Sicilia madre e matrigna

Scrittori siciliani degli ultimi due secoli

  

(di Maria Emanuel)

La letteratura siciliana è stata a lungo considerata una letteratura “regionalistica”, perché ha avuto quasi sempre come oggetto la Sicilia, e a questo termine è stato dato spesso un carattere fortemente limitativo del suo valore. Ma, dal mondo apparentemente chiuso della loro isola, gli scrittori siciliani hanno saputo scavare nel profondo della natura umana, che è universale, e nelle problematiche di una storia difficile e complessa, che non è solo storia della Sicilia: mi sembra che le loro opere, almeno le più riuscite, siano più vicine alla nostra sensibilità e al nostro gusto, ad esempio, di quelle di uno scrittore europeo come D’Annunzio. A parte che un Pirandello –già lo diceva Gramsci- è siciliano, italiano, europeo.

Gli scrittori siciliani si inseriscono a buon diritto nella grande storia della letteratura italiana, continuando la gloriosa tradizione del romanzo manzoniano. Non si rivolgono più, come Manzoni, al passato, ma ad un periodo storico contemporaneo o appena precedente; oggetto della loro analisi è il complesso delle classi che compongono la società siciliana in lenta trasformazione: le plebi in miseria (Verga), la nobiltà feudale decadente, ma anche trasformista (Capuana, De Roberto, Tomasi di Lampedusa), la borghesia, nuova protagonista sulla scena, con tutti i problemi esistenziali dell’individuo che si trova a vivere in un periodo storico afflitto da mutamenti e da guerre ben più pesanti e destabilizzanti di quelle affrontate per l’unità d’Italia (Pirandello, Vittorini, Brancati, Sciascia, ecc.).

La lettura della società siciliana che io cercherò di fare qui è quella attraverso i suoi scrittori (dovrò citare molto), non la mia personale: conosco troppo poco in profondità la Sicilia, e non ne sarei un’interprete autorevole, anche se ne sono sempre stata intellettualmente ed emotivamente attratta.

Per me, cresciuta in un paese di nebbie, negli anni dell’adolescenza la Sicilia è stata una terra favolosa, la terra del sole, degli aranci e dei limoni; il suo nome evocava la Magna Grecia, Federico II e la scuola siciliana, i pirati barbareschi, Garibaldi e l’impresa dei Mille, lo sbarco degli alleati e l’attesa della liberazione…L’ho visitata quand’ero ormai adulta, ma da turista purtroppo, con poco tempo a disposizione per “viverla” veramente.

L’ho visitata idealmente attraverso i films che i più significativi registi italiani le hanno dedicato, da punti di vista diversi e in tempi diversi. Ne cito solo alcuni, un po’ alla rinfusa: Blasetti “1860”; Visconti “La terra trema” e “Il Gattopardo”; Zampa “Anni difficili”; Germi “Il cammino della speranza”, “In nome della legge”, “Divorzio all’italiana”; Rosi “Salvatore Giuliano”; Rossellini “Stromboli”; Bolognini “Il bell’Antonio”; Petri “A ciascuno il suo”; Antonioni “L’avventura”; Tornatore “Nuovo cinema Paradiso”, “L’uomo delle stelle”. E l’elenco è certamente incompleto. Più d’uno dei films che ho citato è tratto da un testo letterario: la letteratura siciliana degli ultimi due secoli è veramente una preziosa miniera, a cui anche noi attingeremo per conoscere questa terra antica, ricca di memorie e di contrasti, di luce abbagliante e di ombre profonde, di passione e di ironia.

Ecco come ce la presenta lo scrittore Vincenzo Consolo: “…quest’isola in mezzo al Mediterraneo è quanto di fisicamente più vario possa in sé raccogliere una piccola terra. Un vasto campionario di terreni, argille, lave, tufi, rocce, gessi, minerali… E montagne, vulcani, altipiani carsici, conche, colline, cave, pianure, depressioni. E quindi varietà di culture, boschi, giardini, uliveti, vigne, seminativi, pascoli, sabbie, distese desertiche. In questa terra sembra che la natura abbia subito un arresto nella sua evoluzione, si sia come cristallizzata nel passaggio dal caos primordiale all’amalgama, all’uniformazione, alla serena ricomposizione. Sì, crediamo che tutta la Sicilia sia rimasta per sempre quel caos fisico come quella campagna di Girgenti in cui vide la luce Pirandello.

“Io dunque sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché sono nato in una nostra campagna, che trovasi presso un intricato bosco denominato, in forma dialettale, “Cávusu” dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo Káos…”.

“E, come Pirandello, ogni siciliano credo possa dire “son figlio del Caos”. E’ il “caos” prima della formazione del “cosmos”, la materia informe, la “mescolanza di cose frammista” di cui parla Empedocle (anch’egli nato nel “caos” di Agrigento). La storia siciliana ha come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà sono passate per l’isola senza mai trovare un loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni, qua e là, diversi, distinti dagli altri e in conflitto: da qui, forse, tutto il malessere, tutta l’infelicità storica della Sicilia, il modo difficile di essere uomo in quest’isola, e lo smarrimento del siciliano, e il suo sforzo continuo della ricerca di identità”, scrive Leonardo Sciascia.

Già Cicerone, stabilendo che la retorica era nata in Sicilia, aveva definito i siciliani “gente di ingegno acuto e sospettoso, nata per le controversie”. E nel Cinquecento il toscano Giovanni Maria Cecchi dava questo “ritratto” dei siciliani: “…Vivono in sì gran gelosia delle loro donne, che le tengono molto ristrette, e fanno acerbissime vendette sopra a chi hanno in sospezione. Peccano forte in avarizia, che con vergogna e incomodo loro fanno le spese per il vivere e vestire e ornamento di casa; sono ancora altieri, e dove non è differenza grande di titolo, non si cedono l’uno all’altro; ardenti amici e pessimi inimici…di intelletto secco (acuto) atti ad apprendere con facilità varie cose…”. A questo ritratto corrisponde quello che fa il messinese Scipio di Castro, negli stressi anni, negli “Avvertimenti a Marco Colonna quando andò viceré in Sicilia”: “I siciliani…sono sottili critici delle azioni dei governanti, credono sia facile realizzare tutto quello che dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. Sono affezionati ai forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, perché sono molto attaccati ai propri interessi…, ma d’incredibile temerità quando maneggiano la cosa pubblica… La Sicilia è stata fatale a tutti i suoi governanti; e la maggior parte di essi ha lasciato sepolta in quel Regno la reputazione.”

“L’insicurezza –dice Sciascia- è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della vita: paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo”. Parlando di Verga, Pirandello dirà: ”I siciliani, quasi tutti, hanno un’istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati… Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno aperta, chiara di sole, e vieppiù si chiudono in sé, perché di questo aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola da sé, e da sé si gode, -ma appena, se l’ha- la sua poca gioia; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato. Ma ci sono quelli che evadono…”

Non del mare che li isola i siciliani diffidano, ma piuttosto di quel mare che ha portato alle loro spiagge i cavalieri berberi e normanni, gli esosi baroni di Carlo d’Angiò, gli avventurieri che venivano dalla “avara povertà di Catalogna”, l’armata di Carlo V e di Luigi XIV, gli austriaci, i garibaldini, i piemontesi, le truppe di Patton e di Montgomery; e per secoli, continuo flagello, i pirati algerini.

La paura “storica” è diventata dunque paura “esistenziale” e si manifesta con una tendenza all’isolamento, alla separazione, degli individui e dell’intera regione. A un certo punto l’insicurezza, la paura, si rovesciano nell’illusione che questa loro insularità costituisca privilegio e forza là dove, in effetti, è condizione di vulnerabilità e debolezza; e ne sorge una specie di alienazione, che produce atteggiamenti di presunzione, di fierezza, di arroganza. (Si pensi al discorso che don Fabrizio, nel “Gattopardo” fa al piemontese Chevalley: “…i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti…”.

Il rapporto del siciliano con la sua terra mi pare assomigli, in qualche modo al suo rapporto, sempre importante e difficile, con la donna. La donna, questa sconosciuta, “mistero senza fine bello”. Donna sognata, idealizzata, mai raggiunta, la donna dei poeti della scuola siciliana…; donna sposa, donna amante, donna madre: nell’immaginario del siciliano queste figure appaiono quasi sempre disgiunte, addirittura in forte contrasto, come in una fantasia adolescenziale. Donne desiderate, ma in fondo temute: “Mari, focu e fimmini, Diu mi scanza!”.

Scrive Brancati: “Questo avere i sogni, e la mente, e i discorsi, e il sangue stesso perpetuamente abitati dalla donna, porta che nessuno sa poi reggere alla presenza di lei”.

Si narra che Francesco Guglielmino, professore di letteratura greca e poeta dilettante, abbia detto una volta all’amico Verga: “Noi siciliani siamo romantici”. E Verga: “Ma che romantici, figlio mio: siamo ingravidabalconi”.

Verga, appunto, e il suo percorso letterario. La sua prima opera di largo successo (la sua opera più venduta in assoluto, almeno durante la vita dello scrittore, arrivata a ben ventidue edizioni) è “Storia di una capinera”, costruita sulla memoria di un suo casto incontro adolescente con una fanciulla finita in convento. La ragazza è una creatura ingenua e appassionata, che non sa o non può ribellarsi al suo destino di essere chiusa in gabbia, fino alla follia e alla morte. Eroina romantica quant’altre mai, debole dal punto di vista artistico, ma prima espressione dell’onnipresente amore-rinuncia, che avrà ben maggiore autenticità umana e letteraria nelle figure femminili di alcune novelle, dei “Malavoglia”” e di “Mastro don Gesualdo”: Nedda, la Mena, Diodata, Bianca, Isabella.

Lontano dalla Sicilia donne seduttrici e  ingannatrici,”maliarde” tentatrici, donne di teatro; le protagoniste dei romanzi “alla moda”, scritti sotto l’influenza mal assimilata della Scapigliatura lombarda: “Eva”, “Eros”, “Tigre reale”: le une e le altre in un certo modo incomprensibili alla mente grezza del maschio, che invano vorrebbe possederle non solo nel corpo ma anche nell’anima. La descrizione dei sentimenti, delle passioni, è “sovraesposta”, più tardi saranno”suggeriti”. “Donne centro di un oscuro e maligno mistero, vittime di una misoginia sempre in bilico tra attrazione e orrore”, scrive Massimo Onofri.

La bellezza di questa vestale dell’amore deve essere fatta di fragilità; ma deve mostrarsi fortissima nel salvaguardare la purezza dell’anima e del corpo. Solo quando è madre le è concesso di mostrare le unghie, ma a vantaggio dei figli, questi concreti simboli del suo essere vissuta a servizio di quell’unico amore che è concesso alla sua vita.

 La madre allora: quella che difende dall’insicurezza,quella di cui non si può dubitare, la custode della casa, colei che si sacrifica, riversando sul figlio, specie sul figlio maschio, il suo amore geloso ed esclusivo (“Maruzza la Longa” di Verga, ma anche figure materne create da Pirandello, da De Roberto, da Brancati). Da quell’abbraccio che man mano si fa soffocante il figlio, fattosi adulto, si sottrae allontanandosi, ma porta sempre in sé una specie di rimorso, di inguaribile nostalgia. Serba la madre nella memoria, quando ne è lontano; e non l’abbandona un oscuro desiderio di tornare a lei, come in un luogo finalmente al sicuro dalle insidie e dalle intrusioni del mondo di fuori, quel mondo che lo sollecita ad uscire da se stesso, ad agire, rompendo il suo istintivo desiderio di isolamento e di quiete. Da questa quiete, da questa noia (Brancati, Patti) nasce il gallismo, fatua ricerca di affermazione di sé.

Così dalla Sicilia ci si può allontanare, come hanno fatto molti dei suoi artisti e letterati: da Antonello da Messina a Guttuso, da Verga a Capuana, De Roberto, Pirandello, Rosso di San Secondo, Brancati, Quasimodo, Vittorini, Sciascia, Patti, Consolo, per citare solo i più noti. Ci si può, ci si deve allontanare, ma sempre ci si sente esuli, e spesso si ritorna, come alle proprie origini, che ancora danno nutrimento e stimolo.

 Scrive Salvatore Quasimodo:

 

Lamento per il Sud

 

La luna rossa, il vento, il tuo colore

di donna del Nord, la distesa di neve…

Il mio cuore è ormai su queste praterie

in queste acque annuvolate dalle nebbie.

Ho dimenticato il mare, la grave

conchiglia soffiata dai pastori siciliani,

le cantilene dei carri lungo le strade

dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,

ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru

nell’aria dei verdi altipiani

per le terre e i fiumi della Lombardia.

Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.

Più nessuno mi porterà nel Sud.

                        Oh il Sud è stanco di trascinare morti

                        in riva alle paludi di malaria,

                        è stanco di solitudine, stanco di catene,

                        è stanco nella sua bocca

                        delle bestemmie di tutte le razze

                        che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi

                        che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

                        Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,

                        costringono i cavalli sotto coltri di stelle,

                        mangiano fiori d’acacia sotto le piste

                        nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.

                        Più nessuno mi porterà nel Sud.

            E questa sera carica d’inverno

            è ancora nostra, e qui ripeto a te

            il mio assurdo contrappunto

            di dolcezza e di furori,

            un lamento d’amore senza amore.

Da  “la vita non è sogno”  (1946 – 48)

 

Se la propria terra, come la madre, è rifugio e difesa, resta comunque nell’animo del siciliano un senso di incompiutezza, di sogno irrealizzato.

La figura del padre è tipica: patriarcale, di solito aliena dal manifestare i propri sentimenti, simbolo dell’autorità e della tradizione. Il suo profondo culto della famiglia lo induce a progettare accanitamente, persino usando il ricatto, il futuro dei figli, su cui proietta spesso sete di potere e di ambizioni deluse: quando vede i propri sforzi vanificati, gliene deriva un irrimediabile senso di frustrazione, che lo porta fino all’autodistruzione, nel morale e nel fisico. (“Mastro don Gesualdo”, “I Viceré”, “Il bell’Antonio”, ad esempio). L’uomo siciliano è un uomo duro, ma insieme psicologicamente fragile. Lo stesso amore per la donna è un sentimento ossessivo e geloso, mai appagato: anche nei momenti, rari, in cui la meta sembra raggiunta, porta in sé un oscuro presentimento del possibile tradimento, il tarlo della caducità di ogni cosa. Da qui un sottofondo di malinconia che pervade tutta la letteratura siciliana. La gelosia, che penetra e corrode ogni rapporto d’amore, presume una fondamentale insicurezza di sé, mascherata da orgoglioso potere virile. Anche nel culmine della passione, l’uomo non si concede mai completamente, quasi temesse di essere inghiottito da un gorgo senza fondo, inesplorabile. Importante per lui è il possesso “esclusivo” della donna, prova della sua virilità, ma soprattutto fondamento essenziale dell’”onore”; un fallimento in questo campo costituisce un’insopportabile ferita alla propria identità, e lo sbriciolarsi della propria immagine agli occhi degli altri, (Penso, tra tanti esempi, a “Il bell’Antonio”, ma anche  a “Il berretto a sonagli”…). Specchio dell’onore, proprio e familiare, è anche la verginità della figlia, della sorella: se questo tremendo tabù sociale viene infranto, non lo si può riparare che con la vendetta (“Cavalleria rusticana” ne è come il paradigma) o, in maniera meno sanguinosa ma sempre crudele, con un matrimonio comunque realizzato, in cui la donna come persona conta ben poco.

Conta invece “la dote”, e non soltanto per il suo valore venale, ma per quello simbolico: qualsiasi ragazza  senza la dote, senza il corredo, si sente nessuno, indegna di considerazione e di rispetto sia da parte dello sposo che della gente. Ci stiamo accostando a uno dei temi fondamentali dell’opera di Verga: la “roba”. Siamo di fronte a un’avidità di possesso che va al di là del fatto concreto: per padron ’Ntoni la casa del nespolo è la garanzia della continuità familiare, dello “stare all’onor del mondo”, dello scampare all’imprevedibilità del Caso; per Mastro don Gesualdo la roba è affermazione di sé, della propria tenacia, della propria astuzia, della propria capacità di sacrificio, e insieme rivincita sulla sorte che lo ha fatto nascere povero e sulla classe sociale che lo avrebbe voluto servo.

 Ma anche nella “roba” l’uomo è vulnerabile. Una Natura matrigna gli toglie, leopardianamente, ogni illusione, e rende impietosa anche la morte. Le pagine sulla morte di Padron ‘Ntoni e di don Gesualdo sono tra le più intense di Verga: morti in solitudine, con di fronte solo “un muro”. Come ha una sua grottesca disperazione la fine di Mazzarò: ”…quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava –Roba mia, vientene con me!-“

La “roba” acquista dunque una sua “sacralità”, è anzi, insieme all’”onore”, l’unica autentica religione.

Il filosofo Giovanni Gentile, siciliano, afferma che il materialismo è carattere peculiare della cultura siciliana; Gramsci ne fa giustamente il punto di partenza del mondo pirandelliano. Pirandello, ovvero la Sicilia raziocinante, dolorosamente scettica di fronte al travagliato dibattersi dell’uomo senza più certezze, che sente tutta la pena del “vedersi vivere” (e il volterriano Sciascia ne è il diretto erede).

Si può dunque dire con Sciascia che l’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana. La lotta per la vita dei “Vinti” e la decadenza e il trasformismo dei “Viceré” e dei “Gattopardi” hanno come sfondo la storia della Sicilia risorgimentale; e così pure il grande affresco pirandelliano del romanzo “I vecchi e i giovani”.

L’unità all’Italia attraverso il fatidico plebiscito del 21 ottobre 1860, le speranze che l’hanno preceduto e i travagli e le delusioni che l’hanno seguito, è materia viva per la letteratura siciliana a cavallo dei due ultimi secoli.

L’annessione scombussolò di fatto i progetti di quella parte dei gruppi dominanti dell’isola che aveva accettato e cavalcato il processo di unificazione, considerato in primo luogo occasione di distacco da Napoli e di una nuova autonomia regionale; ma deluse soprattutto le aspettative dei contadini e delle popolazioni cittadine, che dall’impresa garibaldina si aspettavano un rivolgimento di carattere sociale ed economico, e si trovarono invece, come prima risposta, la sanguinosa repressione dei moti contadini di Bronte, condotta da un Nino Bixio ben diverso dal favoleggiato eroe in camicia rossa.

La ribellione, covata a lungo come il fuoco sotto la cenere, da parte del popolo miserabile sfruttato per secoli dai governanti,dai baroni del latifondo e dai loro gabellotti, esplose nel movimento dei Fasci (1893), nel movimento per l’occupazione delle terre, nel brigantaggio, e in modo più subdolo e difficilissimo da combattere, nel fenomeno mafioso. Lo “spirito di mafia” fu rilevato per la prima volta in maniera ufficiale dall’inchiesta sulla Sicilia del 1876 svolta da Franchetti e Sonnino; si costituiva una capillare organizzazione criminale strettamente legata agli interessi dei proprietari terrieri, decisi a difendere e  far rispettare un codice di comportamento ispirato alla tradizione più retriva e tipica del sistema feudale. Valori ancestrali come l’amicizia, la fedeltà alla parola data, la stessa famiglia, l’”onore”, venivano strumentalizzati per costruire uno “stato nello stato”. Negli ultimi decenni dell’ottocento e nei primi del novecento, anche a causa della crisi delle miniere di zolfo, oltre un milione e mezzo di giovani siciliani, un terzo della popolazione, furono costretti ad emigrare, soprattutto verso gli Stati Uniti. (Dopo quasi un secolo, negli anni ’60 – ’70, avverrà un altro esodo, questa volta verso il nord-Italia, in cerca di un posto di lavoro, e verso le miniere della Germania, del Belgio, della Francia.)

La Sicilia, incantevole e arida madre, quella Sicilia che era stata considerata per secoli “terra felix”, granaio di Roma e poi d’Europa, non riusciva più a nutrire i suoi figli.

Ho citato la crisi delle miniere di zolfo, altra risorsa tipica della Sicilia, oltre all’agricoltura e alla pesca, quasi simbolo, insieme ai suoi vulcani, di una natura di fuoco e di luce, e insieme sotterranea, magmatica, crudele. Avvolto nel mito doveva essere in antico lo zolfo.

 “Ma egli parlò alla cara nutrice Euriclea:

-          Porta lo zolfo, o vecchia, il rimedio dei mali, portami il fuoco:

      Voglio solfare (sterilizzare) la sala”

Così Odisseo purifica il luogo della strage dei Proci. Diodoro Siculo e Plinio ci parlano dell’estrazione dello zolfo sotto i Romani; e continua sotto gli arabi, sotto i normanni, nel Quattro, Cinque e Seicento; ma una vera e propria industria solfifera, con uno sfruttamento sistematico e con l’esportazione del prodotto fuori dall’isola, inizia nel Settecento, sotto i Borboni. E’ una febbre, quella dello zolfo, che cresce col tempo, una drammatica epopea che si sviluppa nell’arco di due secoli, fino a sparire negli anni Cinquanta.

…La miniera riproduce, nella gerarchia padronale, nei vari gradi di sfruttamento, nella precarietà, nel rischio, nei danni, quella stessa spirale di miseria che è la vita contadina in superficie, nel feudo. Distribuiti a diversi livelli, come i dannati nei vari gironi, stanno i capimastri, gli spesalori, i pompieri, i picconieri, i carusi. Ma questa realtà economica poggia principalmente sulle spalle dei due ultimi anelli della catena: il picconiere e il caruso.

Gli uomini della zolfara operano una rottura con quella che era l’arcaica e rassegnata cultura contadina. Proprio i minatori danno vita, fin dal 1890, ai primi circoli e alle prime società operaie che costituiranno, dall’ottobre del ’92, il nucleo portante dei Fasci dei lavoratori

Verso la fine del ’93 scoppiano i tumulti, che coinvolgono anche i contadini, e arriva la dura repressione da parte dello stato: 92 morti, arresti in massa, condanne indiscriminate da parte dei tribunali militari. Presidente del Consiglio è Francesco Crispi, siciliano (che inaugura la serie siciliana dei ministri, uomini di governo, poliziotti che si sono incaricati di risolvere i problemi sociali con una dura e spesso indiscriminata repressione).

I fatti che riguardano la zolfara turbano la coscienza di molti fra i letterati e gli scrittori: primo è Verga, con il dramma, poi trasformato in romanzo, “Dal tuo al mio” (e Giusti Sinopoli, Di Giovanni, Rapisardi, Rosso di San Secondo). Ma il più “sulfureo” degli scrittori siciliani è Pirandello (a cui si affianca Sciascia). Nello zolfo è nato lo scrittore, a ridosso dello scalo di Porto Empedocle, uno dei maggiori centri di magazzinaggio e d’imbarco del materiale, e ha come padre un affittuario di miniere e commerciante di zolfo, che naviga fra gli scogli della mafia, tra guadagni e perdite, con lo spettro continuo del naufragio (E nel naufragio affonderà la dote della nuora, Antonietta Portulano, che ne avrà un tracollo psichico, primo passo verso la pazzia).

Luigi stesso, in gioventù, lavora per qualche mese ai magazzini, conosce da vicino la vita degli zolfatari. Alcune novelle: “Il fumo”, “Lontano”, e soprattutto “Ciaula scopre la luna”  denunziano la tragica realtà dello zolfo (Ciaula è il fratello ideale del verghiano Rosso Malpelo, ragazzo minatore in una cava di sabbia.) Ma Pirandello traccia soprattutto un poderoso affresco del mondo della miniera nel romanzo “I vecchi e i giovani”, che abbraccia il periodo dal 1848 al 1893, data della sommossa dei Fasci.

Il nonno di Sciascia era stato caruso, dall’età di nove anni fino alla fine dei suoi giorni. “Senza lo zolfo” -scrive Consolo- lo scrittore Sciascia non si potrebbe spiegare. Spiegare la sua tagliente logica, la sua penetrante capacità di lettura della realtà, della storia, il suo morale e civile bisogno di smontare le tessere proditoriamente o casualmente mal disposte e rimetterle nell’ordine della verità; spiegare il suo moralismo, la sua indignazione quando un uomo, un potere, un sistema esercita violenza, offesa su un altro uomo, su una minoranza, su una società. Da qui i suoi romanzi, i suoi racconti, i suoi pamphlet sull’impostura, la mafia, l’Inquisizione”.

I minatori, nonostante la durezza della loro fatica e i danni fisici che ne derivavano, erano del resto tra i pochi lavoratori siciliani non stagionali, non soggetti cioè a lunghi periodi senza salario, quali erano invece i braccianti e anche i pescatori, in particolare quelli che praticavano la pesca del tonno e del pesce spada (già descritta tanti secoli fa da Polibio e da Stradone). Al di là dello spettacolo che può sembrare pittoresco, la mattanza è in realtà una lotta per la vita: le correnti impetuose tinte del sangue delle prede rappresentano una delle tante immagini della natura drammatica di quest’isola e del mare che la circonda. Il mito di Scilla e Cariddi del poema omerico ben si addice alla millenaria frattura fra isola e continente: qui sono avvenuti i terribili terremoti e maremoti che hanno annientato uomini e città (ultimo quello di Messina e Reggio nel 1908, con oltre cinquantamila morti). E migliaia di morti hanno fatto nei secoli la malaria e le epidemie di colera (ben presenti negli scrittori dell’Ottocento), le eruzioni dell’Etna, fin dall’antichità.

Il senso della precarietà, il pessimismo di fondo sorgono dalla convinzione che sull’uomo come sulla storia incombe un’imperscrutabile fatalità.

Dio è lontano, astratto, come il potere e la legge. (La figura del padre è del resto autoritaria e ossessiva).

Anche la considerazione e il rispetto verso i suoi ministri, i preti secolari o gli appartenenti alle congregazioni religiose, sono assai scarsi (esemplare il Don Blasco de “I Viceré”): essi non si diversificano, nella maggior parte dei casi, dal feudatario, se ricoprono cariche, o dal gabellotto, se fanno parte della “truppa”.

Si portano in processione i santi, trasformati in personaggi leggendari e partigiani, talvolta pietosi talvolta vendicativi. Li si invoca e li si insulta con la stessa violenza e superstiziosa passionalità. Ma il culto più diffuso e sentito è quello per la Madonna, la Madre dei dolori, col petto trafitto da sette spade. Per lei si celebrano i “Misteri”.

Vengono in mente i versi di un poeta popolare, Ignazio Buttitta, dedicati alla madre di Salvatore Giuliano:

 

“E vennu li parenti e la famigghia,

Prima la matri cu li razza jsati.

E a cu la vidi pari c’assumigghia

A la Madonna di la piatati:

La matri d’un briganti matri resta…”

 

Senza dire -osserva Sciascia– che per un siciliano deve pur esserci, nella madonna e nelle Sante, un’ombra di sessualità che le rende umane (S. Lucia, S. Agata e S. Rosalia, tutte vergini e martiri! Le beate di famiglia nei “Viceré” e nel “Gattopardo”). La gerarchia celeste viene esemplata sulla gerarchia terrena del feudo: e come i gabellotti e gli sbirri sono, per la loro stessa vicinanza e presenza, più potenti del feudatario chiuso nel suo palazzo; come il Viceré è più potente del Re (“ ‘ncapu a lu re c’è lu viceré”), così la madonna e i santi, più vicini alla terra perché mortali, devono indubbiamente essere più attenti ed efficaci di Dio.

I riti popolari, più pagani che cristiani, sono stati nei secoli tacitamente tollerati dalla Chiesa, se non localmente favoriti. La festa religiosa (ma anche “laica”, dal teatro dei pupi alle esibizioni dei cantastorie) è innanzi tutto un’esplosione esistenziale; poiché è soltanto nelle feste che il siciliano esce dalla sua condizione di “uomo solo”. Non c’è paese di una qualche importanza in cui la Passione di Cristo non riviva attraverso una vera e propria rappresentazione in costume, i cui elementi sono l’amicizia, il tradimento, la flagellazione, la croce, il dolore della madre.

Ma è davvero il dramma del Figlio di Dio che rivive, o non piuttosto il dramma dell’uomo tradito dal suo vicino, tormentato dagli sbirri, votato al sacrificio ultimo; o è soltanto il dramma di una madre, il dramma dell’Addolorata? (Ricordate la figura di Maruzza La Longa ne “I Malavoglia”?)

La Passione suscita nel popolo siciliano un momento di autentico afflato “religioso”, se per religiosità s’intende un sentimento corale di partecipazione ad un dramma che è insieme sacro e profano.

La morte è anche spettacolo: pensate, ad esempio, al funerale della principessa Uzeda ne “I Vicerè”, pensate all’importanza del vestirsi a lutto; ma la morte è soprattutto solitudine, disincantata contemplazione di una fine senza trascendenza: ricordate le pagine bellissime sulla morte del Principe ne “Il Gattopardo”.

 

Chiudo con i sublimi versi di Salvatore Quasimodo, poeta a cui la morte è costantemente presente:

 

“Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera”.

 

  

                                                                                                                        

                                                                                                                      Maria Emanuel