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La Valle degli Aurunci doveva essere veramente bella ad una altezza di 400 metri sul livello del mare, con un lago artificiale meraviglioso la cui diga ancora si conserva quasi intatta, costruita da pietre di notevole grandezza in mezzo ai campi confinanti con il territorio di Petrizzi.

Allora il paese di San Vito sullo Jonio non v’era e noi ci riferiamo al Secolo XI quando esisteva il lago e il Conte Ruggiero, nei suoi giorni di ozio, si rifugiava nella sua villa in riva a queste acque ricche di pesce ch’egli con gli amici pescava e poi gustava alla sua tavola sontuosamente imbandita.

Sembra che la casa di Ruggiero sorgesse ai piedi del colle ove sorge attualmente il ridente paesino di Cenadi, cosi chiamato per le favolose cene del Conte, che invitava amici vicini e lon­tani o quelli di passaggio diretti verso le terre siciliane.

Ben poco sappiamo del nostro paese dal secolo XI al secolo XVIII. Sappiamo solo che, nella prima metà del’700, il lago non esisteva più perché le acque dei fiumi, ingrossatisi per le pioggie torrenziali, avevano rotto l’argine ed il grande muro aveva ceduto.

La fantasia popolare ha creato una leggenda che ancor oggi viene ripetuta e creduta dai vecchi contadini che fermamente sostengono esser stato il giovinetto San Vito a rompere con un netto colpo di spada, la diga, quando le acque stavano per minacciare le poche case che circondavano il lago. Apertosi il varco, le acque poterono defluire e, confondendosi con quelle del vicino Ancinale, riversarsi verso lo Jonio, nel Golfo di Squillace. Da allora, al posto del lago, è rimasta la pianura con le sue fertili zolle che costituisce la conca d’oro del nuovo paese, dedicato, dalle popolazioni postesi in salvo, al giovane Santo.

E’ doveroso porci una domanda: Quando sorse il nostro paese?

La risposta esauriente ce la dà Giovanni Fiore, predicatore cappuccino nativo di Cropani, che in una parte della Calabria Illustrata del 1691, così scrive: « al fianco sinistro di Chiaravalle, disteso su una pianura, si vede San Vito, già villaggio di Squillace, oggidì smembrato sotto la giurisdizione di sé medesimo. Accoglie nel suo seno le venerabili reliquie del Santo Martire di Cristo, Vito, e perciò cosiddetto dal suo nome. Ha un popolo di 170 fuochi, con molte famiglie nobili e ricche, ed abbonda di ortaggi, di lini ottimi, ed altre cose necessarie all’umano vivere

Era uso nei tempi antichi parlar di fuochi — dei focolari — per indicare le famiglie, che vi vivevano attorno!

Secondo altri storici il nostro paese, riallaccia la sua prima memoria al Conte Ruggiero il Normanno, che fece costruire nella vallata lo sbarramento pescoso ed i Bagni, ma fu antica Baronia della famiglia Gironda, e fu nel 1494 aggregato al Principato di Squillace. Nel 1619 passò alla famiglia Fossella e successivamente ai Ravaschieri, dai quali nel 1634 venne venduto ai Caracciolo di Girifalco, dai quali nel 1640 passò ad altra linea della famiglia, che nel 1641 vi incardinava il titolo di Marchese, e nel 1645 quello di Duca. Rivendicato dai Caracciolo di Girifalco, rimase in loro possesso, quale Baronia, dal 1725 al 1806, anno in cui cessò la feudalità.

Per quanto attiene al Comune, dalle vecchie cronache apprendiamo che i francesi, in data 19 gennaio 1807 con la prima legge sull’Ordinamento amministrativo del Regno di Napoli, riconoscevano S. Vito come un Luogo appartenente al cosiddetto Governo di Gasperina e con il riordino disposto con decreto 4 maggio 1811, istitutivo dei Comuni e dei Circondari, veniva S. Vito considerato uno dei primi Comuni e passato nella giurisdizione di Chiaravalle Centrale, nel cui mandamento sin da allora è rimasto.

Il  suo stemma è cosi descritto nelle carte araldiche:

« Non avendo avuto San Vito sullo Jonio una storia propria sulla quale basare la blasonatura illustrativa, questa trae origine dalle caratteristiche topografiche e agricole del luogo.

Nel verde del campo, simboleggiamo la grande fertilità di quella terra, nelle spighe di grano i larghi prodotti cerealicoli, nella fascia di azzurro ricordiamo il mare Jonio che completa la denominazione del Comune.

Per quanto premesso blasoniamo:

di verde, a tre spighe di grano fruttate e fogliate di oro, po­ste in palo, alla fascia di azzurro traversante.

Segni esterni di Comune.

Gonfalone; partito, di azzurro e di giallo, caricato dell’arma sopra descritta ».

Sono interessanti alcuni dati statistici sulla popolazione:

 nel 1276 aveva 274 abitanti;

nel 1500 vi erano 55 fuochi, nel 1545 fuochi 120, nel 1561 fuochi 111;

     alla fine del Settecento vi erano 2.050 abitanti, che aumentarono a:

—        2.496   nel        1815;

—        2.520   nel        1825;

—        2.707   nel        1849;

—        3.000   nel        1861;

—        3.032   nel        1871;

—        2.886   nel        1881;

—        2.941   nel        1901;

—        3.484   nel        1911;

—        3.550   nel        1921;

—        3.725   nel        1931;

—        3.798   nel        1936;

—        4.289   nel        1951.

 

Si ebbe nel 1951 la massima cifra, poi si tornò alla quota 3.000, a causa della riapertura dell’emigrazione in America e dell’esodo dei Sanvitesi verso il Nord. Fenomeno particolarmente sentito nel nostro paese, che non ebbe uno sviluppo industriale e che rimase un paese di preminente carattere agricolo.

« Negli anni compresi tra il 1861 e il 1887 risultavano espatriati ben 228 individui, anche se, contrariamente a quanto avviene oggi, ciò non ostacolava, grazie ad un più elevato indice di natalità, il progressivo accrescersi della popolazione che, sempre nel 1887, ammontava a 3015 abitanti

Ed è questo esodo continuo in Italia ed all’estero che, purtroppo ha sempre tenuto la popolazione del nostro paese ad un livello costante medio di 3.000 abitanti.

Una indagine socio-economica del nostro paese, consultando i numerosi registri delle delibere sia del Consiglio che della Giunta, ancora esistenti, ci fa sapere che il nostro paese ebbe un’economia a base agricola. Produzioni importanti furono le olive, l’uva, la frutta, le castagne, gli ortaggi, il lino e la seta. Rinomati l’olio, il vino ed i lini e le sete prodotti in piccole, ma fiorenti <industrie » familiari.

Oggi, purtroppo sono rimasti i vecchi frantoi, strutture in via di continuo deperimento o abbandono, ormai sostituiti dalle nuove strutture moderne e più veloci. Intorno agli anni 50 sono stati tagliati i « gelseti », quando la presenza sempre più vasta delle fibre tessili artificiali, rese pressoché inutile ed antieconomica la loro cultura e quella del baco da seta.

« Più estesa la lavorazione del lino che, per il suo diverso periodo di piantagione e raccolta, veniva distinto in mascolino (ottobre-prima decade di giugno) e femminino (marzo-fine giugno), quest’ultimo di qualità migliore.

La sua lavorazione, infatti, era praticata in massa, come testimoniano i numerosissimi telai a mano, suppellettile principale e comune a ciascuna casa, con cui era possibile ottenere non solo tela liscia e compatta, ma anche variamente ordita e colorata, che assumeva denominazione diversa in relazione alla diversità dei disegni. Veniva cosi detta a  ‘n arcu e ‘n occhiu  (un arco e un occhio); du archi e n’occhiu;  u panaredu  (il panierino);  u ‘noammaredatu  (quadri quadri) e infine ariustidatu  (stellato).

«Sono ancora oggi rinomati in tutto il circondano i lini sanvitesi, ma è sempre più difficile procurarsene ». un mondo antico che sta per essere sommerso dal progresso, e che era tanto bello ed umano, che aveva le misure dell’uomo e dava alla nostra gente la soddisfazione di essere la continuatrice della creazione del mondo.

 

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