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L'AGONIA DELLO STATO NAZIONE
L'«Impero», stadio
supremo dell'imperialismo
In che cosa il sistema di dominazione mondiale
del capitalismo si differenzia dall'imperialismo come è definito dalla
tradizione marxista? A quali trasformazioni economiche, tecnologiche,
sociali e politiche del mondo questa evoluzione risponde? E quali sono le
sue conseguenze sulle lotte degli stati occidentali, dei paesi in
transizione e del terzo mondo? Ecco le questioni centrali trattate da
Impero, un libro scritto dall'americano Michael Hardt e dall'italiano Toni
Negri, pubblicato di recente in Francia. Originali, a volte provocatorie,
le loro tesi meritano di essere conosciute.
di Toni Negri* Ci sono due assunti che stanno alla base di
Impero, il libro che Michael Hardt e io abbiamo cominciato a scrivere dopo
la guerra del Golfo e abbiamo terminato prima della guerra del Kosovo. Il
primo assunto è che non c'è mercato globale (come se ne parla dopo la
caduta del Muro, vale a dire come categoria politica e non solo come
paradigma macroeconomico) senza una qualche forma di ordinamento
giuridico, e che questo ordine giuridico non può esistere senza un potere
che ne garantisca l'efficacia. Il secondo assunto è che l'ordine
giuridico del mercato globale (che noi chiamiamo imperiale) non disegna
semplicemente, e tendenzialmente organizza, una nuova figura di potere
supremo ma registra anche nuove potenze della vita e
dell'insubordinazione, della produzione e della lotta fra le classi.
L'esperienza politica internazionale degli anni che che vanno dalla caduta
del Muro di Berlino ad oggi dà ampiamente ragione a questa ipotesi. È
dunque giunto il momento di aprire una discussione e fare una verifica
sperimentale dei concetti (meglio, dei nomi comuni) che proponiamo per il
rinnovamento delle scienze politiche e giuridiche a proposito della nuova
organizzazione del potere globale. Che un mercato globale esista è cosa
che solo dei pazzi possono ormai negare. Basta cliccare su Internet per
convincersi che questa dimensione globale del mercato non rappresenta solo
un'esperienza originaria della coscienza economica, o l'orizzonte di una
lunga prassi dell'immaginazione (come Braudel ci racconta per la tarda
Rinascenza), ma è piuttosto un'organizzazione attuale. Essa è più che
un'organizzazione informale, è un nuovo ordine. Il mercato mondiale è
infatti politicamente unificato intorno a quelli che da sempre sono stati
considerati segni della sovranità: il potere militare, quello monetario e,
infine, quello comunicativo, culturale e linguistico. Il potere militare
si rappresenta nel possesso da parte di una sola autorità della panoplia
dell'armamento, ivi compreso il nucleare. Quello monetario consiste nella
coniazione di una moneta egemonica alla quale il mondo plurale della
finanza è interamente subordinato. Quello comunicativo si traduce nel
trionfo di un unico modello culturale e, tendenzialmente, di una sola
lingua universale. Quest'ordinamento è dunque sovranazionale, mondiale,
totale: noi lo chiamiamo «Impero». Ma quando chiamiamo «imperiale»
questa determinazione dei rapporti di potere, subito urge il problema di
distinguerla da quello che nei secoli scorsi si è chiamato «imperialismo».
Con questo termine intendiamo l'espansione dello stato-nazione oltre i
suoi confini, la creazione di rapporti coloniali (spesso camuffati da
modernizzazione) a scapito di popoli che erano fuori dal processo
eurocentrico di civilizzazione capitalistica; intendiamo infine
l'aggressività statuale, militare ed economica, culturale, persino
razzista, di nazioni forti nei confronti di nazioni povere. Oggi, nella
fase imperiale della nostra civiltà, non c'è più imperialismo - o, quando
sussiste, è fenomeno transitorio, tappa di assimilazione verso una
circolazione imperiale dei valori e dei poteri - come non c'è più
stato-nazione. Sfuggono ormai a quest'ultimo le tre qualificazioni
sostanziali della sovranità - militare, politica e culturale - assorbite
o, eventualmente, surrogate, dai poteri centrali dell'Impero. Di
conseguenza, viene meno la subordinazione dei paesi ex coloniali agli
stati-nazione imperialisti, così come scompaiono, o deperiscono, le
gerarchie imperialiste fra nazioni e continenti: tutto si riorganizza in
funzione del nuovo orizzonte unitario dell'Impero. Ma, si dirà, perché
chiamare «Impero» (e pretendere una novità della formula giuridica) quello
che è semplicemente l'imperialismo americano del dopo-Muro? Su questo
punto la nostra risposta è drastica: l'Impero non è americano, come
sostengono gli ultimi sciovinisti della nazionalità - del resto, gli Usa,
nella loro storia, erano stati meno capaci di essere imperialisti di
quanto non lo fossero inglesi, francesi, russi e olandesi. No, l'Impero è
semplicemente capitalista, è l'ordine del capitale collettivo, cioè della
forza che ha vinto la guerra civile del XX secolo. Battersi contro
l'Impero in nome dello stato-nazione rivela dunque un'enorme
incomprensione della realtà del comando sovranazionale, della sua figura
imperiale e della sua natura di classe: è una
mistificazione. All'Impero del «capitale collettivo» partecipano
altrettanto bene i capitalisti anglo-sassoni quanto quelli europei, quelli
che cominciano a costruire le loro fortune nella corruzione russa quanto
arabi, asiatici e i pochi africani che possono mandare i figli a Harvard e
i soldi a Wall Street. Certo, resta il fatto che per il governo
americano è difficile rifiutare la responsabilità del governo imperiale.
Con Michael Hardt pensiamo tuttavia che questa responsabilità vada
attenuata. Non solo perché ormai la formazione delle élite americane è
largamente influenzata dalla struttura multinazionale del potere, ma anche
e soprattutto perché il potere «monarchico» della presidenza americana è
sempre più influenzato dal potere «aristocratico» delle grandi imprese
sovranazionali, finanziarie e produttive, nonché condizionato dalle
pressioni plebee delle nazioni povere, dal potere «tribunizio» delle
organizzazioni dei lavoratori, ovvero dal potere «democratico» dei
rappresentanti degli sfruttati e degli esclusi. Un ordine più
totalitario Da qui la riattualizzazione di una definizione «alla Polibio»
(1) del potere imperiale attuale, che riconoscerebbe alla
Costituzione americana una capacità di espansione che le permette di
sviluppare, sull'orizzonte mondiale, una molteplicità di funzioni di
governo e di assorbire nelle sue dinamiche la costruzione di uno spazio
pubblico mondiale. La «fine della storia» consiste appunto nell'equilibrio
delle funzioni regale, aristocratica e democratica, fissato da una
Costituzione americana allargata in maniera imperiale al mercato
mondiale. In realtà, molte delle pretese di dominio che il potere
imperiale vanta sono del tutto illusorie. Ciò non toglie che il suo ordine
giuridico, politico e sovrano sia, nella fase attuale, forse più efficace,
certo più totalitario, di quanto lo sono state le forme di governo che
l'hanno preceduto. Esso infatti non solo si estende, e si radica, in ogni
parte del mondo, giocando sull'unificazione economico-finanziaria come
strumento di autorità del diritto imperiale, ma continuamente
approfondisce il suo controllo su tutti gli aspetti della vita. Per
questo abbiamo voluto sottolineare la nuova qualità «biopolitica» del
potere imperiale, indicando con ciò l'evento che ne ha pemesso il decollo:
il passaggio dall'organizzazione fordista del lavoro a quella post
fordista o, meglio, dal modo di produzione manifatturiero a forme di
valorizzazione (e di sfruttamento) più vaste: sociali, immateriali, ma
soprattutto che investono la vita, le sue articolazioni intellettuali ed
affettive, i tempi di riproduzione, le migrazioni dei poveri attraverso i
continenti... L'impero costruisce un ordine biopolitico perché la
produzione è divenuta biopolitica. Come dire che, mentre lo stato-nazione
si serve di dispositivi «disciplinari» nell'organizzare esercizio del
potere e dinamiche del consenso, costruendo così una certa integrazione
sociale produttiva e adeguati modelli di cittadinanza, l'Impero sviluppa
dispositivi di controllo che investono tutti gli aspetti della vita e li
ricompongono in schemi di produzione e di cittadinanza funzionali alla
manipolazione totalitaria delle attività, dell'ambiente, dei rapporti
sociali e culturali etc. Se la deterritorializzazione produttiva incita
alla mobilità e alla flessibilità sociali, accresce anche enormemente la
struttura piramidale del potere e il controllo globale dell'attivazione
delle società deterritorializzate. Questo processo è ormai irreversibile,
sia che si tratti del passaggio dalla nazione all'impero, o dello
spostamento della valorizzazione produttiva, cioè la produzione della
ricchezza, dalle fabbriche alla società, dal lavorare al comunicare, o
ancora dell'evoluzione dei modi di governo disciplinari verso procedure di
controllo. Cosa c'è all'origine di questa transizione? A nostro parere,
le lotte operaie e quelle del proletariato del terzo mondo, nonché i
movimenti di emancipazione che hanno attraversato l'ex-mondo del
socialismo reale. In questa prospettiva, il nostro approccio resta del
tutto marxiano: sono le lotte che generano lo sviluppo, sono i movimenti
del proletariato che producono la storia. In particolare, sono state le
lotte dell'operaio di massa che rifiutava il lavoro taylorizzato ad
accelerare quella rivoluzione tecnologica che ha portato alla
socializzazione e all'informatizzazione della produzione: così com'è stata
l'incontenibile pressione della forza lavoro nei paesi post coloniali
d'Asia e d'Africa a generare, insieme, quei sussulti di produttività e
quei movimenti di popolazioni che hanno sconvolto le rigidità nazionali
dei mercati del lavoro. Infine, nei paesi del socialismo reale, è il
desiderio di libertà della nuova forza lavoro tecnica ed intellettuale,
che fa saltare in aria la vetusta disciplina socialista e con ciò
distrugge l'artificiale, staliniana distorsione del mercato
mondiale. Il costituirsi dell'Impero rappresenta la reazione
capitalista alla crisi dei vecchi sistemi di disciplinarizzazione della
forza lavoro su scala mondiale: interpreta dunque una nuova tappa della
lotta degli sfruttati contro il potere del capitale. Lo stato-nazione,
gabbia di contenimento delle lotte di classe, agonizza, come prima di lui
lo stato coloniale e quello imperialista. Attribuire ai movimenti della
classe operaia e del proletariato questa trasformazione del paradigma del
potere capitalistico, significa per noi affermare che gli uomini si
avvicinano alla loro liberazione dal modo di produzione capitalistico.
Significa comunque prendere le distanze dai piagnistei sulla fine degli
accordi e dei contratti corporativi del socialismo e del sindacalismo
nazionale, da tutte le lamentazioni sulla bellezza dei tempi che furono e
dalla nostalgia di un riformismo sociale fondato sul risentimento dello
sfruttato e sull'invidia che - spesso - cova sotto l'utopia. No, noi
siamo dentro al mercato mondiale, e qui cerchiamo di farci interpreti
dell'immaginazione che sognò, un giorno, l'unità delle classi sfruttate
nell'internazionale comunista. Perché noi vediamo, nell'evento, nascere
nuove forze. Se, e come, possono le lotte essere tanto incisive e
massificate da destabilizzare, o eventualmente, da destrutturare,
l'organizzazione complessa dell'Impero? Questa ipotesi suscita l'ironia
dei «realisti» nei confronti dell'utopia: la forza dell'Impero è così
grande! Ma, per la teoria critica, una utopia ragionevole non è
inconsueta. D'altra parte non c'è alternativa, perché noi siamo qui,
dentro l'Impero, da questo sfuttati e comandati, e non altrove. L'Impero è
l'organizzazione attuale di un capitalismo in piena ristrutturazione dopo
un secolo di lotte proletarie che non ha avuto eguale nella storia
dell'umanità. Il nostro libro presume dunque un certo desiderio di
comunismo. È un tema, questo, che attraversa tutte le analisi condotte
ed è sintetizzato dalla domanda: come può aprirsi la guerra civile della
moltitudine contro il capitale-mondo, nell'Impero? Tre indicazioni
sembrano sorgere dall'esperienza delle lotte, nascoste o palesi, che
agitano questo nuovo territorio del potere. Queste lotte chiedono, oltre a
un salario garantito, una nuova espressione di democrazia nel controllo
delle condizioni politiche di riproduzione della vita. Si sviluppano
nei movimenti delle popolazioni al di là del quadro nazionale, abbattendo
ogni frontiera e chiedendo cittadinanza universale. Sono, infine, lotte
e comportamenti di individui e moltitudini che intendono riappropriarsi
della ricchezza prodotta dopo che, attraverso successive, continue
rivoluzioni tecnologiche, gli strumenti della produzione sono venuti in
possesso dei soggetti, autentiche protesi del loro cervello. Buona
parte di queste idee si sono formate durante le manifestazioni
dell'inverno '95 a Parigi, in quella «Comune sotto la neve» che, ben al di
là della semplice difesa cittadina del trasporto pubblico, esaltava
l'auto-riconoscimento sovversivo dei cittadini delle metropoli. Alcuni
anni ci separano da quell'esperienza, ma ovunque, laddove si siano date
lotte contro l'Impero, esse hanno messo in luce un fenomeno sul quale
hanno molto investito: la nuova coscienza che il bene comune è, nella vita
come nella produzione, decisivo. Più di quanto possano esserlo il
«privato» e il «nazionale». Solo il «comune» (2) è infatti contro l'Impero.
note:
*Coautore, insieme a Michael Hardt, di Empire (Exils,
Parigi 2000). Ex direttore del Dipartimento di Scienze politiche
dell'Università di Padova, ex dirigente storico del gruppo Potere Operaio,
Antonio (detto Toni) Negri sconta attualmente, nel carcere di Rebibbia a
Roma, una condanna a diciassette anni di prigione per «insurrezione armata
contro lo stato» e a tre anni e mezzo per «responsabilità morale» negli
scontri fra dimostranti e polizia a Milano, tra il 1973 il 1977. Tuttavia
ha il diritto di uscire nel corso della giornata. Durante il suo esilio
di 14 anni a Parigi, è stato professore incaricato alla Scuola normale
superiore della rue d'Ulm e insegnante all'Università Paris-VII e al
Collegio internazionale di filosofia.
(1)
Nato tra il 210 e il 202, Polibio, esiliato a Roma dopo il crollo della
potenza macedone, diviene il principale storico della vittoria di Roma su
Cartagine e dell'espansione romana verso Oriente. Pragmatico, cercò di
spiegare le cause degli sviluppi storici ai quali assisteva. Morì
intorno al 126 a.C.
(2)
Ndr: Il «comune» è un concetto sul quale Toni Negri lavora. Non è il «bene
comune» ma il «comune» in riferimento a Spinoza.
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