La testimonianza di Giulia
Penso che ci
siano periodi, nella storia, in cui gli uomini sono grandi, e altri in cui gli
uomini sono piccoli, nel bene e nel male. A me è capitato di affacciarmi alla
vita e prendere coscienza del mondo che mi circondava, in un momento in cui essi
erano grandissimi: nell'estate del '92 si scontrarono la più spietata barbarie
e la assoluta coerenza e fedeltà al proprio dovere. Appresi, bambina ancora,
che gli uomini potevano ammazzare altri uomini, in un modo così brutale come in
nessuna favola avevo mai letto. Le stragi di Capaci e di via D'Amelio, erano
squarci, esplosioni, era sangue vero, morti che fino ad un attimo prima erano
vivi, immaginavo la loro corsa interrotta, il loro ultimo respiro. Mi
interrogavo sulle cause di quell'orrore, svegliata dal boato, confusa dal fumo
come milioni di italiani. Scrissi a Rita come solo una bambina può fare, così.
Sentivo la mancanza di un uomo che non conoscevo, mi rivolgevo alla sorella,
pensando a quel rapporto specialissimo che c'è tra fratelli. Rita mi rispose
come solo una persona grandissima può fare, accogliendomi.
Ne è nata non
solo una amicizia, ma un mondo intero. Mi ponevo domande, cercavo Paolo
Borsellino. Mi aspettavo un eroe e lei mi insegnò innanzitutto un uomo.
Difficile
parlare con ordine di simili sentimenti, di così forti esperienze. Scoprii, tra
l'altro, di non essere stata l'unica ad aver provato una sensazione di vuoto
tale da portarmi a comunicare sgomenta con chi a quella tragedia aveva preso
parte, vittima: da ogni parte d'Italia, da Pordenone a Comiso, altri ragazzi si
misero in cammino verso Palermo, a diventare, all'ombra dello "zio
Paolo", famiglia che dal suo esempio traeva sostanza di vita e materia da
applicare al proprio vissuto. Ci siamo incontrati praticamente ogni anno, il 19
luglio a Palermo. Quel giorno è diventato una festa. Può suonare irriverente,
che l'anniversario di un fatto di sangue diventi festa, celebrata tra l'altro
proprio a via D'Amelio, nel teatro della strage. Può sembrare fuori luogo che
ci si ritrovi attorno a un tavolo a fare chiasso come bambini indisciplinati.
Credo non sia irriverente tanta gioia: è piuttosto il segno della vittoria su
chi voleva che lo zio Paolo tacesse, immobile. E', la nostra, anche la sua voce,
diventata ora ancor più giovane di prima. E il ricordo diventa entusiasmo e
impegno quotidiano, teso ad agire in modo pulito, coerente, naturalmente
"ognuno nel suo piccolo, ognuno per quello che sa, per quello che può",
come diceva lui. Della violenza che ha tentato di fermarlo, nessuna traccia.
Della paura neanche, e il messaggio di un uomo è diventato di tutti coloro che
volevano stare dalla parte sua.
A via D'Amelio,
davanti al cancelletto d'ingresso, Rita ha fatto piantare un ulivo fatto venire
da Betlemme, ricordo del martirio, presidio di speranza, figura di pace.
Conservo molte foglie di quell'albero: quando da Palermo devo tornare a casa, a
Napoli, ne stacco una e la porto con me, tentando di alleviare così la
sofferenza che provo ad allontanarmi da quegli amici e quei luoghi.
Tutti loro,
luoghi e amici, mi hanno insegnato a sentire lo zio Paolo accanto a me, presenza
benefica, angelo custode, pronto a spronarmi, a incoraggiarmi ad affrontare i
piccoli intoppi che mi si parano davanti.
Io
sono cresciuta così, così si è formata la mia coscienza. Penso che il
sacrificio di Paolo Borsellino, degli uomini della scorta, e di tutti coloro ai
quali è toccata la medesima sorte, sia un atto d’amore vero, verso lo Stato
che servivano e che volevano migliore, e verso i suoi cittadini. Davanti a
questo, io sento fortissimo e immutato da allora il dovere di rimboccarmi le
maniche per operare con lo stesso spirito e sperare con coraggio in un futuro
dove il nostro paese, beato, non avra’ piu’ bisogno di eroi.
Giulia
Dell’Acqua