La testimonianza di Alex
Avevo poco più di diciassette anni quando a Palermo è scoppiata la bomba che ha ucciso Paolo Borsellino. Di lui non sapevo niente. Non conoscevo nemmeno il viso, il sorriso. A scuola nessuno, dico nessuno, ci aveva parlato di quello che stava accadendo in Sicilia, della mafia. In casa mia, in una famiglia d’operai, non era mai arrivato un quotidiano e tutto ciò che conoscevo lo avevo appreso dalla mia conoscenza, dalla mia insaziabile curiosità. Ma mai come quel 19 luglio mi accorsi che stava cambiando qualcosa. Quelle raccapriccianti immagini di Via D’Amelio, quella scritta in sovraesposizione che scorreva sullo schermo della TV informando, con la freddezza di uno scoop giornalistico, della morte d’uomo che aveva donato la sua vita, il suono delle sirene arrivato nelle nostre case ad annunciare un’altra strage, non mi lasciò indifferente.
Davanti alla televisione, in un campeggio sul lago di Garda dov’ero andato con la famiglia di un amico per trascorrere le vacanze, non riuscii a rimanere muto. Pensavo: “Ma com’è possibile. Ma io cosa posso fare?”
Da allora, nel segreto della mia coscienza, è rimasto quel 19 luglio 1992, le tristi immagini del funerale, di quella bara trasportata tra la folla davanti al tribunale di Palermo. E’ rimasta dentro di me la voglia di dire qualcosa. Era necessario assumersi delle responsabilità, credere che un giorno anch’io sarei riuscito a fare qualcosa per quegli uomini straziati da altri uomini: dall’impegno a scuola, nel sociale, dai viaggi in Africa alla scelta politica.
Preferii non appartenere, in contrasto all’ideologia della mia famiglia e del paese in cui ero cresciuto, allo spirito conservatore. Sentivo il bisogno di ribellarmi, di dare una lezione a quella gente che aveva ucciso, a quelli che avevano derubato i valori che stanno alla base della democrazia. Votai Lega Lombarda. Mi candidai alle elezioni amministrative e fui eletto. Anni di lotta contro lo stato centrista, contro il sud, che allora pensavo, “parassita”.
Poi nel 1996, la conversione sulla via di Palermo.
Una vacanza di quindici giorni in Sicilia. Destinazione: Monreale. Un posto sconosciuto, un nome fra tanti sulla cartina geografica. Sul treno incontrai una ragazza, emigrata con la famiglia al nord per problemi di lavoro, che mi disse, vedendomi spaesato e perplesso: “Vedrai, ritornerai”. Stentavo a crederci. Un leghista in Sicilia? Aveva ragione. Passarono poco più d’otto settimane e mi ritrovai a vivere per sei mesi sulle strade di un antico quartiere di Monreale, con i ragazzini analfabeti e lo schietto sorriso della gente, tra lo splendore e lo squallore di una città consumata dal tempo e dalla storia, dalla mafia. Addio alla Lega e ad ogni federalismo. Sei mesi iniziati con il sapore di un’avventura che sarebbe diventata parte della mia vita, che avrebbe trasformato la mia storia. Ogni giorno per le case, strette e anguste, di quella povera gente, dove manca lo spazio fisico e psicologico per starci, per dialogare, per svolgere i compiti. Settimane trascorse ad insegnare le vocali a Massimiliano (12 anni) o la grammatica a Maria, a parlare seduto in crocchio con i ragazzini, ad ascoltare i drammi di donne consumate da una fuitina avvenuta troppo presto per la loro età. Ho scoperto la vera Sicilia (non quella delle fiction), quella nascosta dietro la bellezza d’una Cattedrale, quella Palermo dei brulicanti vicoli: la terra per cui Paolo e Giovanni Falcone avevano dedicato la vita fino alla fine.
Lì ho capito cos’era la mafia: nelle viuzze del
mio quartiere, negli atteggiamenti violenti dei bambini, nel maschilismo, nella
violenza, nel paternalismo dei loro padri, nella povertà di quelle famiglie
dimenticate dalle istituzioni, nella inconsapevolezza di vivere in un clima
mafioso. Capii che la mafia altro non è che un atteggiamento.
Nessuno è nato mafioso. Si diventa, mafiosi. E lo
potrebbero diventare anche Massimiliano, Claudio, Alessio e tanti altri bambini
del mio quartiere lasciati crescere nell’indifferenza, con l’abitudine di
nascondere la verità, di dire e non dire, di regolare i conti con le mani, con
la cultura d’ arrangiarsi.
Ma cosa potevo fare io? Mi chiesi più volte come
avrebbe potuto cambiare la Sicilia. Per caso in quei giorni mi ritrovai in mano
un libro su Paolo Borsellino e lessi una sua frase: “…amo Palermo , perché
non mi piace”. Rimasi in silenzio per alcuni minuti. Poi, guardando fuori
dalla finestra, scorsi due bambini giocare sulla strada prendendo a calci una
lattina, guardai oltre…… la croce della chiesetta dei francescani, il cielo
azzurro, il sole e capii il significato di quella frase. Da quel momento scelsi
anch’io d’amare quella terra, la Sicilia. D’amare Palermo troppo poco
amata dalla sua gente. Di dedicare fin che sarei stato in quel posto la mia vita
per ciò che si poteva cambiare, d’amare per vedere un nuovo volto, per dare
speranza ai picciriddi d’un quartiere sconosciuto agli occhi della gente e
forse anche di Dio. Mi ritrovai coinvolto in una storia che pensavo non mi
appartenesse. Mi sentii parte di quella gente che dal 1992 aveva scelto di
passare dalla rabbia alla proposta, che aveva deciso fosse venuta l’ora
d’alzare la testa, di camminare con la magistratura per mascherare la mafia.
Imparai a conoscere Paolo Borsellino dalle parole
vive della sorella Rita: fin dal primo incontro sentii dentro di me
un’intensità e un’emozione unica. Capimmo, credo entrambi, che ci saremmo
rivisti.
Tornato a Crema, dove sono nato, non potevo stare a
guardare. Convinto che fosse necessario cominciare a parlare di mafia nelle
scuole, ai ragazzi, alla gente, rendersi conto che Cosa Nostra non ha confini,
proposi nella mia ex scuola, l’istituto magistrale Albergoni, un percorso
d’educazione alla legalità. Da tre anni stiamo parlando di lotta alla mafia.
La foto di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone appesa nel corridoio
dell’istituto ricorda agli studenti il sacrificio per la giustizia. Un cammino
intrapreso grazie alla sincera amicizia di Rita Borsellino, di nonno Nino
Caponnetto, di Gherardo Colombo e di Gian Carlo Caselli diventati per noi, più
semplicemente, Rita, Nino, Gherardo e Gian Carlo. Autentici testimoni di pace
che hanno scelto nonostante gli impegni di lavoro, la salute, la stanchezza , la
vecchiaia, di essere tra i giovani, di credere a loro, di continuare a portare
nelle scuole il messaggio di Paolo e Giovanni: “Bisogna andare avanti
nonostante tutto”.
E’ ancora vivo in me il ricordo del primo incontro
alle magistrali, le parole di nonno Nino, le lacrime dei ragazzi, il rispettoso
silenzio di quei cinquecento assiepati in un corridoio trasformato in aula
magna: “E’ sempre un meraviglioso spettacolo – disse Caponnetto - vedere
tanti giovani assieme, vederli sorridenti, pieni di vita, pieni di voglia di
vivere, è un quadro tanto diverso da quello che ci dipingono i giornali” E
ricordando le parole d’Antonino Bello: “Appassionatevi alla vita perché è
dolcissima. Mordete la vita”.
Captai al volo quelle parole. Cercai di mordere la
vita. Il volto di quei ragazzi, la loro voglia di continuare a parlare di Paolo
e Giovanni mi portò a proseguire, nonostante le difficoltà. Ogni volta dovevo
andare controcorrente: contro l’invidia di coloro che non credevano che un
giovane poco più che ventenne potesse essere amico del fondatore del pool
antimafia, dei giudici di Tangentopoli, della sorella di Paolo Borsellino;
contro l’indifferenza delle istituzioni, contro le forze politiche che non
condividono la voglia di legalità. “Bisogna andare avanti nonostante
tutto”, ripetevo dentro di me. E ce l’abbiamo fatta.
Da qualche mese un luogo della città, la piazza
antistante la scuola, priva di nome e d’identità, è stata intitolata per
volere degli studenti a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si è realizzato un
sogno che portavo nel cuore dall’età di diciassettenne anni.
Erano i giorni della sentenza al processo Andreotti.
Nonno Nino leggendo un’intervista fatta dalla Stampa al Pubblico Ministero
Antonio Ingroia disse ai ragazzi “Bisogna battere un colpo. Battere un
colpo”. Non potevamo stare a guardare. I 500 giovani dell’Albergoni si
domandarono: “Cosa possiamo fare?”.
Presa carta e penna scrivemmo un appello (pubblicato
sulle pagine de “La Repubblica” il 2 novembre scorso), sottoscritto da
Caponnetto, da Rita Borsellino e dal coordinamento dell’associazione Libera,
presieduta da don Luigi Ciotti: “Vogliamo battere un colpo…vogliamo alzare
la testa e dire basta alle polemiche, per esprimere il nostro grazie a chi si è
impegnato in prima persona fino al sacrificio, a chi ha saputo vedere le tante
cose che non vanno nel nostro Paese, invece di chiudersi nel proprio egoismo e
nella propria indifferenza”.
Nel giro di pochi giorni risposero più di 1400
persone. Una valanga di fax per i magistrati. Il Paese intero batté un colpo a
favore della Procura di Palermo: famiglie, operai, 20 detenuti del carcere di
Campobasso, studenti, emigrati scrissero a Libera per testimoniare che la mafia
esiste ma anche l’Italia.
“Non ci sono solo quelli dei colpi di spugna,
quelli furbi, quelli dei veleni. Ci siete anche voi, con l’autorevolezza –
scriveva in un fax Valentina Bellini -
degli anni dedicati all’amore verso lo stato, con la rabbia che viene dal
dubitare che chi è morto sia morto invano. Per fortuna vi (ci) danno una
piccola colonna di un giornale. Ci siamo anche noi, che ringraziamo gli uomini
grandi, come Giancarlo Caselli, per aver fatto quello che tutti noi facciamo nei
più remoti angoli d’Italia: il nostro dovere” E Antonio e Gianni,
lavoratori Enel scrivevano agli allievi delle magistrali: “Siamo felici che
giovani come voi sentano questo problema: No! Agli attacchi continui alla
magistratura. No! Ai colpi di spugna per tangentopoli. Sì! Alla giustizia
uguale per tutti”.
Poi gli incontri di Firenze, di Palermo organizzati
per continuare a battere un colpo, per non abbassare la guardia.
Con la carovana antimafia dell’Arci ho percorso le
strade della legalità, incontrato centinaia di giovani con la stessa mia voglia
di mettersi in viaggio, di guardare oltre l’indifferenza. Un percorso senza
sosta, appassionante e pericoloso. Sortino, Monteresso Almo, Vittoria, Ispica,
Rosolini, Scordia, Acireale. Non potrò mai dimenticare quei lenzuoli bianchi,
appesi per chilometri e chilometri alle finestre delle case di Solarino;
così come non scorderò gli occhi
dei ragazzi del liceo Archimede ad Acireale, la loro incoraggiante voglia a
mettersi in gioco, di trovare in me le risposte a tante domande sulla vita:
“Volevo ringraziarti per avermi aiutato indirettamente a superare un momento
un po’ difficile... Mi stavo buttando giù, non avevo alcuna voglia di reagire
a tutto ciò che mi opprimeva, mi intaccava e, soprattutto, intaccava il mio io!
...Ma
adesso tutto è cambiato, mi sento raggiante... Ho dentro me la forza di
spaccare il mondo, di affrontare tutti...” mi scriveva via mail all’indomani
dell’incontro una ragazza.
Il messaggio di Paolo e Giovanni è entrato a far
parte della mia vita. Ho imparato ad apprezzare Borsellino, a conoscere la sua
vita di bambino, d’universitario, di uomo prima che di magistrato leggendola
negli occhi della sorella Rita, dei nipoti Claudio, Marta e Cecilia, nel
toccante racconto di nonno Nino. E sento la responsabilità di questi
straordinari incontri. Sento la necessità di comunicare con la mia vita ciò
che mi è stato donato, senza alcun merito, da Paolo e Giovanni, da Rita, da
nonno Nino-
“Alex, è uno dei ragazzi di Paolo”, diceva il 25
ottobre 2000 a Crema Rita di fronte a un pubblico di oltre trecento persone. Ho
sentito un nodo alla gola alla pronuncia di quella frase….tanto bella ma tanto
impegnativa.
Oggi la Sicilia, Palermo sono la mia casa. Mi sento
incredibilmente adottato. Quella terra tanto disgraziata quanto unica e
straordinaria, il sole, il sorriso della gente, la chiassosa gioia dei
quartieri, le voci dei bambini, le grida dei mercanti per le viuzze, i suoi
dialetti, il mare, la disperazione così come l’incredibile volontà di
vivere, di combattere, d’alzare la testa non si scordano. Così come non si
scorda il sorriso di Paolo e Giovanni. Nei momenti più difficili, quando tutto
sembra essere finito, quando la solitudine prende il sopravvento è Paolo a
ricordarmi che “Si può morire per ciò in cui si crede”. E’ il suo
sorriso a darmi, simbolicamente, una pacca sulla spalla.
Quella loro fotografia, diventata simbolo del
rinascimento palermitano, è appesa in casa mia, è nella mia agenda, sul tavolo
della scrivania in ufficio quasi a ricordarmi, sempre, la gioia d’andare
avanti nonostante tutto. E accanto una poesia: “Sorridi, mi dico. Sorridi e
dimentica i colpi bassi, l'indifferenza che si cela dietro l'apparente e
ipocrita interesse. Sorridi col cuore e col viso, sorridi anche quando una morsa
stringe il tuo stomaco e la mancanza di qualcosa o qualcuno annebbia i tuoi
pensieri. Sorridi di fronte all'arroganza che ti colpisce e per l'arroganza che
colpisce l'indifeso. Indignati, mi dico. Indignati di fronte all'omologazione
del pensiero e alla superficialità. Indignati e non celare mai la tua
indignazione. Indignati e combatti con i fatti e con le parole.
Scrivi, scrivi, scrivi, mi dico. Scrivi per rabbia e per amore. Scrivi quando la morsa allo stomaco diventa insopportabile. Scrivi ed ama. Ama, mi dico. Ama di profondo lo sguardo indifeso, dello sfruttato. Ama la verità. Ama senza indugio e il tuo sorriso sarà finalmente sereno."