Bozza Gennaio 2005
Nuove infrastrutture per i
trasporti
Il quadro globale
La possibilità di trasportare rapidamente ingenti volumi di
merci fra i diversi luoghi del pianeta è uno dei presupposti su cui si basa
l’attuale capitalismo globale, essendo un requisito fondamentale sia per il
funzionamento del sistema produttivo frammentato su vari Paesi, sia per il
conseguimento di un’efficiente distribuzione finale dei prodotti tipici del
consumismo omologato.
Le infrastrutture per i trasporti rappresentano allora un
fondamento strategico per la realizzazione del profitto delle grandi aziende
transnazionali: consentono infatti di dislocare le varie fasi della produzione
nei luoghi in cui può essere più elevato lo sfruttamento della forza lavoro e
meno stringente il controllo sull’impatto ambientale; queste vie di
comunicazione ideali per gli interessi elitari di profitto delle multinazionali
sono corridoi di transito sulle lunghe distanze, adatti a trasportare
soprattutto merci e qualche raro top-manager tra i remoti terminali delle
organizzazioni aziendali. Simili collegamenti non offrono, per contro, alcuna
risposta alle esigenze del 99% delle popolazioni che quotidianamente necessitano
di brevi spostamenti locali per motivi di studio, lavoro, cure parentali.
La politica di investire risorse necessariamente cospicue
in nuovi collegamenti infrastrutturali adatti al ruolo di colonne portanti del
neoliberismo porta con sè scelte di campo già molto nette: significa favorire la
delocalizzazione delle aziende maggiori, e quindi anche assecondare le crisi da
deindustrializzazione per alcuni territori; significa privilegiare le produzioni
globali omologate rispetto a quelle tipiche locali; significa dedicare grandi
quantità di energia prima alla realizzazione delle opere e poi al loro
esercizio, il tutto con la finalità di dare efficienza produttiva alle imprese
transnazionali.
La costruzione di simili grandi infrastrutture è assai
complessa, richiede molti anni e perciò comporta tempi di ritorno degli
investimenti così lunghi da scoraggiare qualsiasi finanziatore privato; occorre
allora considerare che l’indispensabile ricorso al denaro pubblico determinerà
pure delle ulteriori implicazioni a medio-lungo termine sulle prospettive
economico-sociali: investire ingenti risorse dello Stato nel cemento e nel ferro
significa disinvestire nella formazione e nella ricerca di comparti
tecnologicamente più avanzati, comporta di tagliare ulteriormente la spesa
pubblica per la sanità, la previdenza, la scuola.
L’opzione delle “grandi opere” si traduce dunque, in ultima
analisi, nel penalizzare per un lungo periodo i bisogni primari di tanti
cittadini favorendo i profitti a breve di pochi imprenditori.
Infrastrutture con le caratteristiche descritte comportano
sempre un devastante impatto ambientale e sociale sui territori attraversati sia
in fase di realizzazione, sia di esercizio: la loro natura di corridoi di
transito, i requisiti connessi all’elevata velocità richiesta, il frequente
faraonico sovradimensionamento sono caratteri che ne aggravano notevolmente
l’impronta ecologica: possenti massicciate, trincee, viadotti, ponti, gallerie
trasformano il paesaggio, infieriscono sulla fauna e sulla flora, compromettono
l’abitabilità del territorio, le attività agricole e zootecniche locali, portano
severe minacce alla salute degli abitanti.
Consci (non possiamo presumere diversamente) di tutte
queste implicazioni, i politici eletti a livello europeo, nazionale, regionale e
provinciale sono sostanzialmente tutti concordi nell’operare senza esitazione la
scelta in favore di nuove, grandi infrastrutture; l’accusa che rimbalza tra i
diversi schieramenti semmai quella che le compagini avverse non sono abbastanza
determinate e rapide nell’attuazione dei relativi progetti.
Le reti trans-europee
Fin dal 1994 le istituzioni europee si sono riproposte di
svolgere una funzione di coordinamento continentale nella definizione di un
programma organico di nuove opere infrastrutturali per i trasporti (TEN-T: Trans
European Network – Transport):
tappe significative sono state il libro Bianco sulla politica dei trasporti
della Commissione UE ed il processo di definizione delle priorità del “gruppo di
lavoro Van Miert”, finalizzato a concedere finanziamenti comunitari (20% sui
preventivi) alle infrastrutture strategiche per gli interessi europei. Ne è
scaturita (nel 2003-2004) una lista di 30 opere ritenute prioritarie, che consta
principalmente di corridoi di transito multimodali (ferrovia ed autostrada
abbinate), ma questo faticoso e fragile equilibrio è stato presto travolto dalle
pressioni delle lobby politico-imprenditoriali dei vari Stati, indipendentemente
dal colore dei loro governi.
Il modello delle “grandi opere” in Italia
In Italia i governi di centro-sinistra e centro-destra che
si sono succeduti a partire dai primi anni ’90 hanno continuamente gareggiato
nel sostenere le proposte di nuove autostrade, ferrovie, ponti sugli stretti e
trafori nelle Alpi e negli Appennini.
Emblematica di questo complesso di opere è la progettata
nuova rete ferroviaria ad alta velocità-alta capacità (TAV-TAC)
che comprende tre dorsali principali: la nord-sud (Milano-Palermo, tratta che
concorre anche a giustificare l’esigenza del ponte di Messina, appartenente al
Corridoio Europeo 1 che va dalla Germania alla Sicilia); la est-ovest
(Moncenisio-Trieste, parte del Corridoio 5 che va dal Portogallo all’Ucraina);
la Genova-Sempione (parte del Corridoio interportuale con Rotterdam, che va dal
Mediterraneo al Mare del Nord).
Gli investimenti richiesti dalla sola rete TAV in Italia
sono impressionanti: si parla di una stima intorno ai 57 Miliardi di euro (oltre
110 Mila Miliardi di vecchie Lire), ma molti costi preventivati 13 anni fa
risultano quintuplicati già oggi, quando alla realizzazione di alcune tratte
mancano almeno altri 15-20 anni.
Si tratta dunque effettivamente di una grande opera
epocale, nel senso che comporta un arco temporale di realizzazione di circa 30
anni ed un indebitamento pubblico così ingente da dover essere sanato
successivamente in un periodo di 30-50 anni con esborso a carico degli attuali
contribuenti, dei loro figli e nipoti.
Un regime dominato da potenti lobby senza etica e democrzia
Per poter supportare l’immane impresa non si è esitato a
stravolgere la legislazione nazionale in materia di opere pubbliche nella
sostanziale concordia, salvo diverse sfumature di stile, di quasi tutte le forze
politiche con la sola esclusione di Verdi e Rifondazione.
Sono state emanate nuove norme (come la Legge Obiettivo)
che evitano alle “opere strategiche” di sottostare a stringenti procedure di
Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) in fase di progetto definitivo e che in
pratica sottraggono alla partecipazione democratica di cittadini, Comuni e
Province l’intero iter progettuale. Sono state create nuove aziende pubbliche
ad-hoc come la Infrastrutture s.p.a. (ISPA) e la Patrimonio s.p.a., necessarie a
dar vita ad architetture finanziarie creative capaci di proiettare in forme più
o meno mascherate il debito pubblico garantito dallo Stato sulle future
generazioni. E’ stata ricavata un’ambigua “terra di nessuno” tra pubblico e
privato dove insediare nuove figure di comodo come il General Contractor (che in
totale mancanza di trasparenza gode di tutti i poteri decisionali sull’opera
senza assumere in proprio alcun rischio economico) e dove ospitare i conseguenti
artificiosi meccanismi di investimento (Project-financing).
Si è data legittimità al conflitto di interessi fino ai più alti livelli
istituzionali, come testimonia in questo settore il caso della famiglia
Lunardi.
A valle di tutto ciò, e nonostante alcune nuove norme
scaturite dallo stravolgimento contrastino palesemente con il quadro di regole
europeo in tema di opere pubbliche (il che causa già l’aperura di procedure di
infrazione contro il nostro Governo), nel 2005 l’Italia deve ancora trovare la
faccia tosta per proporre la revisione dei limiti imposti al passivo del
bilancio statale dagli accordi di Maastricht, essendo chiaro che i cospicui
investimenti pubblici in infrastrutture provocherebbero comunque per vari anni
un deficit ben maggiore del consentito.
La storia dell’alta velocità italiana è dunque anche la
storia del progressivo abbattimento di un sistema di garanzie pubbliche, ad
esclusivo sicuro vantaggio di imprenditori delle costruzioni, politici corrotti,
tangentisti, mafiosi; tre libri raccontano magistralmente la progressione di
questa metamorfosi epocale attuata dagli anni ’90 ad oggi, pescando spesso dalla
cronaca giudiziaria e dalle indagini della Commissione Antimafia: Corruzione
ad alta velocità di F.Imposimato (KOINè nuove edizioni);
La storia del futuro di tangentopoli di I.Cicconi (DEI-Tipografia del
Genio Civile); Le grandi opere del Cavaliere, di I.Cicconi (KOINè nuove
edizioni).
Il quadro delineato dalla documentata analisi contenuta in questi testi mostra
in tutta la sua gravità l’involuzione della democrazia causata
dall’assoggettamento della politica agli interessi dei poteri imprenditoriali
forti ed evidenzia la portata del gioco d’azzardo finanziario organizzato sulle
spalle dei contribuenti.
Principi di una “nuova resistenza”
Il dato tragico è che a contrastare un simile disegno
eversivo, una simile follia economica oggi siamo rimasti in pochi: alcune
amministrazioni comunali dei territori interessati dalle opere, vari comitati
spontanei di cittadini, associazioni ambientaliste, alcune correnti del partito
dei Verdi e di Rifondazione Comunista.
Opporsi alla realizzazione delle più assurde “grandi opere”
vuole dire impegnarsi, sul piano generale, a lottare contro una prospettiva di
ulteriore deriva democratica, contro un’elevata probabilità di prossima
bancarotta dello Stato, contro l’ipotesi del conseguente totale svuotamento dei
servizi pubblici primari e del welfare; vuole anche dire tutelare l’interesse
generale della collettività e delle future generazioni difendendo l’ambiente ed
il territorio da danni irreversibili che non possono essere giustificati in nome
dell’arricchimento di pochi.
L’intero arco dei promotori di nuove grandi infrastrutture
sostiene che 15-20 anni della relativa cantieristica rappresenterebbero
nell’immediato futuro il principale sostegno all’economia nazionale ed europea
nella direzione di un rilancio dello sviluppo tradizionalmente inteso.
E’ pur vero che negli anni ‘50-’60 la realizzazione di
opere pubbliche ha rivestito una funzione di questo genere, ma non è affatto
detto che la storia si ripeta nell’attuale fase assai diversa dell’economia
occidentale, caratterizzata dalla fine del ciclo industriale, quando indebitare
lo Stato per decenni a livelli pazzeschi potrebbe invece comportare il rischio
di aggravare la situazione fino al tracollo. Di certo, poi, i posti di lavoro
creati dall’economia delle “grandi opere” non sarebbero affatto in grado di
compensare, per qualità, quantità e durata, quelli persi nell’industria: è
ampiamente dimostrato che i cantieri generano occupazione precaria,
caratterizzata dall’impiego di manodopera immigrata a bassa specializzazione ed
a rischio di elevato sfruttamento in condizioni di scarsa sicurezza.
Molti fra coloro che si oppongono alla scelta di regime
delle grandi opere infrastrutturali ritengono non sia più proponibile perseguire
ulteriormente il modello di sviluppo basato sul consumismo che divora energia e
materie prime trasformandole rapidamente in rifiuti ed emissioni inquinanti; di
conseguenza pensano che si debba porre un limite anche alla tendenza alla
movimentazione esasperata delle merci, che sia necessario definire il sistema di
mobilità sulla base delle esigenze dei cittadini, privilegiando i mezzi di
trasporto pubblici e la ferrovia in particolare: se non si tagliassero
continuamente le risorse per la manutenzione e la sicurezza, se non si
chiudessero continuamente linee periferiche dopo periodi di trascuratezza, ma se
al contrario si ammodernassero e potenziassero le opportune tratte si potrebbe,
con investimenti ragionevoli, ottenere a breve il risultato di avere una rete
ferroviaria capillare ed efficiente, capace anche di trasportare una quantità di
merci maggiore dell’attuale, magari ad una velocità un po’ minore, ma tuttavia
adeguata a stili di vita e di consumo più sobri e sostenibili di quelli
immaginati dai fautori dello sviluppo infinito.