La Playmate del mese
NATIONAL
STYLE 0, 1933
NATIONAL TRIOLIAN, 1932
Per
il nostro angolo del vintage di questo mese faremo un bel salto indietro nel
tempo fino ai ruggenti anni ’20. La diffusione della musica attraverso i
dischi e i primi grammofoni ne aveva affermato in modo progressivo ma radicale
la caratteristica di “arte di massa”, in grado di coinvolgere un pubblico
sempre più vasto ed eterogeneo, che non aveva più bisogno di recarsi al teatro
per ascoltare gli artisti, né di aspettare nelle piazze l’arrivo degli
spettacoli itineranti. Più musica, e soprattutto più musica per tutti.
E
proprio attorno a questo fenomeno un’America forte di un ottimismo non ancora
frenato dallo spettro della Depressione si apriva all’ascolto e alla creazione
di nuovi linguaggi musicali, in cui una forte componente era rappresentata dalla
matrice popolare (nera e bianca), scatenandosi alla ricerca di innovazioni
tecnologiche che potessero produrre nuovi strumenti e nuovi sistemi di
diffusione al passo con le aspettative del pubblico e con le nuove esigenze
espressive degli artisti.
All’inizio
della nostra storia troviamo proprio un giovane musicista di vaudeville
nato in Texas nei primi anni del secolo scorso, George Beauchamp.
Forte bevitore e abile suonatore di chitarra hawaiiana, Beauchamp era
anche una mente creativa con una spiccata tendenza a cogliere le
necessità degli altri musicisti che con lui dividevano gli entusiasmi
e le frustrazioni di quella nuova era in cui gli strumenti a corda
faticavano ad emergere in contesto orchestrale. Il suo chiodo fisso
era quello di creare una chitarra che fosse in grado di raggiungere
senza difficoltà gli ascoltatori e i microfoni per le registrazioni
anche nelle situazioni più “affollate”. Sì, il banjo ci
riusciva, e aveva vissuto una lunga stagione di popolarità fino alla
metà degli anni ‘20, ma non possedeva la ricchezza timbrica della
chitarra ed era ormai in declino nei gusti dei musicisti
americani. |
La
soluzione in entrambi i casi era rappresentata dalla trasmissione
delle vibrazione delle corde, attraverso il ponte posto su un disco in
legno chiamato “biscuit” (a forma di galletta, appunto), ad un
cono in alluminio del quale il biscuit era alla sommità, rivolto
verso il fondo della chitarra. Il cono, vibrando esattamente come il woofer
di un altoparlante, amplificava il suono. Il corpo stesso dello
strumento era in metallo, per esaltare il volume e la definizione. E
così nel lontano 1927 nacque la National
String Instrument Corporation, che vedeva associati Beauchamp e
Dopyera con Paul Barth e Ted Kleinmeyer. Il boom commerciale fu
immediato, grazie all’esplosione di popolarità di cui godeva la
musica hawaiiana, i cui protagonisti (Sol Hoopii su tutti) trassero
dal volume e sustain delle National i suoni per cui sono ancora oggi
ricordati. La storia dei dissapori interni alla Compagnia, che
portarono nel ’29 alla nascita della Dobro
(DOpyera BROthers), è nota e non ci soffermeremo oltre sull’argomento. Ci
interessa maggiormente approfondire gli aspetti musicali di questa
storia.
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Un
sostegno inatteso alla diffusione delle chitarre resofoniche giunse dall’altra
America, non quella delle sale da ballo e delle atmosfere sognanti della musica
hawaiiana, non quella dell’entusiasmo per bolla di sapone dell’illusorio
sviluppo economico, di Hollywood e delle spiagge di Waikiki. La National divenne
la voce dell’America che viaggiava negli spazi posteriori dei Greyhound e sui
treni merci, che si ritrovava al Sabato nei juke
joints a bere pessimo whisky e mangiare panini col pesce fritto dopo una
settimana passata a raccogliere cotone. L’America Nera, l’America del Blues.
Certo, il bluesman non poteva permettersi le National più elaborate come le Style
3 o Style 4, a tre coni e con raffinate incisioni. Ma gli strumenti più
economici a singolo cono come i Duolian
o i Triolian erano sufficientemente a
buon mercato per poter percorrere le strade del Delta e sufficientemente potenti
per “tagliare” la folla e il baccano delle bettole o il frastuono della
strada. Son House, Bukka White e molti altri ancora scrissero le più
leggendarie pagine della Musica del Diavolo facendo scivolare il proprio slide
sulle corde di un Duolian, creando un
suono che ancora oggi è leggenda, ma altri artisti neri lontani dal Delta come
Blind Boy Fuller riuscirono a raggiungere la notorietà suonando anche blues più
elaborati e ragtime sulle chitarre
resofoniche. Molti di questi, per la maggior parte del tempo, suonavano
direttamente nella strada, agli angoli dei palazzi o nei mercati all’aperto,
oltre alle serate di fine-settimana nei juke
joints. E in queste situazioni rumorose le National davano il meglio di sé,
in un’era in cui le chitarre elettriche non esistevano ancora.
In queste pagine vedete due National degli anni ’30. Se entrambe adottano lo stesso sistema a singolo cono, si differenziano per il materiale con cui sono realizzate, che poi influisce non poco sulle qualità timbriche. La Triolian del 1932 ha il corpo in acciaio verniciato, e sul fondo presenta dei disegni aerografati di ispirazione hawaiiana. La Style 0 del 1933 è invece in ottone nichelato, e i disegni sono più elaborati e realizzati con la tecnica della sabbiatura. L’attacco delle note è più accentuato sulla Triolian, e il suono complessivo è più brillante e aspro. La Style 0, una via di mezzo tra le resofoniche più economiche in acciaio e le raffinate chitarre a tre coni (tutte in ottone nichelato), ha invece un suono più “cantato”, con minore attacco e maggiore sustain. Entrambe producono un volume sensibilmente più alto rispetto ad una chitarra “normale”, e perfino per noi – oggi perennemente storditi dal volume di Les Paul e Marshall - non è difficile immaginare la sensazione che tali strumenti debbono avere creato al momento della loro introduzione sul mercato.I
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La mancanza di truss rod (da poco brevettato dalla Gibson) portava i costruttori a realizzare dei manici imponenti, e chi desidera avventurarsi in territori extra-slide con questi strumenti forse incontrerà all’inizio qualche difficoltà, anche per le tastiere un po’ piatte e con tasti molto sottili. Inoltre c’è da dire che è sempre più raro trovare vecchie chitarre resofoniche che non abbiano problemi di manico incurvato per la tensione delle grosse corde utilizzate negli anni ’20 e ’30. Ma se si sceglie con attenzione, questi strumenti rivelano una voce unica, che parla inconfondibilmente di blues e di antico, e che – per qualche alchimia a me ignota – non si ritrova sulle nuove curatissime versioni che sono oggi in produzione. Suggestione? Forse, ma quante storie e quanti locali, quanto alcool e quanto fumo, quante emozioni, quante risate e quante lacrime hanno lasciato la loro impronta nella storia, nella vita e nella voce forte e sincera di queste vecchie chitarre?