La Playmate del mese

GRETSCH DUO-JET, 1959

La storia delle piccole-grandi ‘solidbody’ della serie Jet è interessante sotto diversi aspetti: non soltanto ci consente di rivisitare gli anni più gloriosi della produzione chitarristica statunitense, ma ci permette anche di scoprire alcuni tra i tratti più caratteristici della particolare - e tutta americana – filosofia di casa Gretsch.

Siamo nella prima metà degli anni ’50, e il mondo della musica d’oltreoceano è in continuo e tumultuoso fermento: nuovi ritmi, nuovi idoli, nuovi sistemi e nuovi tempi nella diffusione della musica, nuove generazioni affamate di divertimento e spensieratezza post-war, nuovi strani strumenti che si affiancano alle seriose arch- e flat-top di consolidata tradizione. Certo, la scossa assestata al mercato dal successo delle prime Fender, guardate dapprima con distaccata sufficienza dalle più prestigiose Case produttrici, non era stata priva di conseguenze, e ora anche colossi come la Gibson e la Gretsch erano costrette a correre ai ripari.

La risposta della Casa di Kalamazoo era arrivata, decisa, con il modello Les Paul, che pur essendo in tutto e per tutto una solid-body voleva in qualche modo tenere le distanze dai nuovi arrivati di Fullerton, facendo pesare in dettagli come il manico incollato o il top intagliato l’esperienza di cinquant’anni di liuteria.

La strada scelta un paio d’anni dopo dalla Gretsch, anch’essa messa in qualche modo alle strette, era diversa, ma anch’essa in linea con una lunga tradizione: la forma dei nuovi modelli, presentati nel ’54, ricordava in certa misura le Les Paul con la singola spalla mancante, il manico incollato e la sagoma dalle dolci curve… Ma le differenze erano altrettanto notevoli: basta prendere in mano una Les Paul e una Duo Jet per apprezzare la notevole differenza di peso, dovuta al fatto che quest’ultima è in realtà una semi-solid-body. Il corpo, costituito come il manico da un unico pezzo di mogano, è ampiamente scavato al suo interno attorno all’alloggiamento dei pickup, con la creazione di un’ampia ‘camera tonale’ la cui valenza acustica è percepibile distintamente. Il top incurvato a caldo è costituito da un laminato a più strati di acero, mogano, pino e abete o ‘Nitron’, il materiale plastico usato dalla Gretsch nella produzione delle batterie, ed era incurvato a caldo.

La scelta delle finiture, in linea con la tradizione Gretsch, era indirizzata verso allestimenti piuttosto vistosi: la prima produzione Jet presentava il Nitron nero del modello 6128 Duo-Jet e il silver-sparkle, anch’esso ripreso dalle batterie, del modello 6129 Silver-Jet. Ad essi si unirono nel 1955 l’Oriental Red della Jet-Firebird, modello 6131, e le finiture western-orange della 6121 Chet Atkins solidbody e 6130 Roundup dal top in pino. Anche l’hardware contribuiva a conferire alle piccole Jet quel tocco di kitsch modernistico tipicamente Gretsch, fatto di gadget e manopole: senza arrivare all’attaccacorde a forma di cinturone werstern della Roundup, destinato a soddisfare il look machistico dei cowboy elettrici degli anni ’50, ogni Jet aveva il suo bel ponte ‘Melita’, arnese da boudoir sado-maso, l’attaccacorde cromato con la ‘G’, un selettore dei pickup, due volumi più un volume master, e un tono… E infine i pickup originali erano i piccoli DeArmond a bobina singola, ribattezzati nella colorita terminologia Gretsch nientemeno che "Dynasonic".

La chitarra che vedete in queste pagine, realizzata nel 1959, rappresenta in modo eccellente il successivo gradino dell’evoluzione della Duo-Jet. Nella paletta, il logo cosiddetto ‘T-Roof’ ha sostituito da tempo il logo in corsivo tipico dei primissimi anni, e la tastiera ‘neo-classica’ (sempre secondo la terminlogia Gretsch) in ebano con gli intarsi in pearloid a mezzaluna ha già sostiutito il palissandro brasiliano con larghi blocchi rettangolari dei primi esemplari, e i successivi intarsi ‘humptop’ resi famosi dalla chitarra di George Harrison (’57). Manico e corpo sono sempre in mogano, ma il Nitron del top è stato sostituito da una più tradizionale verniciatura nera. L’attaccacorde cromato si è allungato, e i controlli sul top si sono adeguati alla tendenza comune alle Gretsch del tempo: scomparso il relativo potenziometro, la regolazione dei toni è affidata ad un selettore posto accanto a quello dei pickup, mentre vengono mantenuti i potenziometri del volume master (sulla spalla mancante) e dei singoli pickup.

Ma l’aspetto al tempo stesso più sostanziale ed evidente dell’evoluzione della Duo-Jet che vi mostriamo nella nostra ‘vetrina vintage’ è rappresentato sicuramente dall’adozione dei nuovi pickup a doppia bobina ‘Filter-Trons’, elaborati per la Gretsch da Ray Butts nel 1958, e brevettati l’anno seguente. Seguendo la strada tracciata dal brevetto Gibson sugli humbuckers, frutto del lavoro di Seth Lover, Butts si mise immediatamente a ruota per individuare un sistema che permettesse di eliminare – o meglio, filtrare – il ronzìo tipico dei single-coil.

   

 Finchè il brevetto non venne ufficialmente riconosciuto, con un numero d’ordine più alto rispetto a quello Gibson che lascia pochi dubbi sui meriti dell’effettiva invenzione dell’ humbucker, anche i nuovi pickup a doppia bobina della Gretsch portarono incise le parole Pat. Appled For, o se preferite PAF.

La chitarra che vedete qui è proprio equipaggiata con questa primissima e rara versione del pickup che con i suoi dodici poli regolabili singolarmente e con il suo inconfondibile timbro ha contraddistinto centinaia di incisioni della storia del rock, del rockabilly e del country. Attorno ai PAF si trova per la prima volta la tipica cornicetta in plastica che accompagnerà la Gretsch per molti anni e che verrà adottata anche dalle chitarre equipaggiate con i single-coil ‘Hi-Lo Trons’ dotati di dimensioni analoghe agli humbuckers.

Imbracciando la Duo-Jet la sensazione immediata è di grande maneggevolezza, per il peso e le ridotte dimensioni. Il suono acustico è sorprendente, anche rispetto ad una semi-hollowbody più grande e con le ‘effe’. Con un timbro che taglia decisamente bassi e acuti estremi mantenendo un notevole volume può suggerire esperimenti intriganti in studio di registrazione.

Ma l’anima elettrica dei FilterTrons si libera collegando lo strumento ad un amplificatore valvolare: l’attacco è più secco rispetto al classico humbucker, e il suono meno ‘cantato’ e con minore sustain rispetto al PAF delle Gibson degli stessi anni. Anche l’output è inferiore, ma non è certo questa la caratteristica che viene più apprezzata in simili strumenti. L’inconfondibilità del suono, unita ad una estetica decisamente originale ed elegante, ne fanno un oggetto altamente desiderabile per valore musicale, storico e collezionistico… ammesso che sia possibile scinderli nel sempre più confuso, affollato e variopinto mondo degli appassionati del vintage!

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