori né dentro il comando (e la capacità di strutturare il comando) del capitale. Ribadisco che oggi questa è la situazione. Per chiarirla si assumono due casi.
      
      Primo caso. La forza lavoro, ovvero il valore d'uso della forza lavoro, è fuori dal capitale.
      È questa la situazione nella quale la teoria del valore è stata costruita, l'epoca classica nella quale, essendone fuori, la forza lavoro doveva essere portata dentro il capitale. Il processo di accumulazione primitiva consiste nel portare dentro lo sviluppo (e il controllo) capitalista quella forza lavoro che ne viveva fuori. Il «valore di scambio» della forza lavoro è quindi radicato in un «valore d'uso» che si costruisce, in buona parte, fuori dall'organizzazione capitalistica della produzione. In che cosa consiste questo fuori? Marx ne ha a lungo parlato. Quando egli parla della forza lavoro come «capitale variabile», egli allude infatti a un misto di indipendenza e di soggettività che si organizzano: a) nell'indipendenza della «piccola circolazione» (il legame con la terra, l'economia familiare, le tradizioni di "dono", ecc.); b) sui valori propri alla «cooperazione operaia» come tale, cioè sul fatto che la cooperazione costituisce un surplus di valore che è precedente, o comunque irriducibile, all'organizzazione capitalistica del lavoro, anche se è da essa recuperato; c) sull'insieme dei valori «storici e morali» (dice Marx) che sono continuamente rinnovati, come bisogni e desideri, dal movimento collettivo del proletariato e prodotti dalle sue lotte. La lotta sul «salario relativo» (fortemente insistita da Rosa Luxemburg, nella particolare interpretazione che dava del marxismo in una prospettiva di produzione di soggettività) rappresenta un fortissimo dispositivo da parte del fuori. Il «valore d'uso» si radica dunque, fondamentalmente, anche se sempre in maniera relativa, fuori dal capitale.
      Una larga storiografia (che spazia dal lavoro di E.P. Thompson a quello degli "operaisti" italiani ed europei degli anni Settanta, e al cui interno brilla l'opera della "subaltern historiography" indiana) descrive questa situazione e la traduce in un linguaggio militante.
      Per un lungo periodo storico, dunque, lo sviluppo capitalistico ha subìto una determinazione indipendente del valore d'uso della forza lavoro, una determinazione che si poneva - relativamente - fuori dal comando capitalistico. Il prezzo del «lavoro necessario» (a riprodurre il proletariato) si presenta dunque, in questo periodo, come una quantità naturale (e/o storica) - comunque esterna - che media fra l'effettiva produttività della classe operaia e la sua inclusione sociale e monetaria.
      La specificità marxiana, nella traduzione a fini rivoluzionari della teoria classica del valore, si fonda anche sulla considerazione dell'estraneità (relativa) della consistenza del «valore d'uso» della forza lavoro rispetto all'unità del comando capitalistico sullo sviluppo dell'accumulazione. Si può aggiungere che, per Marx, misurare il valore era utilizzare una unità di misura che si formava fuori (o comunque a lato) del processo capitalistico di produzione e di riproduzione della società.
      
      Secondo caso. La forza lavoro, ovvero il suo valore d'uso è dentro la società del capitale.
      Nel suo sviluppo, il capitale ha sempre di più ricondotto la forza lavoro dentro il suo comando, ne ha progressivamente tolto le condizioni di riproduzione esterna alla società del capitale, e quindi è sempre di più riuscito a definire il valore d'uso della forza lavoro in termini di valore di scambio - non più solo relativamente come nella fase dell'accumulazione, ma assolutamente. «Arbeit macht frei». Non occorre essere postmoderni per avvertire come questa riduzione (sussunzione) del valore d'uso a un regime costrittivo e totalitario di valore di scambio si sia dato, a partire dagli anni '30 in Usa, dagli anni '50 in Europa, e dagli anni Settanta nel Terzo Mondo.
      Certo, esistono ancora, nel Terzo come nel Primo Mondo, situazioni nelle quali persistono importanti forme di indipendenza nella formazione del valore d'uso proletario. Ma la tendenza al loro riassorbimento è irresistibile. Il postmoderno descrive una tendenza continua, impetuosa e rapida. Correttamente. Si può infatti affermare che, a differenza di quanto ancora avveniva al tempo dell'analisi marxiana, non è oggi immaginabile una definizione del valore d'uso che, pur parzialmente, possa darsi indipendentemente dal valore di scambio.
      Dunque, il calcolo economico, d'origine classica o marxiana, che prevedeva un'unità indipendente di misura (un fuori) alla base della dialettica del capitale, non ha più ragione di esistere. Questo venir meno è reale, la teoria della misura del valore è di conseguenza divenuta circolare e tautologica: non c'è più nulla di esterno che possa offrirle una base. In effetti - e qui ancora non occorre essere postmoderni per riconoscerlo - a partire dagli anni '60 (per quel che ci riguarda) ogni valore d'uso è determinato dal regime di produzione capitalistico. E anche ogni valore, che nella teoria dell'accumulazione non si poneva dentro un regime immediatamente capitalistico (come la capacità sociale di riproduzione, il surplus produttivo della cooperazione, la «piccola circolazione», i nuovi bisogni e desideri prodotti dalle lotte), è ora immediatamente recuperato e mobilizzato nel regime di controllo capitalistico (mondializzato).
      Così, se (per esistere in termini classici) la teoria del valore deve determinare un criterio di misura, essa non potrà trovarlo oggi che all'interno della costituzione globale del valore di scambio. Ora, questa misura è il denaro. Ma il denaro, appunto, non è una misura del né una relazione al valore d'uso, ma - a questo punto dello sviluppo - una sua pura e semplice sostituzione.
      
      In conclusione, la teoria del valore ha terminato la sua funzione razionalizzatrice (oltre che fondatrice) dell'economia politica. Essa esce dallo sviluppo capitalistico ai bordi del postmoderno, trasfigurata in teoria monetaria - costruita sull'orizzonte della globalizzazione, organizzata dal comando imperiale. «One dollar is one dollar». Il denaro non è più il prodotto di un regime di scambi (fra il capitale e una forza lavoro più o meno soggettivata) ma la produzione di un regime di scambi. La teoria del valore è banalizzata come utensile della misura monetaria, dell'ordine del denaro.
      Ma il valore della produzione non si è estinto. Quand'esso non sia più riconducibile a misura, diviene s-misurato. Voglio con ciò sottolineare il paradosso di una forza lavoro che non è più né fuoridentro il capitale. Nel primo caso, il criterio che ne permetteva, con la misura, il controllo, era la sua relativa indipendenza (che oggi non esiste più: la forza lavoro è "realmente sussunta"); nel secondo caso, il criterio che permetteva, malgrado la caduta della misura, il comando sulla forza lavoro consisteva nel suo assorbimento nel regime monetario (il keynesismo, per parlare della forma più raffinata di tecnica di controllo). Ma anche questo secondo criterio è venuto meno nella misura in cui il controllo monetario si è reso del tutto astratto. Dobbiamo dunque concludere che la forza lavoro che è dato ritrovare nel postmoderno (nel sistema globale e/o imperiale dell'economia capitalistica) è situata in un non-luogo rispetto al capitale.

Come definiamo questo non-luogo?

      Per introdurre il discorso, occorre innanzitutto identificare il deplacement teorico che la globalizzazione dello sfruttamento capitalistico determina. Ora, quando si parla di globalizzazione, se ne parla in un duplice senso: estensivamente, come allargamento mondiale del tessuto produttivo attraverso i mercati; intensivamente, come assorbimento dell'intera vita sociale nella produzione capitalistica. Nel primo senso la forza lavoro si presenta in aggregati (o soggettività) mobili e intercambiabili, materiali e immateriali, la cui potenza produttiva è organizzata secondo dispositivi di mobilitazione (e/o di segregazione, di segmentazione, ecc.): la forza produttiva è qui declinata dalla circolazione. Nel secondo caso la forza lavoro si presenta come tessuto sociale, come popolazione e cultura, tradizioni e innovazioni, ecc. - insomma, la sua forza produttiva è sfruttata all'interno dei processi di riproduzione sociale. La produzione diventa coestensiva alla riproduzione, in contesto biopolitico. (Quando si parla di «biopolitica», si definisce un contesto di riproduzione sociale, che integra produzione e circolazione, e il dispositivo politico che li organizza. Non è qui il luogo di approfondire questa tematica: ci sia solo permesso di introdurre il termine).
      Il non-luogo della forza lavoro è quindi negativamente definito dalla dissoluzione della separazione fra le forme di realizzazione del capitale - così come i classici e/o Marx ce le avevano trasmesse. é positivamente definito, a un tempo, dall'intensità della mobilitazione e dalla consistenza del nesso biopolitico della forza lavoro.

Costruzione

      Abbiamo fin qui concluso a qualche affermazione:
      a) che la misura del valore-lavoro, piantata sull'indipendenza del valore d'uso, è ormai ineffettuale;
      b) che la regola del comando capitalistico che si impone nell'orizzonte della globalizzazione, annulla ogni possibilità di misura, foss'anche monetaria;
      c) che il valore della forza lavoro è oggi posto in un non-luogo e che questo non-luogo è smisurato. S'intende con ciò che è fuori misura ma, nello stesso tempo, che è oltre misura.
      Per riagganciare ora il tema valore-affetto, proponiamo di approfondire uno fra i tanti temi che l'introduzione alla discussione ci ha presentato: quello del nesso fra produzione e riproduzione sociale; e di farlo seguendo le indicazioni che la ricerca ha suggerito: 1. "dal basso"; 2. nel "non-luogo" smisurato.
      Per farlo occorre tuttavia rifiutare di percorrere una via semplice, che subito ci è proposta: è quella di rintrodurre le figure marxiane del valore d'uso, fingendo di rinnovarle a contatto della nuova situazione. Come operano i filosofi e i politici che si collocano in questa prospettiva? Ricostruiscono un valore d'uso fittizio che nostalgicamente oppongono alla mondializzazione crescente; oppongono cioè alla globalizzazione una resistenza umanistica. In realtà, nel loro discorso si rimettono in luce tutti i valori della modernità e il valore d'uso (quando la cosa non avvenga consapevolmente, certo si dà surrettiziamente) si configura in termini di identità. Un solo esempio: la resistenza dei sindacati operai alla mondializzazione. Per determinarla essi riesumano territorializzazione e identità del valore d'uso della forza lavoro e vi insistono, ciechi davanti alla trasformazione della produttività, disperati, incapaci di apprendere la potenza nuova che il non-luogo smisurato offre all'azione produttiva. Questa via è dunque impercorribile. Bisogna cercarne un'altra.
      Ma dove cercarla? Abbiamo detto "dal basso". Fin qui infatti abbiamo ragionato a partire da una relazione marxiana che portava dalla produzione alla riproduzione sociale e quindi dal valore alla realtà biopolitica. In questa relazione poteva essere incluso - opacamente - anche l'affetto; esso poteva emergere come «potenza di agire» sul limite basso della definizione del valore d'uso. Ma questo terminale della deduzione delle condizioni del valore non determinava effetti importanti, se non quando fosse astrattamente assunto come elemento dell'unità di calcolo. Ora si tratta dunque di cambiare il senso del ragionamento, di evitare la deduzione e di assumere piuttosto l'induzione - dall'affetto al valore - come linea di costruzione.
      Questa linea di costruzione è stata provata con buoni risultati - non sufficienti tuttavia a provarci la potenza dell'affetto nella radicalità e nell'estensione degli effetti che ora, nel postmoderno, ci attendiamo. Mi riferisco qui a quelle scuole storiografiche e dialettiche alle quali abbiamo già accennato (da E.P. Thompson agli "operaisti" europei degli anni Settanta alla "subaltern historiography"). Ora, in questa prospettiva teorica, l'affetto è assunto dal basso. Inoltre esso si presenta in prima istanza come produzione di valore. Attraverso questa produzione, esso si ripresenta poi, in seconda istanza, come prodotto delle lotte, come segno, come deposito ontologico di queste. L'affetto dunque presenta una dinamica di costruzione storica, ricca nella sua complessità. E tuttavia insufficiente. In questa prospettiva la dinamica delle lotte (e dei comportamenti affettivi) determina infatti, in ogni caso, la ristrutturazione del comando (tecnologico, politico, ecc.) del capitale. Lo sviluppo dell'affetto è dunque stretto in una dialettica che finisce per presentare la sua dinamica come circolarità. Come dialettica, tout court. E non c'è una dialettica buona davanti a una dialettica cattiva: tutte le dialettiche sono pessime, tutte sono incapaci di liberarsi dall'effettualità storica e dal suo incantesimo. La dialettica, anche una dialettica "dal basso", è incapace di presentarci la radicale innovazione del processo storico, l'esplosione della «potenza di agire» (l'affetto) in tutta la sua radicalità.
      Una linea di ricostruzione "dal basso" deve dunque accompagnarsi alla percezione del non-luogo. é solo l'assunzione radicale del punto di vista del "non-luogo" che può liberarci dalla dialettica della modernità, in tutte le sue figure, anche da quelle che hanno provato a sviluppare "dal basso" la costruzione della dialettica dell'affetto. Che cosa significa dunque sommare l'approccio "dal basso", la percezione del "non-luogo" e la rottura di ogni istanza dialettica in un percorso che vada dall'affetto al valore?
      L'affetto può essere considerato, in prima ipotesi, come una potenza di agire, singolare e - a un tempo - universale. Singolare perché pone l'agire oltre ogni misura che la potenza non contenga in se stessa, nella sua propria struttura e nelle ristrutturazioni continue che essa costruisce. Universale, perché gli affetti costruiscono una comunanza fra i soggetti. In questa comunanza si pone il "non-luogo" dell'affetto, perché questa comunanza non è un nome ma una potenza, non è comunanza di una costrizione ma di un desiderio. Qui dunque l'affetto non ha più nulla a che fare con il valore d'uso, perché non è una misura ma una potenza, ed esso non trova limiti ma solo ostacoli al proprio espandersi.
      Ma questa prima qualificazione dell'affetto come potenza di agire apre ad altre qualificazioni. Potremo infatti notare, in secondo luogo, che se la relazione fra singolarità e comunanza (universalità) non è statica bensì dinamica, se in questa relazione assistiamo a un movimento continuo fra il singolare che si universalizza e ciò che è comune che si singolarizza, bene, potremo qualificare allora l'affetto come una potenza di trasformazione, una forza di auto-valorizzazione: che insiste su se stessa in rapporto a "ciò che è comune" e che quindi porta "ciò che è comune" a un'espansione che non trova limiti ma solo ostacoli.
      Ma questo processo non è formale: esso è bensì materiale. Esso si realizza nella condizione biopolitica. In terzo luogo dunque parleremo dell'affetto come potenza di appropriazione, nel senso che ogni ostacolo che è superato dall'azione dell'affetto determina una maggiore forza di azione dell'affetto stesso, nella singolarità e nell'universalità della sua potenza. Il processo è ontologico, la potenza è ontologica, le condizioni dell'agire e della trasformazione sono di volta in volta appropriate e vanno ad arricchire la potenza dell'agire e del trasformare.
      In quarto luogo possiamo riunire le qualificazioni dell'affetto come potenza dell'agire in un'ulteriore definizione: l'affetto è una potenza espansiva. Vale a dire che è una potenza di libertà, di apertura ontologica, di diffusione onnilaterale. In realtà quest'ulteriore definizione potrebbe essere considerata pleonastica. Se infatti l'affetto costruisce valore "dal basso", se lo trasforma sul ritmo di "ciò che è comune", se si appropria delle condizioni materiali della propria realizzazione, è più che evidente che in tutto ciò risiede una potenza espansiva. Ma questa definizione non risulta pleonastica - aggiunge di contro un nuovo concetto - quando con essa si insista sulla tonalità positiva del "non-luogo", sull'irresistibilità dell'affetto come potenza "oltre-misura" e sulla conseguente nota assolutamente antidialettica. (Giocando con la storia della filosofia, che non merita nulla più che il gioco, si può aggiungere che mentre le prime tre definizioni dell'affetto sono spinoziane, questa quarta definizione recupera un effetto nietzscheano). L'espansività onnilaterale dell'affetto mostra, per così dire, il momento che ne trasvaluta il concetto, fino a determinarne la capacità di sostenere l'urto del postmoderno.

Di nuovo nell'economia politica

      Poiché il valore è fuori di ogni misura (da quella "naturale del valore d'uso come da quella monetaria) l'economia politica del postmoderno lo cerca su altri terreni: quello delle convenzioni di scambio mercantile e quello delle relazioni comunicative. Convenzioni di mercato e scambi comunicativi sarebbero dunque i luoghi di insediamento dei nessi produttivi (e quindi dei flussi affettivi)-fuori-misura, certo, ma passibili di controllo biopolitico. L'economia politica postmoderna riconosce dunque che il valore si forma nella relazione all'affetto, che l'affetto ha delle qualificazioni produttive fondamentali ecc. ecc.: di conseguenza si prova a controllarlo (e a mistificarne la natura) limitandone la potenza. L'economia politica deve in ogni caso mettere la forza produttiva sotto controllo, quindi deve organizzarsi per calcare sulle nuove figure di valorizzazione (e sui soggetti che la producono) nuove figure di sfruttamento.
      Si deve riconoscere che, riplasmando il sistema dei suoi concetti in questo modo, l'economia politica ha fatto un enorme progresso ed ha tentato di porsi (senza negare l'istanza di dominio che la definisce ma riproducendola in linguaggi originali) fuori della dialettica classica del capitale. Essa accetta l'impossibilità di determinare una misura "oggettiva" (trascendente come nel caso del "valore d'uso", trascendentale come nel caso del denaro) della produttività della forza lavoro. Si prova dunque sul terreno marcato dalla "produzione di soggettività" ovvero dalla soggettività produttiva. Il latente riconoscimento che l'economia politica dà al fatto che il valore è ormai un investimento di desiderio costituisce una vera e propria rivoluzione concettuale. (Giocando con la storia della filosofia, che è quasi sempre una disciplina della mistificazione, si può sottolineare quanto sia divertente vedere oggi sopravvalutati, in Adam Smith, la Teoria dei sentimenti morali in luogo della Ricchezza delle Nazioni; in Marx, gli scritti giovanili piuttosto del Capitale; e poi la "sociologia del dono" di Mauss invece di Economia e società di Max Weber...). Questa rivoluzione in economia politica è rivelatrice: si tratta di dominare il contesto di affetti che istaurano la realtà produttiva come superstruttura della riproduzione sociale e come articolazione della circolazione dei segni di comunicazione. Se la misurazione di questa nuova realtà produttiva è impossibile, perché l'affetto non è misurabile, tuttavia questo stesso contesto produttivo, così ricco di soggettività produttiva, l'affetto, deve essere controllato. L'economia politica è divenuta scienza deontologica. Vale a dire che il progetto dell'economia politica delle convenzioni e della comunicazione è il controllo di una realtà produttiva misurata.
      E tuttavia la cosa è più difficile di quanto l'economia politica sospetti. Abbiamo già sottolineato il fatto che "dismisura" significa "fuori-misura" ma anche, e soprattutto, "oltre-misura". Probabilmente la contraddizione centrale del postmoderno si colloca su questa differenza. L'affetto (e i suoi effetti produttivi) ne è al centro. Dice l'economia politica: va bene, riconosciamo che quel che è fuori-misura non può essere misurato, accettiamo che la scienza economica divenga una disciplina teorica non dialettica. Ciò non toglie, aggiunge l'economia politica, che questo fuori-misura possa essere controllato. La convenzione (cioè l'insieme dei modi-di-vita produttivi e di scambio) e la comunicazione (cioè l'insieme delle relazioni interattive che formano il mercato e la coscienza del mercato) presenterebbero dunque all'economia politica l'opportunità di restringere la smisuratezza dell'affetto-valore dentro il controllo. Interessante e titanico sforzo, questo, dell'economia politica!
      Senonché, ciò che sfugge all'economia politica (ma che tetanizza la politica economica) è l'altro aspetto: il valore-affetto oltre-misura. Questo non è contenibile. Il sublime è divenuto normale.

Per ricominciare l'analisi

      Un'economia del desiderio è attuale. Non solo in termini filosofici ma anche nei termini (disciplinari) della critica dell'economia politica - cioè a partire (non tanto dal modello quanto) dal punto di vista proposto da Marx: il punto di vista dell'oppresso che costruisce insurrezione e immagina una ricostruzione rivoluzionaria, un punto di vista "dal basso" che costruisce riccamente il "non-luogo" della realtà rivoluzionata. Il valore-affetto apre la via a una politica economica rivoluzionaria, di cui l'insurrezione è un necessario ingrediente, che pone il tema della riappropriazione del contesto biopolitico da parte dei soggetti produttivi.
      Che cosa vorremmo o potremmo? Dirlo scientificamente è oltre misura, non solo fuori misura. Ma è paradossalmente facile dirlo in "ciò che è comune", nel dialogo fra persone e in ogni lotta sociale. Quando gli eventi sono carichi di affettività. Tanta è la distanza tra l'essere e l'affetto. Di fatto, la nostra vita sociale, per non parlare di quella produttiva, è sommersa dall'impotenza di agire, dalla frustrazione di non creare, dalla castrazione della nostra immaginazione normale.
      Donde viene questo? Da un nemico. Se per lui misurare il valore è impossibile, per il produttore di valore è irreale la stessa esistenza di un misuratore di valore. A partire dall'affetto il nemico deve essere distrutto. Mentre l'affetto (la produzione, il valore, la soggettività) è indistruttibile.

| torna su |