La testimonianza di Marco
Di
ritorno da un campo scout, il foulard ancora al collo. Dietro al bancone del bar
di mio nonno, dove c’eravamo fermati per bere qualcosa di fresco. Il monitor
della tv immobile sulla pagina del Televideo. “Assassinati il giudice Paolo
Borsellino e gli uomini della sua scorta”. Ricordo di aver deglutito. In un
istante di silenzio.
A
questo punto, occorre pensare ad un incrocio di strade. Non importa il numero,
io amo pensare siano cinque, ma potrebbero anche essere sette, o tre. La
metafora della vita come pellegrinaggio è antica quasi come l’arte di
raccontare, e ricca di varianti. Ciò che conta è che lungo il loro cammino, le
storie di una comunità e di una persona hanno talvolta la grazia e il compito
di un incrocio. Un incrocio piantato nel bel mezzo della propria biografia. Una
via la puoi evitare, una piazza la puoi circoscrivere, ma un incrocio, come fai?
Non puoi non scegliere. Lo devi attraversare. La morte di Paolo Borsellino è
stato anche questo.
Per
noi di Ostiglia, gli incroci sono pane quotidiano. Ci siamo abituati. La Pianura
Padana è grande e piatta. Banalmente piatta. L’assenza di montagne da scalare
e limiti da valicare, può irretire alla pigrizia, oppure può insegnare la
libertà. Le strade marciano in ogni direzione e non è difficile che si
incrocino. E’ importante la direzione.
Arroccato
sul suo antico fiume, il paese si lascia scorrere sui suoi sopiti impeti di
orgoglio contadino e sulle sue piacevoli povertà di provincia. Campagna: tanta.
Case: abbastanza per chi non sa, teneramente poche per chi ha visto altro.
Intorno, un mondo in cui fra te e l’orizzonte, se va bene, sta un gruppo di
pioppi, qualche pilone della luce e i campanili delle chiese. Argine del fiume a
parte, è ovvio. In questa abbondanza di spazio, Ostiglia poteva diventare una
città. Non lo ha fatto. Ha preferito restare un incrocio. Un punto
d’incontro, di passaggio.
Per
Ostiglia, passano tre strade statali, una ferrovia, il grande fiume e numerosi
canali navigabili. Per Ostiglia, durante la mia adolescenza sono passati frati
francesi vestiti di bianco, piccoli preti amanti della montagna, studiosi
svizzeri capaci di parlare ai cuori, uomini politici grandi e piccoli,
accomunati dalle dimensioni dei loro sogni, giornalisti arrabbiati e
intelligenti, giovani italiani e stranieri, venuti per pregare una sera la pace
nel mondo. Nessuno è rimasto. Molti di loro, ogni tanto, tornano. Di passaggio.
Amano raccontare, sorridere, ricordare e progettare.
Ogni
tanto, qualcuno di Ostiglia se ne va. Penso a Lele, a Claudio, a Nicola e
Martina, a me. A Verona, a Ravenna, a Belluno, a Bruxelles, a Roma. Ogni tanto,
torniamo. Di passaggio. Portando sempre qualche nuovo amico.
Da
Ostiglia, otto anni fa, qualcuno è partito per la Sicilia. Forse la
testardaggine di alcuni adulti, forse la gioventù di una dozzina di ragazzi.
Sicuramente, fu una grazia, partire per il campo di lavoro a Palermo, da don
Paolo Turturro, a metà fra il genio e lo scriteriato, sicuramente profeta. Al
ritorno, una nuova strada era aperta, fra Ostiglia e Palermo. L’incrocio era
stato rimodernato, ingrandito, rifondato. Raccoglierà strutture precedenti e si
darà un nuovo nome e un nuovo compito: Namaste. Ma questa è una storia che
altri racconteranno.
Io
sono uno di quelli che hanno approfittato di quella strada e dei suoi incroci. E
come non si parte, nemmeno si torna, a mani vuote.
Un
giorno scriverò un romanzo. Quello, forse, so fare. Quando i ragazzi a cui
insegno, avranno segnato dentro di me una parte necessaria di vita. Quando la
consuetudine con la teologia e con il pensiero avranno costruito un sufficiente
equilibrio di fierezza e umiltà. Quando le croci e gli incroci della vita
avranno tracciato solchi sufficientemente profondi. Allora, scriverò una vera
storia inventata. Sarà un romanzo che parlerà di numeri. Al numero cinque,
racconterò di Paolo.
Delle
5 di quel pomeriggio. Di quei cinque che gli erano accanto nel momento in cui la
bomba esplose. Dei cinque secondi di silenzio che accolsero l’intervento di
Rita la prima volta che la udii parlare. Cinque persone – quattro uomini e una
donna – non sono molti, ma sono quei cinque nomi. Occorre specificare che sono
cinque storie, frutto di chissà quanti incroci. Finite. Cinque secondi di
silenzio non sono molti. Occorre specificare che fu un intero paese a fermarsi,
per ascoltare. Un piccolo paese di siciliani. A mille chilometri da Ostiglia. E
non ad un semplice incrocio, ma nel mezzo di una piazza. Di colpo, senza nessun
altro motivo che quel nome. Donne e bambini vocianti, uomini in chiacchiera e
vecchi borbottanti. In silenzio. Ad ascoltare una donna che parlava della morte
del proprio fratello.
Morte
ingiusta. Morte violenta. Morte assurda. Morte prevedibile. Morte inutile, perché
capace di dare nuova vita. Ad una città. Ad una regione. Ad una nazione. Ad una
generazione. Ad una storia.
Cinque
non è un numero grande, ma è uno di quelli che fissa il ritmo e scandisce la
forma delle stelle. Cinque sono almeno gli altri capitoli che potrei scrivere,
da quel che è nato da quei giorni. Ma non è ancora ora. Occorre ricordare e
progettare e sostenere chi ha il coraggio e il talento di fare. Anche oggi, come
ieri, in vista di domani, ognuno per quel che sa, ognuno per ciò che può.
Marco
Ronconi
Insegnante
di Religione Cattolica
Ostiglia-Roma.