Valore e
affetto
Toni
Negri
Non credo che, nelle polemiche
che ormai da duecento anni hanno accompagnato lo sviluppo della teoria del
valore nell'economia politica, si sia riusciti a sganciare il valore dal lavoro.
Anche le correnti marginaliste e le scuole neo-classiche (per vocazione dedite a
operare questo sganciamento) sono costrette a riprendere in considerazione quel
rapporto (e il suo supporto: il lavoro vivo di massa) ogniqualvolta si
confrontino con la politica economica in concreto. Nell'elaborazione teorica
neo-classica, l'analisi delle relazioni di mercato, imprenditoriali, finanziarie
e monetarie, rifiuta in principio ogni riferimento al lavoro: di fatto, lo
sottace. Non a caso, quando i neo-classici sono davanti a decisioni politiche,
la teoria del valore-lavoro gli risalta fuori (e ne sono tetanizzati), in quel
luogo esatto nel quale i fondatori della disciplina l'avevano collocata: il
luogo del conflitto (e dell'eventuale mediazione) del rapporto economico come
rapporto sociale, l'ontologia della teoria economica.
Ciò che è irreversibilmente mutato, dai
tempi del predominio della teoria classica del valore, riguarda tuttavia la
possibilità di svolgere la teoria del valore in termini di ordine economico,
ovvero di considerare il valore come misura del lavoro concreto, sia
singolarmente sia collettivamente. Le conseguenze economiche di questa
difficoltà sono tanto importanti quanto i suoi presupposti antropologici e
sociali. é su questi ultimi che la nostra analisi tenterà di soffermarsi - su
questa novità, che trasforma la teoria del valore "dal basso" della vita.
Nei secoli della modernizzazione
capitalistica (nel passaggio, cioè, per dirla con Marx, dalla manifattura alla
grande industria), la possibilità di misurazione del lavoro (che aveva
sommariamente funzionato nel periodo di accumulazione) viene progressivamente
meno. 1) In primo luogo, perché il lavoro - qualificandosi e complessificandosi,
sia individualmente che collettivamente - non poteva più esser ridotto a
quantità semplici, passibili di calcolo; 2) in secondo luogo perché il capitale,
finanziarizzandosi e statualizzandosi, rendeva artificiale e manipolabile,
quindi sempre più astratta, la mediazione fra i diversi settori del ciclo
economico (produzione, riproduzione sociale, circolazione e divisione dei
redditi).
Ma tutto questo è preistoria.
Nel mercato globale, nel postmoderno, il problema stesso della misura del valore
è introvabile.
È ben vero che nel
periodo del passaggio al postmoderno, nella fase delle lotte antimperialiste e
anticoloniali, la teoria del valore-lavoro è sembrata risorgere in termini
macro-economici, come teoria della divisione internazionale del lavoro, dello
«scambio ineguale», dello sfruttamento postcoloniale - ma questa rinascenza è
apparsa subito illusoria, non appena è divenuto evidente che la complessità dei
processi produttivi, oltre a essere immersa nella multinazionalizzazione
dell'attività industriale e nella globalizzazione finanziaria, era ulteriormente
intensificata dai processi tecnologici dell'informatica e della comunicazione,
nonché dall'investimento del lavoro immateriale e scientifico. Ciò non significa
che la divisione internazionale del lavoro e lo sfruttamento postcoloniale siano
terminati. Al contrario, si sono straordinariamente accentuati. Ma nello stesso
tempo hanno perduto la loro specificità (e quindi la possibilità di riattivare
nel caso concreto la teoria del valore), perché quel tipo di sfruttamento si è
esso stesso globalizzato, ha inondato i territori metropolitani, e la misura
dello sfruttamento è definitivamente dispersa.
Nell'economia del postmoderno e nei
territori della globalizzazione la produzione di merci avviene attraverso il
comando; la divisione del lavoro si dà attraverso il comando;
l'articolazione delle misure del lavoro è disfatta nel comando globale.
Ciò detto, il nostro tema, valore e
affetto, non è stato ancora fin qui sfiorato se non attraverso il
suggerimento a riconsiderare il problema del valore "dal basso".
In effetti, quando si guardino le cose
dal punto di vista dell'economia politica, cioè "dall'alto", il tema
valore-affetto è talmente integrato nel processo macroeconomico da
risultare invisibile. La scienza economica ignora il problema senza alcuna
resipiscenza. Quando gli passa fra le mani, non gli riconosce una qualsiasi
consistenza. Due casi sono, fra gli altri, esemplari. 1) Il primo concerne il
lavoro domestico delle donne e/o mogli/madri. Ora, nella tradizione
dell'economia politica, in nessun caso questo tema può essere posto fuori dalla
considerazione del salario, diretto o indiretto, del lavoratore (maschio, padre
di famiglia); oppure, in periodi più recenti, fuori dalle tecniche disciplinari
del controllo demografico delle popolazioni (e dell'eventuale interesse dello
Stato - capitalista collettivo - alla regolazione economica dello sviluppo
demografico). Il valore è qui assunto strappandolo al lavoro (delle donne, nel
caso, moglie o madre), cioè all'affetto. 2) Un secondo esempio, all'estremo
opposto, cioè non più attorno ai paradigmi tradizionali dell'economia classica,
ma considerando un tema affatto postmoderno: la cosiddetta «economia
dell'attenzione». S'intende con ciò l'interesse ad assumere nel calcolo
economico l'interattività dell'utente dei servizi di comunicazione. Anche
in questo caso, pur nello sforzo evidente di assorbire la produzione di
soggettività, la scienza economica ignora la consistenza di questa. Pone
l'attenzione nel calcolo di audience, appiattisce controlla e comanda la
produzione di soggettività su un orizzonte disincarnato. Il lavoro (attenzione)
è qui sussunto strappandolo al valore (del soggetto), cioè all'affetto.
Dobbiamo partire da quest'ignoranza
dell'economia politica per definire il tema valore-affetto. E dobbiamo definirlo
a partire da un apparente paradosso che vorrei così definire: quanto più la
misura del valore diventa ineffettuale, tanto più il valore della forza lavoro
diviene determinante nella produzione; quanto più l'economia politica sottace il
valore della forza lavoro, tanto più il valore della forza lavoro si estende,
incide su un terreno globale, biopolitico. Su questo ritmo paradossale il lavoro
diventa affetto, meglio, il lavoro trova il suo valore nell'affetto, se questo è
definito come «potenza di agire» (Spinoza). Il paradosso può dunque essere
riespresso in questi termini: quanto più la teoria del valore perde il suo
riferimento al soggetto (la misura era questo riferimento, come base della
mediazione e del comando), tanto più il valore del lavoro risiede nell'affetto,
cioè nel lavoro vivo che si autonomizza dal rapporto di capitale, ed esprime -
attraverso tutti i pori del corpo, singolare o collettivo - la sua potenza di
autovalorizzazione.
Decostruzione
La mia prima tesi, decostruttiva e
storica, è che misurare il lavoro, quindi ordinarlo e ricondurlo a una teoria
del valore, è impossibile quando, come oggi, la forza lavoro non è più né fuori
né dentro il comando (e la capacità di strutturare il comando) del capitale.
Ribadisco che oggi questa è la situazione. Per chiarirla si assumono due casi.
Primo caso. La forza lavoro,
ovvero il valore d'uso della forza lavoro, è fuori dal capitale.
È questa la situazione nella quale la
teoria del valore è stata costruita, l'epoca classica nella quale, essendone
fuori, la forza lavoro doveva essere portata dentro il capitale. Il processo di
accumulazione primitiva consiste nel portare dentro lo sviluppo (e il controllo)
capitalista quella forza lavoro che ne viveva fuori. Il «valore di scambio»
della forza lavoro è quindi radicato in un «valore d'uso» che si costruisce, in
buona parte, fuori dall'organizzazione capitalistica della produzione. In che
cosa consiste questo fuori? Marx ne ha a lungo parlato. Quando egli parla della
forza lavoro come «capitale variabile», egli allude infatti a un misto di
indipendenza e di soggettività che si organizzano: a) nell'indipendenza della
«piccola circolazione» (il legame con la terra, l'economia familiare, le
tradizioni di "dono", ecc.); b) sui valori propri alla «cooperazione operaia»
come tale, cioè sul fatto che la cooperazione costituisce un surplus di valore
che è precedente, o comunque irriducibile, all'organizzazione capitalistica del
lavoro, anche se è da essa recuperato; c) sull'insieme dei valori «storici e
morali» (dice Marx) che sono continuamente rinnovati, come bisogni e desideri,
dal movimento collettivo del proletariato e prodotti dalle sue lotte. La lotta
sul «salario relativo» (fortemente insistita da Rosa Luxemburg, nella
particolare interpretazione che dava del marxismo in una prospettiva di
produzione di soggettività) rappresenta un fortissimo dispositivo da parte del
fuori. Il «valore d'uso» si radica dunque, fondamentalmente, anche se sempre in
maniera relativa, fuori dal capitale.
Una larga storiografia (che spazia dal
lavoro di E.P. Thompson a quello degli "operaisti" italiani ed europei degli
anni Settanta, e al cui interno brilla l'opera della "subaltern
historiography" indiana) descrive questa situazione e la traduce in un
linguaggio militante.
Per un lungo
periodo storico, dunque, lo sviluppo capitalistico ha subìto una determinazione
indipendente del valore d'uso della forza lavoro, una determinazione che si
poneva - relativamente - fuori dal comando capitalistico. Il prezzo del «lavoro
necessario» (a riprodurre il proletariato) si presenta dunque, in questo
periodo, come una quantità naturale (e/o storica) - comunque esterna - che media
fra l'effettiva produttività della classe operaia e la sua inclusione sociale e
monetaria.
La specificità marxiana,
nella traduzione a fini rivoluzionari della teoria classica del valore, si fonda
anche sulla considerazione dell'estraneità (relativa) della consistenza del
«valore d'uso» della forza lavoro rispetto all'unità del comando capitalistico
sullo sviluppo dell'accumulazione. Si può aggiungere che, per Marx, misurare il
valore era utilizzare una unità di misura che si formava fuori (o comunque a
lato) del processo capitalistico di produzione e di riproduzione della società.
Secondo caso. La forza lavoro,
ovvero il suo valore d'uso è dentro la società del capitale.
Nel suo sviluppo, il capitale ha sempre
di più ricondotto la forza lavoro dentro il suo comando, ne ha progressivamente
tolto le condizioni di riproduzione esterna alla società del capitale, e quindi
è sempre di più riuscito a definire il valore d'uso della forza lavoro in
termini di valore di scambio - non più solo relativamente come nella fase
dell'accumulazione, ma assolutamente. «Arbeit macht frei». Non occorre essere
postmoderni per avvertire come questa riduzione (sussunzione) del valore d'uso a
un regime costrittivo e totalitario di valore di scambio si sia dato, a partire
dagli anni '30 in Usa, dagli anni '50 in Europa, e dagli anni Settanta nel Terzo
Mondo.
Certo, esistono ancora, nel Terzo
come nel Primo Mondo, situazioni nelle quali persistono importanti forme di
indipendenza nella formazione del valore d'uso proletario. Ma la tendenza al
loro riassorbimento è irresistibile. Il postmoderno descrive una tendenza
continua, impetuosa e rapida. Correttamente. Si può infatti affermare che, a
differenza di quanto ancora avveniva al tempo dell'analisi marxiana, non è oggi
immaginabile una definizione del valore d'uso che, pur parzialmente, possa darsi
indipendentemente dal valore di scambio.
Dunque, il calcolo economico, d'origine
classica o marxiana, che prevedeva un'unità indipendente di misura (un fuori)
alla base della dialettica del capitale, non ha più ragione di esistere. Questo
venir meno è reale, la teoria della misura del valore è di conseguenza divenuta
circolare e tautologica: non c'è più nulla di esterno che possa offrirle una
base. In effetti - e qui ancora non occorre essere postmoderni per riconoscerlo
- a partire dagli anni '60 (per quel che ci riguarda) ogni valore d'uso è
determinato dal regime di produzione capitalistico. E anche ogni valore, che
nella teoria dell'accumulazione non si poneva dentro un regime immediatamente
capitalistico (come la capacità sociale di riproduzione, il surplus produttivo
della cooperazione, la «piccola circolazione», i nuovi bisogni e desideri
prodotti dalle lotte), è ora immediatamente recuperato e mobilizzato nel regime
di controllo capitalistico (mondializzato).
Così, se (per esistere in termini
classici) la teoria del valore deve determinare un criterio di misura, essa non
potrà trovarlo oggi che all'interno della costituzione globale del valore di
scambio. Ora, questa misura è il denaro. Ma il denaro, appunto, non è una
misura del né una relazione al valore d'uso, ma - a questo punto dello sviluppo
- una sua pura e semplice sostituzione.
In conclusione, la teoria del valore ha
terminato la sua funzione razionalizzatrice (oltre che fondatrice) dell'economia
politica. Essa esce dallo sviluppo capitalistico ai bordi del postmoderno,
trasfigurata in teoria monetaria - costruita sull'orizzonte della
globalizzazione, organizzata dal comando imperiale. «One dollar is one dollar».
Il denaro non è più il prodotto di un regime di scambi (fra il capitale e una
forza lavoro più o meno soggettivata) ma la produzione di un regime di
scambi. La teoria del valore è banalizzata come utensile della misura monetaria,
dell'ordine del denaro.
Ma il valore
della produzione non si è estinto. Quand'esso non sia più riconducibile a
misura, diviene s-misurato. Voglio con ciò sottolineare il paradosso di
una forza lavoro che non è più né fuori né dentro il
capitale. Nel primo caso, il criterio che ne permetteva, con la misura, il
controllo, era la sua relativa indipendenza (che oggi non esiste più: la forza
lavoro è "realmente sussunta"); nel secondo caso, il criterio che permetteva,
malgrado la caduta della misura, il comando sulla forza lavoro consisteva nel
suo assorbimento nel regime monetario (il keynesismo, per parlare della forma
più raffinata di tecnica di controllo). Ma anche questo secondo criterio è
venuto meno nella misura in cui il controllo monetario si è reso del tutto
astratto. Dobbiamo dunque concludere che la forza lavoro che è dato ritrovare
nel postmoderno (nel sistema globale e/o imperiale dell'economia capitalistica)
è situata in un non-luogo rispetto al capitale.
Come definiamo questo non-luogo?
Per introdurre il discorso, occorre
innanzitutto identificare il deplacement teorico che la globalizzazione
dello sfruttamento capitalistico determina. Ora, quando si parla di
globalizzazione, se ne parla in un duplice senso: estensivamente, come
allargamento mondiale del tessuto produttivo attraverso i mercati;
intensivamente, come assorbimento dell'intera vita sociale nella
produzione capitalistica. Nel primo senso la forza lavoro si presenta in
aggregati (o soggettività) mobili e intercambiabili, materiali e immateriali, la
cui potenza produttiva è organizzata secondo dispositivi di mobilitazione (e/o
di segregazione, di segmentazione, ecc.): la forza produttiva è qui declinata
dalla circolazione. Nel secondo caso la forza lavoro si presenta come tessuto
sociale, come popolazione e cultura, tradizioni e innovazioni, ecc. - insomma,
la sua forza produttiva è sfruttata all'interno dei processi di riproduzione
sociale. La produzione diventa coestensiva alla riproduzione, in contesto
biopolitico. (Quando si parla di «biopolitica», si definisce un contesto di
riproduzione sociale, che integra produzione e circolazione, e il dispositivo
politico che li organizza. Non è qui il luogo di approfondire questa tematica:
ci sia solo permesso di introdurre il termine).
Il non-luogo della forza lavoro è quindi
negativamente definito dalla dissoluzione della separazione fra le forme di
realizzazione del capitale - così come i classici e/o Marx ce le avevano
trasmesse. é positivamente definito, a un tempo, dall'intensità della
mobilitazione e dalla consistenza del nesso biopolitico della forza
lavoro.
Costruzione
Abbiamo fin qui concluso a qualche
affermazione:
a) che la misura del
valore-lavoro, piantata sull'indipendenza del valore d'uso, è ormai
ineffettuale;
b) che la regola del
comando capitalistico che si impone nell'orizzonte della globalizzazione,
annulla ogni possibilità di misura, foss'anche monetaria;
c) che il valore della forza lavoro è
oggi posto in un non-luogo e che questo non-luogo è smisurato. S'intende
con ciò che è fuori misura ma, nello stesso tempo, che è oltre
misura.
Per riagganciare ora il tema
valore-affetto, proponiamo di approfondire uno fra i tanti temi che
l'introduzione alla discussione ci ha presentato: quello del nesso fra
produzione e riproduzione sociale; e di farlo seguendo le indicazioni che la
ricerca ha suggerito: 1. "dal basso"; 2. nel "non-luogo" smisurato.
Per farlo occorre tuttavia rifiutare di
percorrere una via semplice, che subito ci è proposta: è quella di rintrodurre
le figure marxiane del valore d'uso, fingendo di rinnovarle a contatto della
nuova situazione. Come operano i filosofi e i politici che si collocano in
questa prospettiva? Ricostruiscono un valore d'uso fittizio che nostalgicamente
oppongono alla mondializzazione crescente; oppongono cioè alla globalizzazione
una resistenza umanistica. In realtà, nel loro discorso si rimettono in luce
tutti i valori della modernità e il valore d'uso (quando la cosa non avvenga
consapevolmente, certo si dà surrettiziamente) si configura in termini di
identità. Un solo esempio: la resistenza dei sindacati operai alla
mondializzazione. Per determinarla essi riesumano territorializzazione e
identità del valore d'uso della forza lavoro e vi insistono, ciechi davanti alla
trasformazione della produttività, disperati, incapaci di apprendere la potenza
nuova che il non-luogo smisurato offre all'azione produttiva. Questa via è
dunque impercorribile. Bisogna cercarne un'altra.
Ma dove cercarla? Abbiamo detto "dal
basso". Fin qui infatti abbiamo ragionato a partire da una relazione marxiana
che portava dalla produzione alla riproduzione sociale e quindi dal valore alla
realtà biopolitica. In questa relazione poteva essere incluso - opacamente -
anche l'affetto; esso poteva emergere come «potenza di agire» sul limite basso
della definizione del valore d'uso. Ma questo terminale della deduzione delle
condizioni del valore non determinava effetti importanti, se non quando fosse
astrattamente assunto come elemento dell'unità di calcolo. Ora si tratta dunque
di cambiare il senso del ragionamento, di evitare la deduzione e di assumere
piuttosto l'induzione - dall'affetto al valore - come linea di costruzione.
Questa linea di costruzione è stata
provata con buoni risultati - non sufficienti tuttavia a provarci la potenza
dell'affetto nella radicalità e nell'estensione degli effetti che ora, nel
postmoderno, ci attendiamo. Mi riferisco qui a quelle scuole storiografiche e
dialettiche alle quali abbiamo già accennato (da E.P. Thompson agli "operaisti"
europei degli anni Settanta alla "subaltern historiography"). Ora, in
questa prospettiva teorica, l'affetto è assunto dal basso. Inoltre esso si
presenta in prima istanza come produzione di valore. Attraverso questa
produzione, esso si ripresenta poi, in seconda istanza, come prodotto delle
lotte, come segno, come deposito ontologico di queste. L'affetto dunque presenta
una dinamica di costruzione storica, ricca nella sua complessità. E tuttavia
insufficiente. In questa prospettiva la dinamica delle lotte (e dei
comportamenti affettivi) determina infatti, in ogni caso, la ristrutturazione
del comando (tecnologico, politico, ecc.) del capitale. Lo sviluppo dell'affetto
è dunque stretto in una dialettica che finisce per presentare la sua dinamica
come circolarità. Come dialettica, tout court. E non c'è una dialettica
buona davanti a una dialettica cattiva: tutte le dialettiche sono pessime, tutte
sono incapaci di liberarsi dall'effettualità storica e dal suo incantesimo. La
dialettica, anche una dialettica "dal basso", è incapace di presentarci la
radicale innovazione del processo storico, l'esplosione della «potenza di
agire» (l'affetto) in tutta la sua radicalità.
Una linea di ricostruzione "dal basso"
deve dunque accompagnarsi alla percezione del non-luogo. é solo l'assunzione
radicale del punto di vista del "non-luogo" che può liberarci dalla dialettica
della modernità, in tutte le sue figure, anche da quelle che hanno provato a
sviluppare "dal basso" la costruzione della dialettica dell'affetto. Che cosa
significa dunque sommare l'approccio "dal basso", la percezione del "non-luogo"
e la rottura di ogni istanza dialettica in un percorso che vada dall'affetto al
valore?
L'affetto può essere
considerato, in prima ipotesi, come una potenza di agire, singolare e - a un
tempo - universale. Singolare perché pone l'agire oltre ogni misura che la
potenza non contenga in se stessa, nella sua propria struttura e nelle
ristrutturazioni continue che essa costruisce. Universale, perché gli affetti
costruiscono una comunanza fra i soggetti. In questa comunanza si pone il
"non-luogo" dell'affetto, perché questa comunanza non è un nome ma una potenza,
non è comunanza di una costrizione ma di un desiderio. Qui dunque l'affetto non
ha più nulla a che fare con il valore d'uso, perché non è una misura ma una
potenza, ed esso non trova limiti ma solo ostacoli al proprio espandersi.
Ma questa prima qualificazione
dell'affetto come potenza di agire apre ad altre qualificazioni. Potremo infatti
notare, in secondo luogo, che se la relazione fra singolarità e comunanza
(universalità) non è statica bensì dinamica, se in questa relazione assistiamo a
un movimento continuo fra il singolare che si universalizza e ciò che è comune
che si singolarizza, bene, potremo qualificare allora l'affetto come una
potenza di trasformazione, una forza di auto-valorizzazione: che insiste
su se stessa in rapporto a "ciò che è comune" e che quindi porta "ciò che è
comune" a un'espansione che non trova limiti ma solo ostacoli.
Ma questo processo non è formale: esso è
bensì materiale. Esso si realizza nella condizione biopolitica. In terzo luogo
dunque parleremo dell'affetto come potenza di appropriazione, nel senso che ogni
ostacolo che è superato dall'azione dell'affetto determina una maggiore forza di
azione dell'affetto stesso, nella singolarità e nell'universalità della sua
potenza. Il processo è ontologico, la potenza è ontologica, le condizioni
dell'agire e della trasformazione sono di volta in volta appropriate e vanno ad
arricchire la potenza dell'agire e del trasformare.
In quarto luogo possiamo riunire le
qualificazioni dell'affetto come potenza dell'agire in un'ulteriore definizione:
l'affetto è una potenza espansiva. Vale a dire che è una potenza di
libertà, di apertura ontologica, di diffusione onnilaterale. In realtà
quest'ulteriore definizione potrebbe essere considerata pleonastica. Se infatti
l'affetto costruisce valore "dal basso", se lo trasforma sul ritmo di "ciò che è
comune", se si appropria delle condizioni materiali della propria realizzazione,
è più che evidente che in tutto ciò risiede una potenza espansiva. Ma questa
definizione non risulta pleonastica - aggiunge di contro un nuovo concetto -
quando con essa si insista sulla tonalità positiva del "non-luogo",
sull'irresistibilità dell'affetto come potenza "oltre-misura" e sulla
conseguente nota assolutamente antidialettica. (Giocando con la storia della
filosofia, che non merita nulla più che il gioco, si può aggiungere che mentre
le prime tre definizioni dell'affetto sono spinoziane, questa quarta definizione
recupera un effetto nietzscheano). L'espansività onnilaterale dell'affetto
mostra, per così dire, il momento che ne trasvaluta il concetto, fino a
determinarne la capacità di sostenere l'urto del postmoderno.
Di nuovo nell'economia politica
Poiché il valore è fuori di ogni misura
(da quella "naturale del valore d'uso come da quella monetaria) l'economia
politica del postmoderno lo cerca su altri terreni: quello delle convenzioni di
scambio mercantile e quello delle relazioni comunicative. Convenzioni di mercato
e scambi comunicativi sarebbero dunque i luoghi di insediamento dei nessi
produttivi (e quindi dei flussi affettivi)-fuori-misura, certo, ma passibili di
controllo biopolitico. L'economia politica postmoderna riconosce dunque che il
valore si forma nella relazione all'affetto, che l'affetto ha delle
qualificazioni produttive fondamentali ecc. ecc.: di conseguenza si prova a
controllarlo (e a mistificarne la natura) limitandone la potenza. L'economia
politica deve in ogni caso mettere la forza produttiva sotto controllo, quindi
deve organizzarsi per calcare sulle nuove figure di valorizzazione (e sui
soggetti che la producono) nuove figure di sfruttamento.
Si deve riconoscere che, riplasmando il
sistema dei suoi concetti in questo modo, l'economia politica ha fatto un enorme
progresso ed ha tentato di porsi (senza negare l'istanza di dominio che la
definisce ma riproducendola in linguaggi originali) fuori della dialettica
classica del capitale. Essa accetta l'impossibilità di determinare una misura
"oggettiva" (trascendente come nel caso del "valore d'uso", trascendentale come
nel caso del denaro) della produttività della forza lavoro. Si prova dunque sul
terreno marcato dalla "produzione di soggettività" ovvero dalla soggettività
produttiva. Il latente riconoscimento che l'economia politica dà al fatto che il
valore è ormai un investimento di desiderio costituisce una vera e
propria rivoluzione concettuale. (Giocando con la storia della filosofia, che è
quasi sempre una disciplina della mistificazione, si può sottolineare quanto sia
divertente vedere oggi sopravvalutati, in Adam Smith, la Teoria dei
sentimenti morali in luogo della Ricchezza delle Nazioni; in Marx,
gli scritti giovanili piuttosto del Capitale; e poi la "sociologia del
dono" di Mauss invece di Economia e società di Max Weber...). Questa
rivoluzione in economia politica è rivelatrice: si tratta di dominare il
contesto di affetti che istaurano la realtà produttiva come superstruttura della
riproduzione sociale e come articolazione della circolazione dei segni di
comunicazione. Se la misurazione di questa nuova realtà produttiva è
impossibile, perché l'affetto non è misurabile, tuttavia questo stesso contesto
produttivo, così ricco di soggettività produttiva, l'affetto, deve essere
controllato. L'economia politica è divenuta scienza deontologica. Vale a dire
che il progetto dell'economia politica delle convenzioni e della comunicazione è
il controllo di una realtà produttiva misurata.
E tuttavia la cosa è più difficile di
quanto l'economia politica sospetti. Abbiamo già sottolineato il fatto che
"dismisura" significa "fuori-misura" ma anche, e soprattutto, "oltre-misura".
Probabilmente la contraddizione centrale del postmoderno si colloca su questa
differenza. L'affetto (e i suoi effetti produttivi) ne è al centro. Dice
l'economia politica: va bene, riconosciamo che quel che è fuori-misura non può
essere misurato, accettiamo che la scienza economica divenga una disciplina
teorica non dialettica. Ciò non toglie, aggiunge l'economia politica, che questo
fuori-misura possa essere controllato. La convenzione (cioè l'insieme dei
modi-di-vita produttivi e di scambio) e la comunicazione (cioè l'insieme delle
relazioni interattive che formano il mercato e la coscienza del mercato)
presenterebbero dunque all'economia politica l'opportunità di restringere la
smisuratezza dell'affetto-valore dentro il controllo. Interessante e titanico
sforzo, questo, dell'economia politica!
Senonché, ciò che sfugge all'economia
politica (ma che tetanizza la politica economica) è l'altro aspetto: il
valore-affetto oltre-misura. Questo non è contenibile. Il sublime è
divenuto normale.
Per ricominciare
l'analisi
Un'economia del
desiderio è attuale. Non solo in termini filosofici ma anche nei termini
(disciplinari) della critica dell'economia politica - cioè a partire (non tanto
dal modello quanto) dal punto di vista proposto da Marx: il punto di vista
dell'oppresso che costruisce insurrezione e immagina una ricostruzione
rivoluzionaria, un punto di vista "dal basso" che costruisce riccamente il
"non-luogo" della realtà rivoluzionata. Il valore-affetto apre la via a una
politica economica rivoluzionaria, di cui l'insurrezione è un necessario
ingrediente, che pone il tema della riappropriazione del contesto biopolitico da
parte dei soggetti produttivi.
Che cosa
vorremmo o potremmo? Dirlo scientificamente è oltre misura, non solo fuori
misura. Ma è paradossalmente facile dirlo in "ciò che è comune", nel dialogo fra
persone e in ogni lotta sociale. Quando gli eventi sono carichi di affettività.
Tanta è la distanza tra l'essere e l'affetto. Di fatto, la nostra vita sociale,
per non parlare di quella produttiva, è sommersa dall'impotenza di agire, dalla
frustrazione di non creare, dalla castrazione della nostra immaginazione
normale.
Donde viene questo? Da un
nemico. Se per lui misurare il valore è impossibile, per il produttore di valore
è irreale la stessa esistenza di un misuratore di valore. A partire dall'affetto
il nemico deve essere distrutto. Mentre l'affetto (la produzione, il valore, la
soggettività) è indistruttibile.
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