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BIG JOE TURNER

La scena musicale di Kansas City negli anni '30 si muoveva su due diversi livelli, che, pur intrecciandosi di frequente, rimanevano ben distinti: ancora oggi, per gli appassionati di Jazz, KC richiama immancabilmente i nomi di Count Basie, Jay McShann o Bennie Moten e delle loro strepitose band, in grado di swingare il blues trasformandolo in un linguaggio più complesso e sofisticato, e allo stesso tempo più 'popolare'. Ma per il rude bluesofilo, KC richiama i suoni del piano di Pete Johnson, tra il tintinnare dei bicchieri nei locali della 12ma strada, e una voce che molti di quei bicchieri faceva tremare: quella di Big Joe Turner, 'the Boss of the Blues'. Jazz e Blues, insieme, contribuirono alla definizione di un Kansas City Sound, fatto di ritmo pulsante, swing e boogie.

 

In questa stessa città Joseph Vernon Turner era nato nel Maggio del 1911: la naturale 'palestra' per la sua voce era stata la chiesa - come impone lo stereotipo del cantante nero - ma ancora di più la strada. Joe ricordava, parlando della propria infanzia, intere giornate trascorse al fianco di chitarristi ciechi che  suonavano chiedendo l'elemosina spostandosi da un angolo all'altro: li accompagnava, faceva 'girare il piattino', assimilava ritmi e versi, componendo nel frattempo i propri. E questo lungo e originale apprendistato gli avrebbe consentito in futuro di improvvisare versi blues per ore, senza fermarsi. Tra i suoi ricordi, citava i tentativi di sgattaiolare - ancora ragazzino - nei locali in cui si faceva musica, con dei baffi malamente disegnati a matita sul faccione.

Il primo vero lavoro non lo trovò però come musicista: Piney Brown, il proprietario del Sunset Café della 12ma Strada, cercava un giovane che potesse non solo dare una mano al bar, ma che avesse anche il fisico giusto per potere accompagnare i soliti 'esagerati' a smaltire la sbornia sul marciapiede. Non a caso Joseph Vernon Turner era chiamato Big Joe: il primato olimpico di trasporto di ubriachi sul selciato venne rapidamente mandato in frantumi, e una nuova qualità di quel ragazzone venne pian piano alla luce. Mentre Pete Johnson, il pianista del locale, suonava i suoi blues, Big Joe, tra un servizio al tavolo e un cliente accompagnato all'uscita,  cantava.

Johnson era un abile musicista, in grado di affrontare un repertorio raffinato e vasto, ma anche capace di sfoderare un possente ritmo boogie woogie che sosteneva interminabili e avvincenti improvvisazioni: l'affiatamento musicale e personale dei due continuava a crescere, così come anche la fama del locale, del quale il duo costituiva la principale attrattiva. Il Sunset Café era diventato così un richiamo irresistibile anche per tutti i musicisti delle band che suonavano in città, che vi si recavano per lunghe jam sessions. Ricordava Mary Lou Williams: "... Credo che non dimenticherò mai l'emozione di ascoltare Big Joe cantare a pieni polmoni ('shouting') e mandare tutti in visibilio, notte dopo notte,  mentre miscelava drinks...". Ricordava ancora Jo Jones, batterista di Count Basie: "C'era un locale dall'altra parte della strada che si chiamava Lone Star. Joe Turner cominciava a cantare un blues al Sunset, quindi usciva, attraversava la strada, e cantava al Lone Star: mangiava qualcosa, faceva quattro chiacchiere, e quindi tornava al Sunset, a finire il blues che aveva iniziato..."  

 

Erano i primi mesi del 1936: al Sunset Café Joe Turner e Pete Johnson si davano, come sempre, da fare... ma quella sera, tra il pubblico, c'era anche John Hammond, il celebre produttore e impresario, da poco arrivato in città da New York per scritturare Basie e la sua orchestra. L'impressione prodotta su di lui dalla straordinaria e avvincente musica della Dodicesima Strada fu tale che, nell'estate dello stesso anno, i due si ritrovarono a suonare nella Grande Mela. Due anni più tardi, Big Joe e Pete Johnson vennero chiamati da Hammond a partecipare a quel memorabile evento che fu il concerto 'Spirituals to Swing' alla Carnegie Hall, con Count Basie, Sonny Terry, The Golden Gate Quartet, Big Bill Broonzy (che rimpiazzò all'ultimo momento Robert Johnson, assassinato pochi mesi prima - vedi l'intervista che segue), e con gli altri due grandi pianisti boogie, Albert Ammons e Meade 'Lux' Lewis. Il concerto, con la  fantastica esibizione alla tastiera di Ammons, Lewis, e Johnson e il canto di Big Joe Turner, segnò l'inizio del 'boogie craze',  revival del  genere musicale nato nella seconda metà degli anni '20. Big Joe divenne la 'voce ufficiale' del boogie woogie: una voce possente, forte, che tirava dritto senza badare a sottigliezze, complemento ideale per le incalzanti geometrie ritmiche dei bassi del piano, pilastro portante del Kansas City Style. 

Gli anni di New York furono un periodo particolarmente felice: le registrazioni per la Vocalion produssero numerosi hit, da 'Roll'em Pete' a 'Cherry Red', e un ingaggio durato quasi cinque anni al celebre Cafe Society procurò al duo Turner-Johnson una fama ancora maggiore. Nuove incisioni per la National, la Down Beat e la Freedom si susseguirono nel corso degli anni, in contesti che variavano dal piccolo combo alla grande band, mentre l'era dello swing si avviava al tramonto. Allo stesso modo, dopo una rapida ascesa, la carriera del Boss of the Blues viveva una fase discendente... Il Rhythm & Blues consacrava nuove star come Louis Jordan, Roy Brown, Wynonie Harris, e il panorama della musica americana del dopoguerra proponeva nuove direzioni.

Fu proprio in questo momento di difficoltà, dopo un infelice collaborazione con la band di Basie, che l'incontro con Ahmet Ertegun, proprietario della Atlantic Records, segnò l'inizio di una nuova fase della storia di Big Joe. L'idea di Ertegun - da sempre grande ammiratore di Turner e profondo conoscitore della musica nera - era semplice: sfruttare la straordinaria e lineare vocalità di Joe, e il suo senso ritmico, in contesti musicali che parlassero un po' meno di Jazz e un po' più di R&B: ciò non doveva necessariamente tradursi in ammiccamenti ai gusti dei teenagers di quei primi anni '50, ma in una musica senz'altro ballabile, sempre intrisa di blues ma al tempo stesso di 'facile' ascolto. Affiancato da musicisti di assoluto valore (tra cui il pianista Harry Van 'Piano Man' Walls e Sam 'The Man' Taylor), Joe incise alcuni tra i suoi più grandi successi: Chains Of Love ('51), Sweet Sixteen ('52), Crawdad Hole ('53), e soprattutto quella Shake Rattle & Roll ('54) diventata uno dei classici del Rock&Roll.  Accanto a brani spensierati come Lipstick, Powder and Paint, vengono registrati alcuni splendidi blues (Don't You Cry), nuovi incontri con vecchi amici come Pete Johnson (I Want a Little Girl) e ritorni al primo amore (Boogie Woogie Country Girl, Midnight Cannonball). L'album Big Joe rides Again (1960), realizzato in pieno KC style con l'apporto di artisti come Coleman Hawkins, segna anche la fine della collaborazione con la Atlantic, e l'inizio di una nuova fase difficile della sua carriera. 

Gli anni '60 e '70, lo sappiamo, sono stati difficili per il blues, e il Boss li ha attraversati con fatica. Un album con Count Basie (The Bosses, 1974), concerti qua e là, la scomparsa di Pete Johnson, i problemi di salute che lo costringono alle stampelle prima, alla sedia a rotelle poi. Nei primi anni Ottanta sono da ricordare l'incontro con il pianista boogie Axel Zwingenberger (Boogie Woogie Jubilee), e con i Roomful Of Blues (Blues Train), segno di un ritrovato interesse del pubblico per il Blues... Ma è ormai tardi per Big Joe, che muore nel 1985 nella sua casa di Inglewood, ultimo testimone di un'epoca davvero leggendaria, fatta di piano boogie, whisky di contrabbando, e di voci che non avevano bisogno di microfoni e vagonate di watt per farvi sobbalzare sulla sedia e scuotervi come un cocktail nello shaker del barman del Sunset Café, Dodicesima Strada, KC.

Nino Fazio

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