La Playmate del mese

GIBSON L-5, 1930

Ripercorrere la storia della Gibson L-5 è un po’ come ricercare le radici della chitarra moderna. Siamo nei primi anni ’20, e la chitarra occupa un ruolo assai marginale nel panorama musicale americano: le piccole ‘parlour guitars’, le cosiddette chitarre da salotto dal delicato disegno e dal tenue e dolce suono delle corde di budello stentano a far sentire la propria voce in un mondo che risuona dello strepito degli ottoni del primo jazz. Il ritmo nelle band di New Orleans e Dixieland è sostenuto dal banjo che, pur non avendo una particolare ricchezza timbrica, perlomeno riesce a reggere il confronto col volume degli altri strumenti.

Ma il banjo, con le sue numerose varianti, non è il solo protagonista di quegli anni: strumenti come mandolino, mandola, mando-cello danno vita ad ensemble a plettro che godono di grande popolarità. Attorno a questi strumenti ferve la sperimentazione da parte dei liutai delle maggiori case americane: mentre la Martin, dalla già solida tradizione, prosegue imperterrita sulla strada delle flat-top, altre case come la Epiphone di New York, la Gibson stessa e la Weymann & Son di Philadelphia contribuiscono all’evoluzione degli altri strumenti a corda.

La Gibson, tuttavia, fu quella che concentrò maggiormente i propri sforzi sullo sviluppo della famiglia del mandolino. In questo c’era una ragione quasi ‘genetica’: Orville Gibson, ancora prima della nascita della Compagnia, aveva già esteso la tecnica dell’intaglio a mano del corpo degli strumenti a corda, derivata dalla tradizionale costruzione dei violini, anche agli strumenti a plettro. E così anche mandolini, mandole e chitarre Gibson si distinguevano per la tipica costruzione ad arch-top. Il definitivo passo in avanti fu consentito dagli studi di Lloyd Loar, musicista, inventore, ingegnere acustico e quant’altro: Loar aveva intuito che la costruzione ad arch-top non garantiva, da sola, un volume sufficientemente elevato agli strumenti a plettro. Fu proprio lui a concepire alcune radicali innovazioni, come la creazione di buche ad ‘f’ e la realizzazione di tastiere con la parte terminale sollevata rispetto al top, che veniva in questo modo reso maggiormente libero di vibrare, con un battipenna anch’esso sollevato e allineato con la tastiera in modo da non ostacolare le vibrazioni fornendo un comodo appoggio alla mano destra.

Nella concezione di Loar, però, la chitarra rappresentava solo uno dei tanti elementi della cosiddetta ‘mandolin family’, e certo non il principale. La linea di strumenti così concepita, designata dal numero 5, vedeva il suo punto di forza nel mandolino F-5 (reso poi celebre da artisti bluegrass come Bill Monroe); la L-5 era la chitarra del gruppo: il corpo era largo sedici pollici, il top era in abete con catene parallele, fasce e fondo in acero o betulla. Il manico era in acero con tastiera in ebano e diapason di 24 ¾", segnaposizione a punto e meccaniche argentate, come l’attaccacorde, con bottone in madreperla. Il battipenna sollevato era in celluloide, privo di binding. La L-5 era dotata anche del nuovo ‘truss-rod’ regolabile brevettato nel 1921, il cui accesso era celato da un semplice coperchio a campana in plastica nera sulla paletta. Quest’ultima aveva la classica forma a testa si serpente (da cui il nomignolo di ‘snakehead’ attribuito alla versione da 16" della L-5), ed era decorata dall’intarsio in madreperla che ancora oggi costituisce il tratto distintivo dello strumento, sotto il logo "The Gibson" in corsivo, sempre in madreperla. All’interno del corpo, in molti casi, si trovava sospesa una sorta di seconda tavola armonica, brevettata dai fratelli Virzì, liutai di origine palermitana (!), detta appunto Virzi-Tone Producer, la cui efficacia nell’amplificare il suono prodotto suscitava in tutti – fuorchè nel granitico Lloyd Loar - fortissime perplessità.

Nella sua austera semplicità, la nuova chitarra di casa Gibson aveva già in sé tutti gli elementi di innovazione e genialità che ne avrebbero fatto l’archètipo di tutte le chitarre arch-top. Ma il successo della creazione di Loar non fu immediato: per certi versi in anticipo rispetto ai tempi, la L-5 rivelò poi essere l’ideale strumento per una musica ancora di là da venire: il jazz delle Big Band. Quando negli anni ’30 il suono metallico del banjo rivelò dei confini troppo angusti per la creatività musicale dei musicisti impegnati in ensemble jazzistici e di musica da ballo, la archtop con le effe fu in grado di contribuire alla voce dello swing con un insieme di volume e ricchezza timbrica mai sperimentato fino ad allora. Strumento ritmico per eccellenza, ma dalle potenzialità solistiche rivelate appieno dagli storici duetti di Eddie Lang e Lonnie Johnson, la piccola L-5 da 16 pollici ebbe anche un ruolo nella musica country tra le braccia di Maybelle Carter, icona americana tra le più venerate.

Le trasformazioni del modello nel corso degli anni videro l’adozione di segnatasti in pearloid, la dotazione di hardware dorato e binding sempre più ricco, e soprattutto l’incremento delle dimensioni della cassa nella seconda metà degli anni ’30 accompagnata dalla nuova forma della paletta: la nuova versione ‘advanced’ da 17 pollici si distingueva anche per il massiccio attaccacorde in metallo dorato e la scala lunga da 25 ½". L’introduzione della L-5 Premier con spalla mancante nel 1939 e della finitura natural nello stesso anno, segnarono la trasformazione definitiva del modello in uno strumento sempre più ‘moderno’, concepito per un produrre un volume ancora superiore e per mettere a disposizione del solista tutta la tastiera, preludio all’introduzione della L-5 CES elettrica nel 1951, che rappresenta ancora oggi il simbolo stesso della qualità Gibson.

   

La chitarra che vi presentiamo su queste pagine è stata costruita nel 1930, anno in cui la tastiera in ebano con intarsi a larghi blocchi in pearloid aveva perso la terminazione appuntita. La paletta è ancora a testa di serpente, con il logo ‘The Gibson’, che avrebbe… perso l’articolo l’anno seguente. Il manico ha una pronunciata forma a V, ed è in due pezzi di acero fiammato, così come il fondo dalle spettacolari venature e le fasce. Il top in abete rivela la accurata finitura sunburst, e colpisce la leggerezza e semplicità di dettagli come il ponticello in ebano e l’attaccacorde a trapezio in metallo dorato. Le meccaniche sono le classiche Grover Sta-Tites, adottate anche da D’Angelico, e a distanza di oltre settant’anni dalla loro installazione continuano a funzionare senza problemi. Sì, perché lungi dall’essere un ‘pezzo da museo’, la L-5 da 16" è strumento più che mai suonabile, dalla action assolutamente agevole, dalle dimensioni confortevoli e dal suono splendidamente bilanciato, che è possibile apprezzare appieno in sala di registrazione. Una scoperta inaspettata è stata proprio la sua adattabilità alla musica eseguita in finger-picking, e in particolare al country blues, che sembra ritrovare nei vecchi legni della L-5 acustica un supporto di entusiasmo e calorosa partecipazione, dettato forse dalla comune e veneranda età.

Nino Fazio