Sicilia
madre e matrigna
Scrittori
siciliani degli ultimi due secoli
La
letteratura siciliana è stata a lungo considerata una letteratura
“regionalistica”, perché ha avuto quasi sempre come oggetto la Sicilia, e a
questo termine è stato dato spesso un carattere fortemente limitativo del suo
valore. Ma, dal mondo apparentemente chiuso della loro isola, gli scrittori
siciliani hanno saputo scavare nel profondo della natura umana, che è
universale, e nelle problematiche di una storia difficile e complessa, che non
è solo storia della Sicilia: mi sembra che le loro opere, almeno le più
riuscite, siano più vicine alla nostra sensibilità e al nostro gusto, ad
esempio, di quelle di uno scrittore europeo come D’Annunzio. A parte che un
Pirandello –già lo diceva Gramsci- è siciliano, italiano, europeo.
Gli scrittori
siciliani si inseriscono a buon diritto nella grande storia della letteratura
italiana, continuando la gloriosa tradizione del romanzo manzoniano. Non si
rivolgono più, come Manzoni, al passato, ma ad un periodo storico contemporaneo
o appena precedente; oggetto della loro analisi è il complesso delle classi che
compongono la società siciliana in lenta trasformazione: le plebi in miseria
(Verga), la nobiltà feudale decadente, ma anche trasformista (Capuana, De
Roberto, Tomasi di Lampedusa), la borghesia, nuova protagonista sulla scena, con
tutti i problemi esistenziali dell’individuo che si trova a vivere in un
periodo storico afflitto da mutamenti e da guerre ben più pesanti e
destabilizzanti di quelle affrontate per l’unità d’Italia (Pirandello,
Vittorini, Brancati, Sciascia, ecc.).
La lettura
della società siciliana che io cercherò di fare qui è quella attraverso i
suoi scrittori (dovrò citare molto), non la mia personale: conosco troppo poco
in profondità la Sicilia, e non ne sarei un’interprete autorevole, anche se
ne sono sempre stata intellettualmente ed emotivamente attratta.
Per me,
cresciuta in un paese di nebbie, negli anni dell’adolescenza la Sicilia è
stata una terra favolosa, la terra del sole, degli aranci e dei limoni; il suo
nome evocava la Magna Grecia, Federico II e la scuola siciliana, i pirati
barbareschi, Garibaldi e l’impresa dei Mille, lo sbarco degli alleati e
l’attesa della liberazione…L’ho visitata quand’ero ormai adulta, ma da
turista purtroppo, con poco tempo a disposizione per “viverla” veramente.
L’ho
visitata idealmente attraverso i films che i più significativi registi italiani
le hanno dedicato, da punti di vista diversi e in tempi diversi. Ne cito solo
alcuni, un po’ alla rinfusa: Blasetti “1860”; Visconti “La terra
trema” e “Il Gattopardo”; Zampa “Anni difficili”; Germi “Il cammino
della speranza”, “In nome della legge”, “Divorzio all’italiana”;
Rosi “Salvatore Giuliano”; Rossellini “Stromboli”; Bolognini “Il
bell’Antonio”; Petri “A ciascuno il suo”; Antonioni “L’avventura”;
Tornatore “Nuovo cinema Paradiso”, “L’uomo delle stelle”. E l’elenco
è certamente incompleto. Più d’uno dei films che ho citato è tratto da un
testo letterario: la letteratura siciliana degli ultimi due secoli è veramente
una preziosa miniera, a cui anche noi attingeremo per conoscere questa terra
antica, ricca di memorie e di contrasti, di luce abbagliante e di ombre
profonde, di passione e di ironia.
Ecco come ce
la presenta lo scrittore Vincenzo Consolo: “…quest’isola in mezzo al
Mediterraneo è quanto di fisicamente più vario possa in sé raccogliere una
piccola terra. Un vasto campionario di terreni, argille, lave, tufi, rocce,
gessi, minerali… E montagne, vulcani, altipiani carsici, conche, colline,
cave, pianure, depressioni. E quindi varietà di culture, boschi, giardini,
uliveti, vigne, seminativi, pascoli, sabbie, distese desertiche. In questa terra
sembra che la natura abbia subito un arresto nella sua evoluzione, si sia come
cristallizzata nel passaggio dal caos primordiale all’amalgama,
all’uniformazione, alla serena ricomposizione. Sì, crediamo che tutta la
Sicilia sia rimasta per sempre quel caos fisico come quella campagna di Girgenti
in cui vide la luce Pirandello.
“Io dunque
sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché sono
nato in una nostra campagna, che trovasi presso un intricato bosco denominato,
in forma dialettale, “Cávusu” dagli abitanti di Girgenti, corruzione
dialettale del genuino e antico vocabolo Káos…”.
“E, come
Pirandello, ogni siciliano credo possa dire “son figlio del Caos”. E’ il
“caos” prima della formazione del “cosmos”, la materia informe, la
“mescolanza di cose frammista” di cui parla Empedocle (anch’egli nato nel
“caos” di Agrigento). La storia siciliana ha come voluto imitare la natura:
un’infinità, un campionario di razze, di civiltà sono passate per l’isola
senza mai trovare un loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i
suoi segni, qua e là, diversi, distinti dagli altri e in conflitto: da qui,
forse, tutto il malessere, tutta l’infelicità storica della Sicilia, il modo
difficile di essere uomo in quest’isola, e lo smarrimento del siciliano, e il
suo sforzo continuo della ricerca di identità”, scrive Leonardo Sciascia.
Già
Cicerone, stabilendo che la retorica era nata in Sicilia, aveva definito i
siciliani “gente di ingegno acuto e sospettoso, nata per le controversie”. E
nel Cinquecento il toscano Giovanni Maria Cecchi dava questo “ritratto” dei
siciliani: “…Vivono in sì gran gelosia delle loro donne, che le tengono
molto ristrette, e fanno acerbissime vendette sopra a chi hanno in sospezione.
Peccano forte in avarizia, che con vergogna e incomodo loro fanno le spese per
il vivere e vestire e ornamento di casa; sono ancora altieri, e dove non è
differenza grande di titolo, non si cedono l’uno all’altro; ardenti amici e
pessimi inimici…di intelletto secco (acuto) atti ad apprendere con facilità
varie cose…”. A questo ritratto corrisponde quello che fa il messinese
Scipio di Castro, negli stressi anni, negli “Avvertimenti a Marco Colonna
quando andò viceré in Sicilia”: “I siciliani…sono sottili critici delle
azioni dei governanti, credono sia facile realizzare tutto quello che dicono
farebbero se fossero al posto dei governanti. Sono affezionati ai forestieri e
pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di
due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando
trattano i loro affari, perché sono molto attaccati ai propri interessi…, ma
d’incredibile temerità quando maneggiano la cosa pubblica… La Sicilia è
stata fatale a tutti i suoi governanti; e la maggior parte di essi ha lasciato
sepolta in quel Regno la reputazione.”
“L’insicurezza
–dice Sciascia- è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona
il comportamento, il modo di essere, la visione della vita: paura, apprensione,
diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli
affetti, violenza, pessimismo, fatalismo”. Parlando di Verga, Pirandello dirà:
”I siciliani, quasi tutti, hanno un’istintiva paura della vita, per cui si
chiudono in sé, appartati… Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro
animo chiuso e la natura intorno aperta, chiara di sole, e vieppiù si chiudono
in sé, perché di questo aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè
che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola da sé, e
da sé si gode, -ma appena, se l’ha- la sua poca gioia; da sé, taciturno,
senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato. Ma ci sono
quelli che evadono…”
Non del mare
che li isola i siciliani diffidano, ma piuttosto di quel mare che ha portato
alle loro spiagge i cavalieri berberi e normanni, gli esosi baroni di Carlo d’Angiò,
gli avventurieri che venivano dalla “avara povertà di Catalogna”,
l’armata di Carlo V e di Luigi XIV, gli austriaci, i garibaldini, i
piemontesi, le truppe di Patton e di Montgomery; e per secoli, continuo
flagello, i pirati algerini.
La paura
“storica” è diventata dunque paura “esistenziale” e si manifesta con
una tendenza all’isolamento, alla separazione, degli individui e dell’intera
regione. A un certo punto l’insicurezza, la paura, si rovesciano
nell’illusione che questa loro insularità costituisca privilegio e forza là
dove, in effetti, è condizione di vulnerabilità e debolezza; e ne sorge una
specie di alienazione, che produce atteggiamenti di presunzione, di fierezza, di
arroganza. (Si pensi al discorso che don Fabrizio, nel “Gattopardo” fa al
piemontese Chevalley: “…i siciliani non vorranno mai migliorare per la
semplice ragione che credono di essere perfetti…”.
Il rapporto
del siciliano con la sua terra mi pare assomigli, in qualche modo al suo
rapporto, sempre importante e difficile, con la donna. La donna, questa
sconosciuta, “mistero senza fine bello”. Donna sognata, idealizzata, mai
raggiunta, la donna dei poeti della scuola siciliana…; donna sposa, donna
amante, donna madre: nell’immaginario del siciliano queste figure appaiono
quasi sempre disgiunte, addirittura in forte contrasto, come in una fantasia
adolescenziale. Donne desiderate, ma in fondo temute: “Mari, focu e fimmini,
Diu mi scanza!”.
Scrive
Brancati: “Questo avere i sogni, e la mente, e i discorsi, e il sangue stesso
perpetuamente abitati dalla donna, porta che nessuno sa poi reggere alla
presenza di lei”.
Si narra che
Francesco Guglielmino, professore di letteratura greca e poeta dilettante, abbia
detto una volta all’amico Verga: “Noi siciliani siamo romantici”. E Verga:
“Ma che romantici, figlio mio: siamo ingravidabalconi”.
Verga,
appunto, e il suo percorso letterario. La sua prima opera di largo successo (la
sua opera più venduta in assoluto, almeno durante la vita dello scrittore,
arrivata a ben ventidue edizioni) è “Storia di una capinera”, costruita
sulla memoria di un suo casto incontro adolescente con una fanciulla finita in
convento. La ragazza è una creatura ingenua e appassionata, che non sa o non può
ribellarsi al suo destino di essere chiusa in gabbia, fino alla follia e alla
morte. Eroina romantica quant’altre mai, debole dal punto di vista artistico,
ma prima espressione dell’onnipresente amore-rinuncia, che avrà ben maggiore
autenticità umana e letteraria nelle figure femminili di alcune novelle, dei
“Malavoglia”” e di “Mastro don Gesualdo”: Nedda, la Mena, Diodata,
Bianca, Isabella.
Lontano dalla
Sicilia donne seduttrici e ingannatrici,”maliarde”
tentatrici, donne di teatro; le protagoniste dei romanzi “alla moda”,
scritti sotto l’influenza mal assimilata della Scapigliatura lombarda:
“Eva”, “Eros”, “Tigre reale”: le une e le altre in un certo modo
incomprensibili alla mente grezza del maschio, che invano vorrebbe possederle
non solo nel corpo ma anche nell’anima. La descrizione dei sentimenti, delle
passioni, è “sovraesposta”, più tardi saranno”suggeriti”. “Donne
centro di un oscuro e maligno mistero, vittime di una misoginia sempre in bilico
tra attrazione e orrore”, scrive Massimo Onofri.
La bellezza
di questa vestale dell’amore deve essere fatta di fragilità; ma deve
mostrarsi fortissima nel salvaguardare la purezza dell’anima e del corpo. Solo
quando è madre le è concesso di mostrare le unghie, ma a vantaggio dei figli,
questi concreti simboli del suo essere vissuta a servizio di quell’unico amore
che è concesso alla sua vita.
La madre
allora: quella che difende dall’insicurezza,quella di cui non si può
dubitare, la custode della casa, colei che si sacrifica, riversando sul figlio,
specie sul figlio maschio, il suo amore geloso ed esclusivo (“Maruzza la Longa”
di Verga, ma anche figure materne create da Pirandello, da De Roberto, da
Brancati). Da quell’abbraccio che man mano si fa soffocante il figlio, fattosi
adulto, si sottrae allontanandosi, ma porta sempre in sé una specie di rimorso,
di inguaribile nostalgia. Serba la madre nella memoria, quando ne è lontano; e
non l’abbandona un oscuro desiderio di tornare a lei, come in un luogo
finalmente al sicuro dalle insidie e dalle intrusioni del mondo di fuori, quel
mondo che lo sollecita ad uscire da se stesso, ad agire, rompendo il suo
istintivo desiderio di isolamento e di quiete. Da questa quiete, da questa noia
(Brancati, Patti) nasce il gallismo, fatua ricerca di affermazione di sé.
Così dalla
Sicilia ci si può allontanare, come hanno fatto molti dei suoi artisti e
letterati: da Antonello da Messina a Guttuso, da Verga a Capuana, De Roberto,
Pirandello, Rosso di San Secondo, Brancati, Quasimodo, Vittorini, Sciascia,
Patti, Consolo, per citare solo i più noti. Ci si può, ci si deve allontanare,
ma sempre ci si sente esuli, e spesso si ritorna, come alle proprie origini, che
ancora danno nutrimento e stimolo.
Scrive
Salvatore Quasimodo:
Lamento
per il Sud
La luna
rossa, il vento, il tuo colore
di donna del
Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore
è ormai su queste praterie
in queste
acque annuvolate dalle nebbie.
Ho
dimenticato il mare, la grave
conchiglia
soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene
dei carri lungo le strade
dove il
carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho
dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria
dei verdi altipiani
per le terre
e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo
grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno
mi porterà nel Sud.
Oh il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi
pozzi
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui
monti,
costringono i cavalli sotto coltri di
stelle,
mangiano fiori d’acacia sotto le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora
rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezza e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
Da
“la vita non è sogno” (1946
– 48)
Se la propria
terra, come la madre, è rifugio e difesa, resta comunque nell’animo del
siciliano un senso di incompiutezza, di sogno irrealizzato.
La figura del
padre è tipica: patriarcale, di solito aliena dal manifestare i propri
sentimenti, simbolo dell’autorità e della tradizione. Il suo profondo culto
della famiglia lo induce a progettare accanitamente, persino usando il ricatto,
il futuro dei figli, su cui proietta spesso sete di potere e di ambizioni
deluse: quando vede i propri sforzi vanificati, gliene deriva un irrimediabile
senso di frustrazione, che lo porta fino all’autodistruzione, nel morale e nel
fisico. (“Mastro don Gesualdo”, “I Viceré”, “Il bell’Antonio”, ad
esempio). L’uomo siciliano è un uomo duro, ma insieme psicologicamente
fragile. Lo stesso amore per la donna è un sentimento ossessivo e geloso, mai
appagato: anche nei momenti, rari, in cui la meta sembra raggiunta, porta in sé
un oscuro presentimento del possibile tradimento, il tarlo della caducità di
ogni cosa. Da qui un sottofondo di malinconia che pervade tutta la letteratura
siciliana. La gelosia, che penetra e corrode ogni rapporto d’amore, presume
una fondamentale insicurezza di sé, mascherata da orgoglioso potere virile.
Anche nel culmine della passione, l’uomo non si concede mai completamente,
quasi temesse di essere inghiottito da un gorgo senza fondo, inesplorabile.
Importante per lui è il possesso “esclusivo” della donna, prova della sua
virilità, ma soprattutto fondamento essenziale dell’”onore”; un
fallimento in questo campo costituisce un’insopportabile ferita alla propria
identità, e lo sbriciolarsi della propria immagine agli occhi degli altri,
(Penso, tra tanti esempi, a “Il bell’Antonio”, ma anche
a “Il berretto a sonagli”…). Specchio dell’onore, proprio e
familiare, è anche la verginità della figlia, della sorella: se questo
tremendo tabù sociale viene infranto, non lo si può riparare che con la
vendetta (“Cavalleria rusticana” ne è come il paradigma) o, in maniera meno
sanguinosa ma sempre crudele, con un matrimonio comunque realizzato, in cui la
donna come persona conta ben poco.
Conta invece
“la dote”, e non soltanto per il suo valore venale, ma per quello simbolico:
qualsiasi ragazza senza la dote,
senza il corredo, si sente nessuno, indegna di considerazione e di rispetto sia
da parte dello sposo che della gente. Ci stiamo accostando a uno dei temi
fondamentali dell’opera di Verga: la “roba”. Siamo di fronte a un’avidità
di possesso che va al di là del fatto concreto: per padron ’Ntoni la casa del
nespolo è la garanzia della continuità familiare, dello “stare all’onor
del mondo”, dello scampare all’imprevedibilità del Caso; per Mastro don
Gesualdo la roba è affermazione di sé, della propria tenacia, della propria
astuzia, della propria capacità di sacrificio, e insieme rivincita sulla sorte
che lo ha fatto nascere povero e sulla classe sociale che lo avrebbe voluto
servo.
Ma anche
nella “roba” l’uomo è vulnerabile. Una Natura matrigna gli toglie,
leopardianamente, ogni illusione, e rende impietosa anche la morte. Le pagine
sulla morte di Padron ‘Ntoni e di don Gesualdo sono tra le più intense di
Verga: morti in solitudine, con di fronte solo “un muro”. Come ha una sua
grottesca disperazione la fine di Mazzarò: ”…quando gli dissero che era
tempo di lasciare la sua roba per pensare all’anima, uscì nel cortile come un
pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i
suoi tacchini, e strillava –Roba mia, vientene con me!-“
La “roba”
acquista dunque una sua “sacralità”, è anzi, insieme all’”onore”,
l’unica autentica religione.
Il filosofo
Giovanni Gentile, siciliano, afferma che il materialismo è carattere peculiare
della cultura siciliana; Gramsci ne fa giustamente il punto di partenza del
mondo pirandelliano. Pirandello, ovvero la Sicilia raziocinante, dolorosamente
scettica di fronte al travagliato dibattersi dell’uomo senza più certezze,
che sente tutta la pena del “vedersi vivere” (e il volterriano Sciascia ne
è il diretto erede).
Si può
dunque dire con Sciascia che l’insicurezza è la componente primaria della
storia siciliana. La lotta per la vita dei “Vinti” e la decadenza e il
trasformismo dei “Viceré” e dei “Gattopardi” hanno come sfondo la
storia della Sicilia risorgimentale; e così pure il grande affresco
pirandelliano del romanzo “I vecchi e i giovani”.
L’unità
all’Italia attraverso il fatidico plebiscito del 21 ottobre 1860, le speranze
che l’hanno preceduto e i travagli e le delusioni che l’hanno seguito, è
materia viva per la letteratura siciliana a cavallo dei due ultimi secoli.
L’annessione
scombussolò di fatto i progetti di quella parte dei gruppi dominanti
dell’isola che aveva accettato e cavalcato il processo di unificazione,
considerato in primo luogo occasione di distacco da Napoli e di una nuova
autonomia regionale; ma deluse soprattutto le aspettative dei contadini e delle
popolazioni cittadine, che dall’impresa garibaldina si aspettavano un
rivolgimento di carattere sociale ed economico, e si trovarono invece, come
prima risposta, la sanguinosa repressione dei moti contadini di Bronte, condotta
da un Nino Bixio ben diverso dal favoleggiato eroe in camicia rossa.
La
ribellione, covata a lungo come il fuoco sotto la cenere, da parte del popolo
miserabile sfruttato per secoli dai governanti,dai baroni del latifondo e dai
loro gabellotti, esplose nel movimento dei Fasci (1893), nel movimento per
l’occupazione delle terre, nel brigantaggio, e in modo più subdolo e
difficilissimo da combattere, nel fenomeno mafioso. Lo “spirito di mafia” fu
rilevato per la prima volta in maniera ufficiale dall’inchiesta sulla Sicilia
del 1876 svolta da Franchetti e Sonnino; si costituiva una capillare
organizzazione criminale strettamente legata agli interessi dei proprietari
terrieri, decisi a difendere e far
rispettare un codice di comportamento ispirato alla tradizione più retriva e
tipica del sistema feudale. Valori ancestrali come l’amicizia, la fedeltà
alla parola data, la stessa famiglia, l’”onore”, venivano strumentalizzati
per costruire uno “stato nello stato”. Negli ultimi decenni dell’ottocento
e nei primi del novecento, anche a causa della crisi delle miniere di zolfo,
oltre un milione e mezzo di giovani siciliani, un terzo della popolazione,
furono costretti ad emigrare, soprattutto verso gli Stati Uniti. (Dopo quasi un
secolo, negli anni ’60 – ’70, avverrà un altro esodo, questa volta verso
il nord-Italia, in cerca di un posto di lavoro, e verso le miniere della
Germania, del Belgio, della Francia.)
La Sicilia,
incantevole e arida madre, quella Sicilia che era stata considerata per secoli
“terra felix”, granaio di Roma e poi d’Europa, non riusciva più a nutrire
i suoi figli.
Ho citato la
crisi delle miniere di zolfo, altra risorsa tipica della Sicilia, oltre
all’agricoltura e alla pesca, quasi simbolo, insieme ai suoi vulcani, di una
natura di fuoco e di luce, e insieme sotterranea, magmatica, crudele. Avvolto
nel mito doveva essere in antico lo zolfo.
“Ma egli
parlò alla cara nutrice Euriclea:
-
Porta lo zolfo, o vecchia, il rimedio dei mali, portami il
fuoco:
Voglio solfare (sterilizzare) la sala”
Così Odisseo purifica il luogo della strage dei Proci. Diodoro Siculo e Plinio ci parlano dell’estrazione dello zolfo sotto i Romani; e continua sotto gli arabi, sotto i normanni, nel Quattro, Cinque e Seicento; ma una vera e propria industria solfifera, con uno sfruttamento sistematico e con l’esportazione del prodotto fuori dall’isola, inizia nel Settecento, sotto i Borboni. E’ una febbre, quella dello zolfo, che cresce col tempo, una drammatica epopea che si sviluppa nell’arco di due secoli, fino a sparire negli anni Cinquanta.
…La
miniera riproduce, nella gerarchia padronale, nei vari gradi di sfruttamento,
nella precarietà, nel rischio, nei danni, quella stessa spirale di miseria che
è la vita contadina in superficie, nel feudo. Distribuiti a diversi livelli,
come i dannati nei vari gironi, stanno i capimastri, gli spesalori, i pompieri,
i picconieri, i carusi. Ma questa realtà economica poggia principalmente sulle
spalle dei due ultimi anelli della catena: il picconiere e il caruso.
Gli
uomini della zolfara operano una rottura con quella che era l’arcaica e
rassegnata cultura contadina. Proprio i minatori danno vita, fin dal 1890, ai
primi circoli e alle prime società operaie che costituiranno, dall’ottobre
del ’92, il nucleo portante dei Fasci dei lavoratori
Verso
la fine del ’93 scoppiano i tumulti, che coinvolgono anche i contadini, e
arriva la dura repressione da parte dello stato: 92 morti, arresti in massa,
condanne indiscriminate da parte dei tribunali militari. Presidente del
Consiglio è Francesco Crispi, siciliano (che inaugura la serie siciliana dei
ministri, uomini di governo, poliziotti che si sono incaricati di risolvere i
problemi sociali con una dura e spesso indiscriminata repressione).
I
fatti che riguardano la zolfara turbano la coscienza di molti fra i letterati e
gli scrittori: primo è Verga, con il dramma, poi trasformato in romanzo, “Dal
tuo al mio” (e Giusti Sinopoli, Di Giovanni, Rapisardi, Rosso di San Secondo).
Ma il più “sulfureo” degli scrittori siciliani è Pirandello (a cui si
affianca Sciascia). Nello zolfo è nato lo scrittore, a ridosso dello scalo di
Porto Empedocle, uno dei maggiori centri di magazzinaggio e d’imbarco del
materiale, e ha come padre un affittuario di miniere e commerciante di zolfo,
che naviga fra gli scogli della mafia, tra guadagni e perdite, con lo spettro
continuo del naufragio (E nel naufragio affonderà la dote della nuora,
Antonietta Portulano, che ne avrà un tracollo psichico, primo passo verso la
pazzia).
Luigi
stesso, in gioventù, lavora per qualche mese ai magazzini, conosce da vicino la
vita degli zolfatari. Alcune novelle: “Il fumo”, “Lontano”, e
soprattutto “Ciaula scopre la luna” denunziano
la tragica realtà dello zolfo (Ciaula è il fratello ideale del verghiano Rosso
Malpelo, ragazzo minatore in una cava di sabbia.) Ma Pirandello traccia
soprattutto un poderoso affresco del mondo della miniera nel romanzo “I vecchi
e i giovani”, che abbraccia il periodo dal 1848 al 1893, data della sommossa
dei Fasci.
Il nonno di Sciascia era stato caruso, dall’età di nove anni fino alla fine dei suoi giorni. “Senza lo zolfo” -scrive Consolo- lo scrittore Sciascia non si potrebbe spiegare. Spiegare la sua tagliente logica, la sua penetrante capacità di lettura della realtà, della storia, il suo morale e civile bisogno di smontare le tessere proditoriamente o casualmente mal disposte e rimetterle nell’ordine della verità; spiegare il suo moralismo, la sua indignazione quando un uomo, un potere, un sistema esercita violenza, offesa su un altro uomo, su una minoranza, su una società. Da qui i suoi romanzi, i suoi racconti, i suoi pamphlet sull’impostura, la mafia, l’Inquisizione”.
I minatori, nonostante la durezza della loro fatica e i danni fisici che ne derivavano, erano del resto tra i pochi lavoratori siciliani non stagionali, non soggetti cioè a lunghi periodi senza salario, quali erano invece i braccianti e anche i pescatori, in particolare quelli che praticavano la pesca del tonno e del pesce spada (già descritta tanti secoli fa da Polibio e da Stradone). Al di là dello spettacolo che può sembrare pittoresco, la mattanza è in realtà una lotta per la vita: le correnti impetuose tinte del sangue delle prede rappresentano una delle tante immagini della natura drammatica di quest’isola e del mare che la circonda. Il mito di Scilla e Cariddi del poema omerico ben si addice alla millenaria frattura fra isola e continente: qui sono avvenuti i terribili terremoti e maremoti che hanno annientato uomini e città (ultimo quello di Messina e Reggio nel 1908, con oltre cinquantamila morti). E migliaia di morti hanno fatto nei secoli la malaria e le epidemie di colera (ben presenti negli scrittori dell’Ottocento), le eruzioni dell’Etna, fin dall’antichità.
Il senso della precarietà, il pessimismo di fondo sorgono dalla convinzione che sull’uomo come sulla storia incombe un’imperscrutabile fatalità.
Dio è lontano, astratto, come il potere e la legge. (La figura del padre è del resto autoritaria e ossessiva).
Anche la considerazione e il rispetto verso i suoi ministri, i preti secolari o gli appartenenti alle congregazioni religiose, sono assai scarsi (esemplare il Don Blasco de “I Viceré”): essi non si diversificano, nella maggior parte dei casi, dal feudatario, se ricoprono cariche, o dal gabellotto, se fanno parte della “truppa”.
Si portano in processione i santi, trasformati in personaggi leggendari e partigiani, talvolta pietosi talvolta vendicativi. Li si invoca e li si insulta con la stessa violenza e superstiziosa passionalità. Ma il culto più diffuso e sentito è quello per la Madonna, la Madre dei dolori, col petto trafitto da sette spade. Per lei si celebrano i “Misteri”.
Vengono in mente i versi di un poeta popolare, Ignazio Buttitta, dedicati alla madre di Salvatore Giuliano:
“E vennu li parenti e la famigghia,
Prima la matri cu li razza jsati.
E a cu la vidi pari c’assumigghia
A la Madonna di la piatati:
La matri d’un briganti matri resta…”
Senza dire -osserva Sciascia– che per un siciliano deve pur esserci, nella madonna e nelle Sante, un’ombra di sessualità che le rende umane (S. Lucia, S. Agata e S. Rosalia, tutte vergini e martiri! Le beate di famiglia nei “Viceré” e nel “Gattopardo”). La gerarchia celeste viene esemplata sulla gerarchia terrena del feudo: e come i gabellotti e gli sbirri sono, per la loro stessa vicinanza e presenza, più potenti del feudatario chiuso nel suo palazzo; come il Viceré è più potente del Re (“ ‘ncapu a lu re c’è lu viceré”), così la madonna e i santi, più vicini alla terra perché mortali, devono indubbiamente essere più attenti ed efficaci di Dio.
I riti popolari, più pagani che cristiani, sono stati nei secoli tacitamente tollerati dalla Chiesa, se non localmente favoriti. La festa religiosa (ma anche “laica”, dal teatro dei pupi alle esibizioni dei cantastorie) è innanzi tutto un’esplosione esistenziale; poiché è soltanto nelle feste che il siciliano esce dalla sua condizione di “uomo solo”. Non c’è paese di una qualche importanza in cui la Passione di Cristo non riviva attraverso una vera e propria rappresentazione in costume, i cui elementi sono l’amicizia, il tradimento, la flagellazione, la croce, il dolore della madre.
Ma è davvero il dramma del Figlio di Dio che rivive, o non piuttosto il dramma dell’uomo tradito dal suo vicino, tormentato dagli sbirri, votato al sacrificio ultimo; o è soltanto il dramma di una madre, il dramma dell’Addolorata? (Ricordate la figura di Maruzza La Longa ne “I Malavoglia”?)
La Passione suscita nel popolo siciliano un momento di autentico afflato “religioso”, se per religiosità s’intende un sentimento corale di partecipazione ad un dramma che è insieme sacro e profano.
La
morte è anche spettacolo: pensate, ad esempio, al funerale della principessa
Uzeda ne “I Vicerè”, pensate all’importanza del vestirsi a lutto; ma la
morte è soprattutto solitudine, disincantata contemplazione di una fine senza
trascendenza: ricordate le pagine bellissime sulla morte del Principe ne “Il
Gattopardo”.
Chiudo
con i sublimi versi di Salvatore Quasimodo, poeta a cui la morte è
costantemente presente:
“Ognuno
sta solo sul cuor della terra
trafitto
da un raggio di sole:
ed
è subito sera”.
Maria Emanuel