Giovanni Russo Spena
Mauro Palma
Germano Monti

Democrazia
e
Giustizialismo

 

RGF
EDITORE


ISBN 88-86821-02-6

Distribuzione: Diest
V. G. Cavalcanti, 11
10132 - Torino
Tel. 011/8981164

 
Della stessa collana:
G. Monti - Pena di morte all'italiana
A. Salerni - Mi faccio un Cobas: istruzioni per l'uso
F. Ragusa - Referendum abrogativo: democrazia diretta o eccesso di delega?
 

Finito di stampare nell'Aprile 1995
Centro Stampa De Vittoria
Via degli Aurunci, 19 - 00185 Roma


RETRO di copertina

Democrazia non delegata, garantismo, rivoluzione fiscale. Sono soltanto alcuni dei cavalli di battaglia della sinistra, o almeno lo erano fino a poco tempo fa.
Fino a quando il Governo delle destre se ne è appropriato per i suoi scopi, senza che, dall'altra parte, si sia riusciti a mostrare il carattere strumentale di tutta l'operazione.
Basterebbe ricordare, ad esempio, quanto avvenuto con il Decreto Biondi: un colpo di spugna mascherato con i panni del garantismo al quale la sinistra rispose, perlopiù, con una reazione forcaiola.
Una risposta dettata da una legittima richiesta di giustizia, ma forcaiola perché non si pose il problema di dimostrare che proprio sul piano del garantismo quel decreto non andava, e che proprio sul garantismo si era disponibili ad ingaggiare il confronto.
 
Lo scopo di questi lavori è quello di cercare di riaprire la discussione intorno a questi temi, per non lasciare in mano alle destre un patrimonio storico che non gli è mai appartenuto e che, come si è visto, potrebbero soltanto manipolare.
 


Premessa
     Ringrazio Giovanni Russo Spena, Mauro Palma e Germano Monti per aver accettato l'invito a partecipare a questa sorta di dialogo a distanza, fatto di contributi (i primi, spero, di una lunga serie) su questioni rispetto alle quali la sinistra sembra aver perso ogni orizzonte di programma strategico, limitandosi, il più delle volte, a conformare le proprie scelte politiche alle spinte emotive, occasionali, dell'opinione pubblica.
Tutto è nato, da parte mia, dal vedere che per ogni "domanda politica" si risponde sempre, ormai, soltanto in termini emergenziali; e di tutte le "emergenze", quella sulla giustizia è una di quelle che non fa più neanche scalpore.
     L'adattabilità umana non conosce limiti, per cui il sistema giuridico italiano può tranquillamente sopravvivere nonostante non riesca più a rispondere a qualsiasi logica.
Ogni tanto il problema risalta agli occhi, se ne parla come di un qualcosa che va cambiato a tutti i costi; per poi tornare nel limbo delle cose che sì, non vanno bene, ma si sa, "il mondo gira così". Anche perché, ogni qual volta il potere politico ha cercato di porre mano alla questione, lo ha fatto, più che altro, strumentalmente; e per un corpo sociale che ha già tanti problemi da risolvere per il vivere quotidiano, il rischio di cadere dalla padella nella brace produce, quando va bene, un pericoloso immobilismo.
Un esempio di ciò lo abbiamo avuto con quanto avvenuto con il decreto Biondi: un'azione strumentale mascherata con i panni del garantismo alla quale si rispose soltanto, però, con una reazione forcaiola.
Una risposta dettata da una legittima richiesta di giustizia, ma forcaiola perché non si pose il problema di dimostrare che proprio sul piano del garantismo quel decreto non andava, e che proprio sul garantismo si era invece disponibili ad ingaggiare il confronto: perché è soltanto attraverso un chiaro sistema di garanzie che si poteva e si può sperare di ottenere giustizia.
     In sostanza, il decreto Biondi non interveniva affatto sui principi ispiratori della "custodia cautelare" (tristemente nota come carcerazione preventiva), ma si limitava a riconsiderarne i livelli d'applicazione per alcuni "specifici" reati, attraverso una sorta di declassificazione degli stessi ed un giudizio sulla loro "natura" che permetteva di ritenere come "non socialmente pericoloso" il soggetto indagato: reati non "meritevoli", insomma, a differenza di altri, degli stessi livelli d'intervento delle "misure di sicurezza".
Alla resa dei conti, un "presunto colpevole" di reati ritenuti "comunque violenti, oltraggiosi", comprendendo in questi soprattutto quelli classici della microcriminalità, andava, e va tutt'oggi considerato meno degno di tutela giuridica, e quindi di fatto meno innocente di un "presunto colpevole" per reati tipo quelli contro l'amministrazione (una sorta di reato "pulito"... da gentiluomini?).
E un domani, una volta assorbito da parte dell'opinione pubblica questo concetto di "non pericolosità", contrapposto ad un qualcosa di più pericoloso, di un qualcosa meno degno di tutela, ci saremmo sicuramente trovati a dover rispondere all'ovvia domanda: perché mai insistere su Tangentopoli? E visti gli effetti negativi sull'economia del Paese... ma ci conviene?!
     È chiaro che, visti anche i brutti tempi nei quali viviamo (di scarsa riflessione, in piena sintonia con la logica maggioritaria della rappresentatività), non si può certo sperare di poter risolvere in un batter d'occhio la spinosa questione della custodia cautelare; ma anziché chiudersi a riccio in difesa di qualcosa di indifendibile, senza peraltro proporre null'altro di concreto, sarebbe bastato porre come inderogabile la soluzione di tutti quei "problemi tecnico-funzionali" (uscendo dalla logica, però, che si ostina ad individuare questi problemi nei meccanismi di garanzia della difesa, come se fossero questi l'intralcio al regolare svolgimento dei processi), dietro ai quali ci si nasconde per giustificare i lunghi ed incerti tempi dell'azione giudiziaria, per mettere con le spalle al muro chi si stava soltanto preoccupando di favorire parenti ed amici di bottega.
Per questi ultimi, infatti, l'unica soluzione al problema è proprio quella di riuscire a trovare il modo di non far svolgere i processi, di chiuderli in qualche modo, non di far sì che si possano svolgere in tempi decenti. E qualsiasi mezzo è buono, a partire da tutte quelle proposte che prevedono al loro interno le più diverse forme di patteggiamento e che sembrano proprio ideate per non andare al fondo delle cose.
Questa, comunque, aveva l'intenzione di essere soltanto una premessa, non alla singola questione, ma alle questioni rispetto alle quali oggi si vede la sinistra soffrire di mancanza di argomenti, di programmi, di fronte alla retorica ed alla demagogia portata avanti dalle destre.
Mi sono invece spinto oltre questa intenzione: lo si prenda come un ulteriore piccolo contributo al dibattito.
Riguardo, infine, alla sequenza degli interventi, non è stata privilegiata nessuna scelta editoriale e ci si è affidati alla casualità dei tempi di arrivo del materiale.

L'editore


Giovanni Russo Spena

"Questione penale"
e
democrazia autoritaria

Le vicende italiane degli ultimi anni hanno determinato l'irrompere della "questione penale" come centrale rispetto alla "governabilità" del sistema in una fase, delicatissima e convulsa, di transizione istituzionale.
Non amo le semplificazioni; adotto, solo per facilità interpretativa, la categoria di "passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica", diventata linguaggio comune della politica di Palazzo, all'interno della quale l'aggettivo "nuovo", contrapposto all'aggettivo "vecchio", ha assunto un ruolo quasi orgiastico e salvifico, che copre, in realtà, ricette liberiste.
All'interno di questa fase di transizione l'opinione pubblica chiede, da un lato, una ulteriore estensione della sfera dell'intervento penale (che dovrebbe sostituirsi, anche nella gestione del territorio, dell'apparato produttivo, degli assetti economico/sociali, alla normale dialettica tra i poteri costituzionali) e, dall'altro, contemporaneamente e contraddittoriamente, un arretramento dell'azione penale per permettere il pieno sviluppo dell'attività economica che, dal controllo penale stesso, sarebbe stato gravemente intralciato. A quest'ultimo filone risalgono le varie proposte di "uscita da tangentopoli", le varie forme di "patteggiamento" proposte, la soluzione propugnata da magistrati della Procura di Milano al convegno di Cernobbio (una proposta scritta da magistrati insieme ad avvocati di industriali e finanzieri inquisisti che, al di là del merito, non condivisibile, si è prospettata, nel metodo, come forma pericolosa, dannosa, di penetrante consociativismo tra magistratura penale e "poteri forti" confindustriali).
Non vi è dubbio, ed è un punto molto rilevante, che la magistratura, in questi ultimi tre anni, di fronte all'allarmante "vuoto della politica", sempre più sia stata costretta ad assumere un ruolo di supplenza che non ha certamente giovato alla sua stessa credibilità. Non inganni la popolarità di cui oggi godono i magistrati più famosi; a lungo andare il ruolo della magistratura verrà sempre più individuato come interno alla "partita" dello scontro politico, una "partita", peraltro, "truccata"; ne soffrirà la credibilità dell'istituzione.
La magistratura ha svolto, in questi anni, un indubbio compito di riabilitazione della legalità (mettendo in crisi settori di ceto politico del vecchio sistema) e di controllo della legalità nell'esercizio delle pubbliche funzioni; nel contempo, però, tale delicato e vasto campo di indagine non ha potuto avere, come necessario contrappeso in uno Stato di diritto, un adeguato sistema di garanzie. Ha ragione Ferrajoli, il quale ammonisce che ai magistrati non servono acritiche, entusiastiche (e, a volta, strumentali) adesioni; ma, egli argomenta, "alta e attenta deve essere la critica pubblica delle prassi giudiziarie, contrappeso necessario dell'indipendenza dei giudici e principale fattore della loro responsabilizzazione".
Siamo stati spettatori desolati, in questi ultimi mesi, dell'arroganza verso (e contro) le regole costituzionali e di diritto da parte del berlusconismo, di un conflitto tra "nuovo" potere politico e magistratura tendente ad imbavagliare quest'ultima; ma anche di una operazione della magistratura spesso guidata dalla grande stampa e tesa ad invadere il terreno politico. Sono fenomeni preoccupanti giuridicamente e politicamente; non li amo perché alludono entrambi, in ogni caso, a possibili, ulteriori svolte autoritarie.
Sulla magistratura penale, in particolare, ampi settori dell'opinione pubblica hanno caricato, indebitamente, ingenue speranze di rigenerazione; il giustizialismo è da evitare accuratamente, soprattutto in fasi storiche come l'attuale, perché è, al fondo, dannoso per la stessa magistratura; illudersi di eliminare il "nemico" politico attraverso i magistrati è, nello stesso tempo, la negazione sia della giustizia, sia della politica (intesa in senso "alto").
Non a caso qualche mese fa Cossiga ha scritto (ed io non sono per nulla d'accordo) che i magistrati sono i "nuovi fondatori" della "rinascita della nazione Italia". Essi sono "buoni padri di famiglia", giusti e vendicativi, buoni e popolani (pensava a Di Pietro?).
Come non vedere, in questi giudizi, un fondo culturale ambiguo, possibile cemento di una svolta populista e reazionaria di massa, di cui già nel berlusconismo vi sono tanti pericolosi germi?
Vi è una visione patriarcale dello Stato, una sconfitta del protagonismo di massa, una alienazione politica di massa. Ha, giustamente, scritto Rodotà: "non vorremmo che l'attuale crisi di democrazia ci riportasse, anche attraverso la figura dei giudici vendicatori, all'indietro, in un passato paternalista e totalitario". Guai ad assecondare, dentro una crisi che rende deboli, confusi, impotenti, il bisogno dell'uomo giusto e forte come punto unico di riferimento, di fronte alla perdita del senso collettivo di sé da parte della società! Rischiamo forme di "plebiscitarismo", peraltro molto mediocre!
Nell'attività sacrosanta della magistratura contro i politici corrotti non riesco a vedere nessun processo "rivoluzionario", come amano sostenere Corriere della Sera e Repubblica: essa, in realtà, si inserisce in un processo di cambiamento che tende al rafforzamento delle classi economiche dirigenti. Anzi, ne è funzione ed accelerazione.
Il capitale ha avvertito la necessità, dopo la fine del bipolarismo, all'interno di una crisi grave e complessa di sovrapproduzione, di un drastico mutamento di ceto politico: l'interclassismo democristiano, il regime DC-PSI costavano, ormai, troppo al capitale in termini di "conquista del consenso". Occorreva ristrutturare il sistema politico, ristrutturare il sistema di poteri, distruggere i partiti (ormai troppo esosi, famelici, costosi); l'introduzione del sistema maggioritario uninominale nella formazione delle rappresentanze è stato un aspetto di questa operazione; ma anche l'opera della Magistratura si iscrive oggettivamente dentro questo processo di ristrutturazione capitalistica, il cui esito rischia di essere un ampio disegno di ricomposizione neo autoritaria pilotata dalle classi dirigenti dell'economia italiana.
È un'operazione politica vasta e complessa, che incide sugli assetti economico/sociali, ma anche sugli assetti costituzionali. Non a caso si attuano o si preparano controriforme istituzionali, ispirate ai dettami da tempo indicati dalla Commissione Trilaterale, che tendono ad eliminare, imbavagliare o distorcere le domande di maggiore democrazia, occludendo i canali di formazione della decisionalità politica ampia, rendendo sempre più rigidi e verticistici i processi decisionali.
Gli scopi da attuare sembrano essere due: rendere la governabilità non permeabile dalle domande sociali, dal conflitto, da un lato; strutturare l'assetto istituzionale tipico di uno Stato corporativo, dall'altro.
La stessa presunta "tecnicità", che sempre più diventa funzione di governo, non ha altro significato che la "presa diretta" delle ricette liberiste sul governo, senza mediazione alcuna. È un processo interno alla costruzione dell'Europa di Maastricht (e per questo assume una valenza strategica e non precaria) che cattura larga parte dei vertici sindacali e delle forze della sinistra, che se ne fanno attive protagoniste, diventando complemento della ristrutturazione dei "poteri forti".
Si va formando un nuovo "arco politico del mercato", che comprende, ormai, il 90% del sistema politico italiano; esso costituisce il nuovo parametro dell'"ordine sociale" e dello stesso "ordine pubblico". Ogni istanza critica, conflittuale, antagonista, anticapitalistica è fuori del quadro delle compatibilità e diventa, di conseguenza, destabilizzante di istituzioni che sono finalizzate ai processi di valorizzazione del capitale.
Si spezza, in tal modo, il legame (tradizionale in Italia) tra conflitto sociale e sistema politico, tra programmi e politica; la tendenza è alla "americanizzazione" dei rapporti tra istituzioni e società; le sinistre antagoniste, in Italia, diventeranno come i "neri", gli "ispanici" dei sistemi maggioritari anglosassoni.
Non vi è dubbio che, sul sistema dei partiti, l'iniziativa dei giudici abbia avuto un effetto devastante; ma, purtroppo, non nella direzione di una critica della politica borghese, né ai veri e propri "comitati di affari" intrecciati alle politiche di accumulazione; bensì nella direzione del tentativo di cancellare dalla coscienza di massa la stessa idea di organizzazione, come passaggio verso una democrazia "plebiscitaria", nella quale alle organizzazioni di massa si sostituiscono le lobbies, alla decisionalità pluralistica e collettiva il solitario potere del leader, omologato all'interno del sistema di potere unico, vale a dire quello legittimato dalle centrali capitalistiche. Non è forse giunto il tempo, per le forze della sinistra antagonista, di rilanciare la marxiana critica del Potere, le forme di socializzazione, autogestione, autorganizzazione?
Siamo, infatti, all'interno di una fase storica in cui occorre rifuggire da ogni forma di Realpolitick, illusoria ed anche avventurista. Margini di riformismo sono, oggi, erosi dalla ristrutturazione del capitale; il capitale ha frantumato da destra il "compromesso sociale": quale spazio esiste per ipotesi liberaldemocratiche o di vaga ispirazione socialdemocratica?
Per difendere spazi di libertà, ambiti di conflitto, occorre intensificare radicalità e progettualità, dimostrare che, dietro le chiacchiere, la partita è truccata. Arretrare, con l'illusione di salvare inesistenti margini riformistici, significa solo accettare la rotta di Caporetto del movimento operaio!
Occorre, invece, mettere in discussione il paradosso che stiamo vivendo: il ricambio del ceto politico, determinato, nei suoi aspetti formali, soprattutto dal maggioritario e dall'azione di pulizia della magistratura, è attuato in nome della trasparenza della gestione della cosa pubblica; ma esso, che pure ha il merito di aver spazzato via un ceto politico corrotto, è la premessa di un colossale processo di clandestinizzazione del potere, "mettendolo al riparo" dal conflitto sociale, sottraendolo alla "pressione" delle domande sociali, affidandolo direttamente (e senza mediazioni istituzionali) alla "tecnicità" pura degli esperti della Confindustria e dei poteri economici "forti". Gli stessi partiti di opposizione, che abbandonano l'orizzonte anticapitalistico, si staccano dagli interessi della loro base sociale e diventano associazioni politico/statuali, elementi fondamentali di un unico Stato "allargato": gli schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra saranno in dura competizione elettorale per il governo; ma i punti di riferimento economico/sociali ed istituzionali saranno identici; i programmi economici e le politiche antipopolari saranno, infatti, dettate sempre più, nel caso della vittoria dell'uno come dell'altro schieramento, dal Fondo Monetario Internazionale.
Anche lo schieramento di centro-sinistra, quindi, si distaccherà sempre più dai bisogni e dalle pressioni sociali. La sconfitta della democrazia di massa organizzata, che sarebbe la conseguenza naturale dell'affermazione delle tendenze in atto, è anche il terreno più adatto alla formazione di un nuovo regime di massa di stampo plebiscitario, che potrebbe prosperare all'interno di una disgregazione della coscienza collettiva popolare, di un confuso e torbido corporativismo ribellistico, populistico, "vandeano".
Non va sottovalutata nemmeno l'entità delle macerie che l'interventismo dei magistrati sta lasciando sul terreno sul piano giuridico e dei valori.
Vi è stato, indubbiamente, nella prassi giudiziaria, un arretramento delle "garanzie"; a volte, vi è stato un uso strumentale dell'azione penale. I tre momenti costitutivi dell'azione penale (reato, processo, pena) non sono usciti indenni da questo periodo eccezionale.
Occorre che l'attacco alle prassi emergenzialiste sia portato, correttamente, da donne e uomini democratici, di sinistra, senza arretramenti furbeschi e deleteri, senza torsioni stataliste; altrimenti, ci pensano gli Sgarbi ed i Ferrara a monopolizzare un "garantismo" classista e posticcio, di difesa di uno spezzone di ceto politico.
Si è riaperto, in questi giorni, un dibattito molto strumentale, sull'"amnistia", sulla "chiusura politica" per i reati di tangentopoli.
Io sono contrario ad ogni "colpo di spugna", così come ad ogni lesione del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, che può derivare da un'esasperata applicazione del modello premiale, attraverso una garanzia di totale impunità ai "pentiti" che può aprire il varco al mercato delle chiamate in correità, gestito nella più totale discrezionalità da parte delle procure.
Sono anche contrario alla assoluta equiparazione dei reati di concussione e corruzione, che mi sembrerebbe particolarmente iniqua.
Ciò che, peraltro, mi preoccupa maggiormente è la constatazione che la sovradeterminazione politica e di opinione pubblica, di senso comune, assunta dalla "risoluzione politica" di Tangentopoli, ha messo completamente in ombra un tema che invece ritengo centrale. (da non rimuovere assolutamente).
Finalmente si è riparlato, nei giorni scorsi, di carcere. Altri morti, altri suicidi. Qualche distratta e frettolosa emozione. Poi, di nuovo, il silenzio.
È certamente, quello del carcere, un tema aspro, "contro-corrente" rispetto al senso comune. Proprio per questo, però, è indispensabile evitare che se ne impossessi la destra per interessi obliqui, di ceto politico.
La cultura democratica deve saper ricostruire "luoghi di riflessione", "osservatori" permanenti. Dobbiamo dunque ricercare il nuovo punto di connessione, tra difesa delle garanzie e fine risocializzante della pena, di fronte all'assoluta centralità che il carcere ha assunto nel sistema sanzionatorio.
Siamo, invero, troppo lontani dalla nostra tradizionale utopia di una tensione continua per "liberarci dalla necessità del carcere". Tanto più che sono mutate, in pochi anni, la natura stessa del carcere e la composizione della sua popolazione. La richiesta di "più carcere" nasce, spesso, all'interno di un diffuso disagio sociale.
A cominciare dal 1990 la popolazione detenuta è aumentata fino a superare la soglia delle 54 mila presenze; nel contempo le misure alternative al carcere si sono drasticamente ridotte.
È anche un riflesso del fatto che, ad ogni emergenza, la risposta istituzionale è consistita sempre e soltanto nell'aumento delle pene detentive. Le forze politiche reazionarie hanno instillato veleni autoritari, umori rancorosi nelle viscere della società, organizzando vere e proprie "campagne d'ordine".
Cito solo due nudi dati: negli ultimi tre anni la presenza dei detenuti tossicodipendenti è passata dal 18% a più del 50%; i detenuti di provenienza extracomunitaria sono, nello stesso periodo, passati dal 4% al 22%. I soggetti più bisognosi di trattamenti, amore, socialità sono diventati "devianti" da temere e da rinchiudere (facendo del carcere uno strumento di controllo sociale).
Nè possiamo dimenticare l'istituto della custodia cautelare.
È stato approvato dalla Camera, finalmente, un disegno di legge sui cui contenuti già emergono polemiche un po' sgangherate e demagogiche.
Concordo con quanto scriveva, tempo fa, Mauro Palma, presidente dell'associazione Antigone: "questo è un punto di discrimine che può far capire lo spessore di democraticità e di efficienza dell'intero sistema: sia per la connotazione impropria di anticipo della pena, sia per l'incidenza percentuale abnorme che ha sulla popolazione carceraria (attualmente 27 mila detenuti, di cui 16 mila in attesa di sentenza di primo grado)".
È un inutile vezzo libertario e garantista ricordare che la custodia cautelare deve essere un istituto estremo a cui ricorrere in modo molto limitato, sotto un rigido controllo di garanzia e solo in situazioni di inderogabile necessità?
La presunzione di innocenza non ammette deroghe, per quanto il delitto sia socialmente oltraggioso.
E poi, come spiegano continuamente (ed invano) gli stessi operatori penitenziari più avvertiti, come si fa, con le carceri stracolme, ad attuare una politica di risocializzazione?
Dove sono finite le stesse timide riforme del 1975 e del 1986?
Eppure, non mancano progetti, ricerche di grande esperienza ed intelligenza tese a ridisegnare, ad esempio, le varie forme di semilibertà e le misure alternative al carcere; così come il rispetto della affettività delle detenute e dei detenuti, anche nei confronti dei loro figli.
Né possiamo dimenticare che, dopo due legislature, ancora giace in Parlamento la proposta di legge sulla detenzione politica (è una mostruosità giuridica e politica).
Sono argomenti certamente scomodi: ma si pensa sul serio di elevare lo spessore della progettualità delle sinistre facendo finta di dimenticarli, rimuovendoli?
Ora più che mai, credo, il livello di democrazia della società, di fronte ai disvalori fascisti e berlusconiani, si misura anche dalla civiltà delle sue carceri e dal suo valore che si attribuisce alla pena.


Mauro Palma

Una diversa "sessione" sulla giustizia

     Alcune osservazioni
L 'analisi delle recenti vicende italiane - e dei dibattiti che le accompagnano con frequenza quasi quotidiana - attorno ai problemi dell'esercizio della giustizia penale, si presta all'evidenziazione di alcuni elementi di antinomia logica, se non si vuole leggerli come sintomi di interessata schizofrenia politica.
Da più parti si chiede, ad esempio, una estensione della sfera di intervento penale (fino a prevederlo come una sorta di strumento di politica di gestione del territorio e di contenimento di comportamenti non riconducibili a criteri di normalità e compatibilità) ma contemporaneamente si chiede un suo drastico limite in nome di un generico bisogno di ripresa, di libero sviluppo delle capacità economiche del nostro sistema, di rimozione di intralci alla libera azione di governo.
Si discute del "potere dei giudici" - del rapporto tra una funzione di stretta applicazione delle norme e una funzione di interpretazione che finisce per essere anche di indicazione normativa, per costituire, appunto, giurisprudenza e, quindi, fonte normativa. Lo si discute riaffermando il principio dell'autonomia della magistratura e della sua esternità rispetto alla decisione politica. Ma, al contempo, sempre più si connotano politicamente (il più delle volte attaccandole, comprimendole, ma spesso anche enfatizzandole) gran parte delle azioni, delle opinioni e delle esternazioni, perfino degli adempimenti dovuti, dei giudici, esponendo spesso in tal modo la magistratura su un terreno improprio, affidandole compiti di supplenza che ne possono minare alle fondamenta la credibilità.
Soprattutto si individuano problemi, nodi gravi del nostro sistema penale, dichiarandoli come obiettivi di un intervento immediato - mi riferisco in particolare alle vicende degli ultimi mesi attorno al problema della custodia cautelare o a quello della presenza in carcere di molti soggetti che rispondono di reati di minima entità - salvo poi quasi abbandonarli al primo intralcio delle proposte formulate.
Quest'ultimo punto è meritevole di una riflessione ulteriore, a partire da un noto esempio: il dibattito attorno al problema della custodia cautelare, avviato nello scorso anno.
L'istituto della custodia cautelare è un indicatore fondamentale di un ordinamento: e un punto di discrimine che può far capire lo spessore di democraticità e di efficienza dell'intero sistema. E questo sia per gli aspetti di discrezionalità che esso comporta, sia per la connotazione impropria di anticipo della pena che può prefigurare, sia nel nostro caso concreto, per l'incidenza percentuale che ha sempre avuto (dal dopoguerra a oggi: attualmente circa 28000, di cui 17000 in attesa di giudizio di primo grado) rispetto al totale della popolazione ristretta in carcere.
È per questo che la sua individuazione come terreno prioritario di intervento riformatore (dopo il lungo silenzio negli anni dell'emergenza), così come sembrava esserlo all'inizio della scorsa estate, non poteva che trovare concordi. Di più, sarebbe dovuto essere un tema di autonoma e tempestiva iniziativa delle forze progressiste. La proposta formulata dal decreto governativo - poi ritirato e trasformato in disegno di legge - era certamente inaccettabile in base a valutazioni "minime" di equità, escludendo la possibilità di custodia in carcere sostanzialmente per i reati la cui commissione coinvolge soggetti "forti" nei confronti della giurisdizione e delle istituzioni e lasciando il carcere come territorio di confino della microcriminalità.
Ma ancora più inaccettabile è stato il fatto che il ritiro del decreto non ha per nulla significato un impegno (proprio di chi ne aveva dichiarata l'urgenza, avendo scelto, appunto, lo strumento del decreto) per un rapido percorso di un provvedimento ordinario alternativo. Né ha determinato la messa in atto di altri strumenti, volti ad affrontare l'emergenza della situazione carceraria. La ex maggioranza - è il caso di ricordarlo - non ha chiesto in Commissione Giustizia neppure la dichiarazione di urgenza per il disegno di legge presentato.
E d'altra parte la battaglia condotta da più parti per il ritiro del decreto non è stata priva di elementi di ambiguità culturale anche a sinistra: si è persa l'occasione per ribadire che la custodia cautelare deve essere un istituto estremo a cui ricorrere in modo molto limitato, sotto un rigido controllo di garanzia e solo in situazioni di inderogabile necessità. Si è persa altresì l'occasione per ribadire che la presunzione di innocenza non ammette deroghe, per quanto il delitto possa risultare oltraggioso, che non si trattava, quindi, di un colpo di spugna, bensì di un provvedimento - non giusto - ma di diversa natura. Ed anche si è persa l'occasione per manifestare dubbi sulla correttezza e l'opportunità del rivendicare indirettamente, da parte di taluni rappresentanti dell'associazione Magistrati, tale istituto come stretto strumento di indagine, in assenza del quale i giudici avrebbero avuto "mani legate" e non avrebbero potuto affrontare "efficacemente" le indagini.
I limiti di questa impostazione si sono immediatamente ritrovati nell'assenza di una tensione - anche all'interno della cultura dell'opposizione - volta a richiedere con forza che, su basi eque, si andasse comunque ad un radicale (e non limitato) ridisegno di questo istituto in tempi brevissimi e all'approntamento di un provvedimento che costituisse anche un "segnale" per la popolazione detenuta.
Il provvedimento successivamente approvato dalla Commissione del resto - molto tiepido in un'ottica di riforma - ha spesso trovato ostilità nei media "democratici" e in settori della magistratura organizzata. E, a tutt'oggi (aprile 95 - quasi ad un anno dall'avvio del dibattito) non se ne vede l'approvazione definitiva.
Questo esempio è emblematico di una situazione di apparizione e sparizione dalla scena politica di alcuni temi che ruotano attorno ai problemi della giustizia penale.
Una giustizia afflitta invece da problemi drammatici che restano e che chiedono una risoluzione in tempi brevi. E dei quali è semplice costituire un seppure approssimativo elenco:
- il problema dell'ipertrofia del nostro sistema penale, che non assicura né prevenzione, né punizione. Perché da un lato non consente incisività all'azione penale (finendo col distogliere l'azione penale dall'effettiva tutela di beni ritenuti essenziali) e da un altro non consente una adeguata differenziazione di reati e pene secondo gerarchie corrispondenti all'esigenze e alle scale valoriali proprie di un complesso sistema sociale quale il nostro;
- il problema dell'enorme estensione della popolazione carceraria e del suo ritmo di crescita (una crescita più che lineare che va al di là del fenomeno analogo che si sta sviluppando negli altri paesi industrializzati); un numero - si badi bene - che non consente alcuna politica della pena, che supera ogni discussione teorica sulla finalità prevalente della pena e pone soltanto un problema di contenimento;
- il problema - all'interno del precedente - della consistente quota di soggetti in custodia cautelare;
- il problema del processo così come esso ci viene riconsegnato al dibattito, stravolto nel 1992 nel suo impianto di garanzia, sia dalle sentenze della Corte costituzionale (la sentenza 24, la 254, la 255) sia dal decreto Martelli del giugno - a soli tre anni dalla sua entrata in vigore;
- il problema dei ripetuti tentativi di delegittimazione dell'azione della magistratura e dell'attacco diretto all'operato di singoli magistrati o di intere procure ed anche il problema del ruolo politico che singoli magistrati stanno via via direttamente o indirettamente assumendo (e di cui il meeting di Cernobbio è stata un'inquietante evidenza).
È l'urgenza di questi problemi a richiedere la tessitura di un progetto sulla giustizia da parte delle forze di opposizione che sappia introdurre una propria scala di priorità e non agire di rimessa all'azione del governo.
 
     Alcune premesse
Già negli anni precedenti si è sviluppata la riflessione sui mutamenti strutturali prodotti in questi anni nei territori propri della giustizia penale.
Sono riflessioni che alcuni giuristi democratici - e, in particolare, l'associazione Antigone - hanno sviluppato, a partire da quanto ha scritto negli anni ottanta e nei primi anni novanta Luigi Ferrajoli. Il centro della riflessione è il mutamento radicale avvenuto negli ultimi dieci anni delle tre questioni fondamentali: la questione criminale, la questione penale, la questione penitenziaria.
È mutata la questione criminale, nella duplice direzione dell'affermarsi di veri e propri contropoteri criminali e dell'esplicitarsi di una criminalità dei pubblici poteri, nelle svariate forme di corruzione e di appropriazione della cosa pubblica. Tale sistema ha riversato sul sistema penale un accresciuto e diverso carico di funzioni e responsabilità. E se da un lato si è registrata positivamente, nelle inchieste dell'ultimo triennio, la fase di riabilitazione della legalità come meccanismo di rottura del vecchio sistema, come affermazione della funzione della giurisdizione quale garanzia della legalità penale nell'esercizio di pubbliche funzioni, da un altro lato non può sfuggire la nuova centralità del sistema penale pone forti problemi sul piano della sua reale efficienza e richiede - avrebbe richiesto - più che mai un rafforzamento delle garanzie.
Il mutamento della questione criminale ha così determinato un parallelo mutamento della questione penale, dal punto di vista della individuazione e qualificazione dei beni giuridici protetti e dal punto di vista dell'effettività delle tecniche di tutela e di garanzia.
A me pare che a questa nuova questione penale non giovino affatto gli atteggiamenti di sostegno acritico e incondizionato - non certo alle inchieste o ai magistrati - quanto ai singoli aspetti o provvedimenti: e questo soprattutto perché queste inchieste finiscono con l'essere di fatto una sorta di nuova "fonte normativa" dotata di una propria forza di autolegittimazione che costituisce base per la cultura dei giudici. Proprio per l'importanza che si assegna alla giurisdizione e per la delicatezza dei problemi posti dalla nuova questione penale dovrebbe essere alta e attenta la critica pubblica delle prassi giudiziarie, contrappeso necessario dell'indipendenza dei giudici e principale fattore della loro responsabilizzazione.
Ma parallelamente - come ho accennato - anche la questione penitenziaria è sostanzialmente mutata. E non solo perché sempre più la pena è divenuta anticipata, scontata sotto forma di custodia cautelare. Soprattutto perché l'alto numero dei detenuti ha spazzato via il dibattito che aveva accompagnato da posizioni diverse l'approvazione della riforma del 1975 e soprattutto delle sue modifiche di 11 anni dopo. Oggi interrogarsi sulle finalità correzionalistiche insite nella filosofia di quei provvedimenti è certamente improprio: i radicali interventi normativi dei primi anni novanta ne hanno mutato il disegno in aspetti non secondari; le mutate condizioni di detenzione e soprattutto la mutata tipologia della popolazione detenuta pongono ormai problemi del tutto nuovi e spesso fanno regredire l'istituzione in mera struttura di contenimento. Non solo, ma si sono ampliate in modo preoccupante le disparità di interpretazione ed applicazione delle norme da parte dei Tribunali di sorveglianza al punto tale da configurarsi una pericolosa situazione di "localizzazione" del diritto penitenziario.
Tre situazioni mutate radicalmente, quindi, a cui non è possibile continuare a rispondere con la logica propria del nostro sistema politico-giudiziario: quella dell'eccezionalità dei provvedimenti, delle successive emergenze che, oltre a richiedere continue deroghe al sistema di garanzie delineato dal nostro ordinamento, rendono anche difficile l'intervento su singoli aspetti o l'avvio di credibili elementi di inversione culturale.
L'avvio di quest'ultima Legislatura ha aggravato la situazione, introducendo ulteriori elementi di novità su cui vale la pena soffermarsi: perché costituiscono mutamenti anche delle opinioni correnti, dei luoghi comuni, delle culture e finiscono di tradursi poi anche in mutamenti di sistema.
Il principale elemento di novità è stato l'esplicitarsi di una deliberata avversione alle regole che caratterizza il dibattito e l'azione politica delle forze che si riconoscono attorno all'asse berlusconiano. C'è una cultura dell'aggirare gli ostacoli normativi, legali, in nome di una malintesa e supposta efficienza; c'è la tendenza a ritenere i sistemi di regole come legacci residuali di un passato e a credere che sia il voto di maggioranza il grimaldello in grado di superare ogni regola. Ha osservato in questi giorni Stefano Rodotà che la ex-maggioranza ha agito come fosse "sciolta da ogni vincolo costituzionale, attraverso una deliberata avversione per le regole vissute come impaccio." La cultura che ha accompagnato l'azione di governo (che ha dato origine alla formula secondo cui "la democrazia si ferma alle porte dell'impresa") ha avuto effetti devastanti nelle culture medie, anche perché si è inserita in un tessuto in cui "gli anticorpi costituzionali sono stati negli anni recenti indeboliti o distrutti": la Costituzione è stata minata in anni recenti come punto di riferimento, è stata indebolita. (E a tale delegittimazione della Costituzione danno una mano le ricorrenti estemporanee sortite anche da parte di talune forze progressiste sulla possibile Assemblea Costituente).
Questo esibito disprezzo sostanziale per le regole stride ovviamente con l'operare del diritto: il conflitto si è progressivamente fatto sempre più aspro e forte si va facendo la necessità da parte delle forze di maggioranza o di ridurre o di inglobare l'operato della magistratura.
Ecco allora che ai mutamenti precedenti se ne sono aggiunti altri: è mutato il rapporto tra magistratura e sistema di governo e tra magistratura ed opinione pubblica.
Il primo è divenuto sempre più rapporto di conflitto, il secondo è divenuto un rapporto continuo di sovraesposizione al quale peraltro alcuni giudici non si sono - come sarebbe stato auspicabile - sottratti.
 
     Una sessione sulla giustizia
Sono queste profonde modificazioni a richiedere la ridefinizione di un complessivo progetto.
In quest'ipotesi - volta peraltro ad evitare la frammentazione e la casualità del singoli interventi - era stata vista con attesa e favore l'iniziativa del Senato di dedicare una sessione dei propri lavori alle politiche della giustizia. Era apparsa un'iniziativa meritoria ed importante non solo per la rilevanza che tali questioni hanno recentemente assunto e per l'attenzione che incontrano nell'opinione pubblica, ma anche perché poteva (e forse può) costituire una significativa innovazione negli stessi usi parlamentari, impegnando il legislatore ad un approfondimento tematico che ordinariamente rischia di essere impossibile.
Le gravi perplessità sono sorte alla lettura dell'agenda di tale sessione: l'orizzonte ipotizzato è stato essenzialmente quello di discutere alcune proposte di allargamento del patteggiamento, nel tentativo di ricercare una soluzione giudiziaria ai molti processi per reati contro la pubblica amministrazione (per far passare una chiusura coattiva della vicenda di Tangentopoli). Il resto è stato ignorato.
Ma il problema non può più essere ristretto alle alchimie parlamentari. Occorre riportare nel dibattito che si svolge nel tessuto sociale una scala di priorità dei problemi. Definire un nuovo modello di intervento possibile in tema di giustizia.
     Il primo punto che mi sembra necessario ribadire è il rigido mantenimento dei due pilastri del nostro ordinamento: quello dell'indipendenza - e del rifiuto di ogni ipotesi di dipendenza del pubblico ministero dall'esecutivo - e quello dell'obbligatorietà dell'azione penale.
Accanto a questo punto occorre mettere l'abbandono di ogni logica di normativa d'eccezione e il ripristino dell'ordinarietà nell'esercizio dell'azione penale. La magistratura in primo luogo - ma anche le forze politiche e culturali progressiste, parallelamente - avrebbe dovuto - e ancora dovrebbe - approfittare dello stesso consenso d'opinione di cui godono i giudici non per difendere istituti e poteri impropri, ma per riabilitare essa stessa le garanzie attraverso una generale bonifica del nostro sistema processuale da tutti i relitti dell'emergenza (dalla custodia cautelare, all'interrogatorio di polizia senza difensore, dal potere del p.m. di interrogare l'indagato detenuto senza la presenza del giudice all'arresto per supposta falsità delle informazioni rese agli inquirenti, dall'eccessiva contiguità tra giudice per le indagini preliminari e pubblica accusa al valore di prova che la Corte ha di fatto attribuito alle informazioni assunte in segreto dagli inquirenti).
Un lavoro di "ripulitura" non più rinviabile e non semplice, che deve togliere anche tutto ciò che le successive emergenze hanno via via introdotto.
Un lavoro che deve essere anche accompagnato dall'adozione di un provvedimento di recupero di quanto l'emergenza antiterroristica ha prodotto sul piano della sovrapenalizzazione. Occorre chiedere con forza che la Legislatura attuale affronti e porti a compimento l'adozione di un consistente indulto per le pene allora comminate, secondo la proposta che già da tre legislature è stata presentata.
Questi sono punti di premessa. Accanto ad essi, i temi per una significativa sessione sulle politiche della giustizia devono riguardare i nodi centrali delle tre grandi questioni a cui prima si è fatto riferimento:
1. l'individuazione di beni giuridicamente tutelati, dei reati e delle pene,
2. il disegno del processo,
3. il ruolo, le forme e i limiti della pena.
Sono i temi sui quali molte volte si è intervenuti in questi anni e che qui è possibile limitarsi ad accennare.
 
     1. Il primo di questi problemi rimanda alla necessità della definizione del nuovo codice penale.
È tema di annoso dibattito, che credo debba essere ripreso, con un diverso coinvolgimento delle forze culturali del Paese e su binari diversi; soprattutto occorre rendere visibile tale dibattito, perché il problema del disegno del codice non è soltanto un problema tecnico, bensì un problema culturale generale.
Le linee di riforma sono quelle che vanno nella direzione di riservare l'intervento penale come extrema ratio a cui far ricorso solo per la tutela di beni fondamentali. Questo programma - più volte indicato secondo la formula del "diritto penale minimo" - è presupposto sia del garantismo che dell'efficienza perché rende la macchina giudiziaria dedicata alla tutela di beni ritenuti fondamentali e al perseguimento delle figure di reato che possano realisticamente essere efficacemente giudicate nel nostro sistema.
Il problema rimanda ad una individuazione dei beni fondamentali, tali da essere oggetto di tutela penale. E diviene un problema culturale più ampio, da affrontare con il concorso di forze culturali diverse, perché occorre stabilire quali siano forme alternative a quella penale, attraverso cui un bene, individuato come rilevante, possa essere affermato e tutelato.
Tuttavia, nell'attesa dello sviluppo del dibattito, pretenzioso, attorno al nuovo codice si pone la necessità di un coraggioso intervento di depenalizzazione e di diversificazione degli strumenti sanzionatori. Un intervento - ripeto - che non solo non riduce la tutela dei cittadini, ma proprio perché volto ad individuare obiettivi e strumenti diversi a seconda della tipologia del bene tutelato, assicura una più puntale ed effettiva azione penale.
Una buona base di lavoro in questa direzione è costituita dal documento elaborato dal passato Consiglio Superiore della Magistratura e trasmesso al Ministero di grazia e giustizia, in cui si sono fissate le possibili linee di intervento e le aree di illeciti su cui operare una incisiva depenalizzazione o un parziale trasferimento al sistema sanzionatorio amministrativo.
Accanto a questa opera di semplificazione e di recupero di efficacia, occorre riaprire il dibattito sulla entità delle pene. Anche perché un sistema sanzionatorio inflazionato sul piano delle entità delle pene produce delle discrasie tra pena nominale e pena reale che spesso sono viste dalla collettività come segnale di ineffettualità della sanzione e di inaffidabilità del sistema nel suo complesso. Occorre ridurre l'entità delle pene, tra le più alte in Europa, recuperando ad esse caratteristiche di maggiore effettività.
In tale direzione, credo che l'agenda di una credibile sessione sulla giustizia dovrebbe affrontare in primo luogo il problema dell'abolizione dell'ergastolo dal nostro ordinamento. Residuo premoderno della pena, la cui costituzionalità è stata tortuosamente affermata dalla Corte attraverso un paradosso semantico (secondo cui è la possibilità della non perpetuità della pena a rendere possibile che la pena perpetua non contrasti con l'articolo 27 della Costituzione).
     2. Ho accennato poi al problema del disegno del processo.
Anche qui occorre un radicale intervento per il recupero di una fisionomia credibile del nostro processo penale. Per il recupero dell'impianto accusatorio che si voleva alla base della sua configurazione: scelta che non era stata priva di lunghe riflessioni e dibattiti, che aveva avuto la sua espressione, anche moderata, nel nuovo codice e che è stata in breve spazzata via dalle sentenze e dagli interventi a cui ho accennato precedentemente.
Io credo che anche in questo settore sia possibile muoversi su due piani: su quello della ripresa di un confronto tra culture giuridiche per la definizione di un'ipotesi di processo, perché l'attuale ha perso ogni precisa configurazione e su quello parallelo dell'adozione di provvedimenti parziali di riequilibrio. Per questo ritengo importante la discussione della proposta, presentata in questa XII Legislatura da esponenti del PDS e di PRC, sulla collocazione, ordinamentale e processuale, del giudice per le indagini preliminari nell'ambito della sezione dibattimentale e la conseguente trasformazione della udienza preliminare in udienza predibattimentale. Configurando quest'ultima come sede nella quale devono trovare soluzione le attuali carenze del controllo sull'esercizio dell'azione penale.
Altri aspetti che si connettono al tema del processo riguardano il problema della custodia cautelare (a cui ho accennato) e il problema dell'informazione a cui occorre destinare una nuova e più incisiva riflessione, dopo l'uso multimediale dei processi dell'ultimo periodo.
     3. Infine, il terzo problema fondamentale, quello dell'esecuzione delle pene. Anche in questo caso ci troviamo di fronte alla perdita - sulla base di provvedimenti frammentari e eccezionali - di un disegno complessivo.
La pena ci si presenta oggi nelle sue forme di esecuzione incerta, variabile per soggetti e per territorio.
Da uno studio recente richiesto dal Consiglio Superiore della Magistratura emergono dati che debbono far riflettere perché evidenziano disomogeneità forti nell'applicazione delle norme da parte dei vari Tribunali di sorveglianza: nello stesso anno, per la stessa misura, le percentuali di accoglimento variano da un massimo di 59,5% a un minimo di 4.9% a seconda dell'autorità competente per territorio.
Occorre muoversi nell'immediato in più di una direzione:
- nella direzione della messa a punto di criteri per l'applicazione delle norme che maggiormente sono state oggetto di discordanti interpretazioni,
- nella direzione dell'estensione dei criteri di ammissibilità ad alcuni degli istituti previsti,
- nella direzione della riduzione e tendenziale eliminazione degli automatismi, introdotti dalla legislazione del 1991 e del 1992 che inibiscono l'accesso agli istituti previsti per alcune tipologie di reati,
- nella direzione della previsione di nuovi istituti (ad esempio, in risposta all'affettività o all'assolvimento dei compiti educativi rispetto alla prole) e della ridefinizione di istituti esistenti (ad esempio, forme di progressione nella semilibertà) per ridisegnare il complesso di misure alternative come percorso verso il reinserimento sociale e non come mere attenuazioni dell'afflittività.
Tuttavia, l'orizzonte di una nuova discussione sulla pena non può essere ristretto alla ripulitura della normativa esistente, alla ripresa e forse rivitalizzazione di alcune delle misure previste.
Credo che occorra dare un taglio nuovo a questa riflessione, per togliere quella centralità che la pena detentiva ancora conserva all'interno del nostro sistema sanzionatorio. Occorre costruire le condizioni per liberarsi effettivamente - passatemi questa formula che ricorda alcune riflessioni di anni orsono - dalla necessità del carcere.
     Questi i temi di una sessione credibile sui problemi della giustizia. Su questi temi bisogna lavorare lungo più direttrici: quella dell'iniziativa culturale, quella dell'intervento nel dibattito e nella pratica sociale, quella dell'apertura di spazi di interlocuzione politica all'interno dei quali le soluzioni anche tecniche possano trovare significato.


Germano Monti

La sinistra forcaiola: il caso italiano

La bufera scatenata da "Mani Pulite" ha sconvolto anche l'orizzonte di quelli che si battono (ormai da quasi dieci anni) perché venga posto un termine ai guasti e alle distorsioni che la legislazione e la cultura dell'emergenza hanno introdotto nella vita del Paese; i "prigionieri politici", per il senso comune, non sono più i militanti delle organizzazioni rivoluzionarie degli anni '70, ma gli ex potenti, la classe politica di quella che viene definita Prima Repubblica.
Le conseguenze di questa situazione sono paradossali: a parlare contro l'istituzione-carcere o anche solo ad esprimersi contro le lunghe pene, ormai si passa per amici/complici di quella stessa nomenklatura che ha prodotto l'emergenza e che si sta sfasciando sotto i colpi della stessa Magistratura che aveva ossequiosamente applicato i dettami "antiterrorismo", non ultimo la venerazione del "pentito".
Paradosso ultimo, il primo governo dichiaratamente di destra del dopoguerra si insedia con il dichiarato intento di ridimensionare la nouvelle vague giustizialista e forcaiola e incassa la prima dura sconfitta proprio su un decreto che intendeva - strumentalmente, non vi è dubbio - limitare l'abuso della carcerazione preventiva.
In realtà, si tratta di una contraddizione solo per la destra, costretta ad improvvisarsi garantista per motivi di bottega. Una "certa sinistra" italiana non ha vissuto alcuna contraddizione: forcaiola lo è sempre stata e la condotta seguita nei confronti della detenzione politica non ne è che una testimonianza.
Se esiste un'entità che ha sempre bloccato ogni possibilità di trovare una soluzione alla questione dei prigionieri politici e degli esiliati, è stato proprio il maggior organismo della sinistra politica, il P.C.I. di Berlinguer, Natta e Occhetto. Dopo la "svolta" di quest'ultimo, i due tronconi PDS e PRC ne hanno in buona misura perpetuato la linea, sia pure con rilevanti eccezioni.
     Bisogna rammentare che, a partire dal 1975, non una legge autoritaria e liberticida è passata senza il consenso del PCI. Di più, il PCI è stato il vero motore dell'emergenza, il soggetto politico più interessato, più della stessa Democrazia Cristiana, a stroncare qualsiasi dissenso, qualsiasi ipotesi - fosse essa politica, sindacale o anche solo culturale - che sfuggisse alla sua direzione.
A tutti i livelli e con ogni mezzo, il PCI si è impegnato nella sistematica distruzione di quanto si muoveva nelle fabbriche, nelle scuole, nelle università, nei quartieri: dallo squadrismo nelle piazze alla trasformazione delle sezioni in commissariati ausiliari, dalla criminalizzazione delle avanguardie all'intimidazione verso gli intellettuali, nessuno strumento dell'arsenale stalinista e poliziesco è rimasto inutilizzato nella battaglia contro il terrorismo e l'eversione.
Il disorientamento della base operaia e proletaria del partito verso le scelte sempre più capitolarde e collaborazioniste - l'adesione alla N.A.T.O., la politica dei sacrifici, ecc. - è stato riconvertito in ossessione legalitaria e isteria statolatrica; la tensione dei militanti veniva sapientemente convogliata contro i gruppettari, gli autonomi, i terroristi, coerentemente con il precedente storico rappresentato dal rapido allineamento dell'UNITA' sulle tesi questurine all'indomani della strage di Piazza Fontana, a proposito del "mostro" Valpreda.
Il compromesso storico segna una svolta epocale, un punto di non ritorno, attraverso la rinuncia anche formale ad ogni velleità non solo rivoluzionaria, ma anche radicalmente riformista, prefigurando le linee generali di quel consociativismo che nella sfera del politico andrà a concretizzarsi nella spartizione del potere e del sottopotere, obbligando a considerare la sfera sociale, con la conflittualità di cui è innervata, un problema di governabilità, dove ogni contraddizione va ricondotta, con le buone o con le cattive, negli schemi delle compatibilità, siano esse le compatibilità di impresa o quelle della ragion politica.
L'enunciazione berlingueriana segna quindi una svolta anche verso il variegato mondo dell'insubordinazione sociale, di quelle centinaia di migliaia di operai e di giovani formatisi in un clima di scontro duro, ma anche di fermento culturale, di ricchezza comportamentale, di grandiose aspettative che solo l'arido cinismo del senno di poi potrà etichettare come ingenue.
Nemmeno i "gruppi" riescono a captare le scosse telluriche di quegli anni, a sintonizzarsi sulla lunghezza d'onda di un immaginario sociale proiettato verso scenari che le fredde leggi dell'autonomia del politico non possono neanche intuire; salta ogni riferimento immediato, mentre gli apparati dello Stato dosano stragi e repressione, concessioni e promesse.
Il terremoto sociale esplode in eruzioni vulcaniche, i motivi profondi del suo essere non sono risolti dalle alchimie politiche dei piani alti; di fronte a questo, il PCI scende vigorosamente in campo a fianco degli apparati repressivi.
I dirigenti del PCI surclassano sul loro stesso terreno i vecchi arnesi della destra, dell'autoritarismo tradizionale: gli editoriali dei vari Pecchioli e Trombadori spiazzano persino autorevoli reazionari come Montanelli.
Quanto questo comportamento politico abbia influito sulla scelta di centinaia di militanti in favore del vicolo cieco della clandestinità e della lotta armata, sul finire degli anni '70, è ancora oggetto di dibattito, sia pure di un dibattito reticente e parziale.
     Per fronteggiare il "sovversivismo", sono state varate norme mutuate direttamente dai periodi più oscuri della storia: pene aumentate se il reato veniva commesso per finalità eversive, incoraggiamento premiale alla delazione e all'abiura, dilatazione della carcerazione preventiva, utilizzo massiccio delle leggi sui reati associativi e di opinione, creazione di un circuito carcerario speciale, differenziato, dove era di fatto sospesa ogni sia pur minima conquista della Riforma del 1975. E poi licenza di uccidere e diritto alla tortura per le forze dell'ordine, perquisizioni senza mandato per interi quartieri, fino all'impiego dell'esercito in servizio di ordine pubblico... tutto su proposta e/o con l'approvazione del PCI.
Un'eccezione alla politica forcaiola il PCI la fece nel 1978, invitando a votare a favore dell'abrogazione dell'ergastolo nel referendum promosso dal Partito Radicale di allora. Bisogna ricordarlo, come bisogna ricordare l'impegno di alcuni individui in controtendenza nel partito, perché quelle individualità erano la spia di un disagio che assumerà proporzioni maggiori con il passare degli anni, purtroppo senza mai riuscire a correggere un'impostazione autoritaria che troverà il suo momento di massima rappresentazione nella gigantesca montatura passata alla storia come il "processo 7 aprile".
La persistenza dell'impostazione culturale del PCI per tutti gli anni '80 e la sua trasposizione nelle due formazioni che da esso hanno preso vita - PDS e Rifondazione Comunista - è il dato con cui anche oggi deve fare i conti chi vuole ragionare su quello che è realmente successo negli anni '70 e sulle possibilità di una soluzione per i 200 prigionieri e gli altrettanti esiliati che costituiscono l'attualità della detenzione politica.
È la stessa impostazione che porta autorevoli esponenti della sinistra politica a sostenere, concordemente con l'estrema destra, le ultime propaggini di revisionismo storico costituite dalla rilettura dello scontro degli anni '70 in chiave esistenziale, ipotesi sostenuta non solo da ex militanti della lotta armata e da fascisti, ma anche da una parte della redazione del "Manifesto" e da opinionisti di area pidiessina; in sostanza, si dice che ragazzi di destra e di sinistra si fronteggiavano in nome di tensioni e utopie tutte riconducibili a frustrazioni generazionali, quando non addirittura individuali, al punto che, secondo questa tesi, si era "fascio" o "compagno" a seconda del quartiere in cui si viveva.
Per quanto inconsistente da ogni punto di vista, questa tesi ha trovato cittadinanza in quasi tutti gli ambienti della sinistra, se si eccettuano le reazioni - inevitabilmente indignate - di collettivi e circoli della sinistra antagonista; in effetti, bisogna dire che questa impostazione permette a tutti di risolvere le proprie difficoltà, poiché consente ai postfascisti di Fini e agli eredi del PCI di non fare i conti con la propria storia e di accordarsi su una qualche soluzione all'italiana, incontrando in questo il favore di quella parte della detenzione politica che ha ormai scelto da anni di porsi completamente al di fuori di ogni logica politica, perseguendo soltanto il fine della propria scarcerazione.
A questo proposito, la vicenda "Mambro-Fioravanti-strage di Bologna" è assolutamente paradigmatica.
     Dubbi sulla colpevolezza della coppia Mambro-Fioravanti nella progettazione e nell'esecuzione della strage del 2 agosto 1980 ve ne sono, e questo è innegabile, come è innegabile l'attitudine politica della Magistratura emiliana; non è neanche il fatto che esponenti di destra e di sinistra si ritrovino in un comitato che si chiede "se fossero innocenti?" a destare perplessità.
Il problema nasce quando si passa dalla necessità di garantire la ricerca della verità, anche e soprattutto scagionando eventuali colpevoli prefabbricati, alla riscrittura del senso e del significato della storia di un Paese, appunto riducendo tutto a quello che qualcuno ha definito "la Storia vista dal buco della serratura", cioè ad un insieme disorganico e casuale di microstorie individuali.
A dimostrazione della strumentalità di certi discorsi, possiamo portare un paio di esempi, di casi significativi quanto e più di quello citato, che però non hanno mai visto la formazione di comitati di così ampio spettro: il primo è quello di Pierluigi Concutelli, killer nero del giudice Occorsio, in carcere da quasi venti anni, da tempo declassificato (che nel gergo penitenziario vuol dire non più ritenuto pericoloso) che non ha mai usufruito di alcun beneficio e che, anzi, si è visto recentemente comminare una condanna per aver protestato per il trattamento inferto ad un detenuto handicappato.
Il secondo caso che non ha visto la formazione di comitati ad hoc, ma solo l'impegno spasmodico di militanti e singole persone, anche molto autorevoli, è quello di Prospero Gallinari, gravemente malato di cuore, più volte colto da malore in carcere, riconosciuto incompatibile con lo stato di detenzione da decine di perizie mediche, ridotto in fin di vita da un'ischemia e che ha dovuto attendere quattro anni per vedersi riconosciuto un diritto sancito non da una legge speciale, ma da un semplice articolo del Codice Penale, il 147, che prevede la sospensione della pena in caso di grave malattia del detenuto; sospensione temporanea, peraltro, il che significa che Gallinari potrebbe tornare in carcere in qualsiasi momento un giudice lo ritenesse sufficientemente in salute.
È troppo chiedere perché in questi casi - ed in tanti altri ancora meno conosciuti - non si è assistito alla formazione di comitati come quello per Mambro e Fioravanti? E se fosse perché non vi sono ragioni politiciste, ma "soltanto" le ragioni del diritto?
     Una sinistra incapace, culturalmente prima ancora che politicamente, di fare i conti con la Storia non ha alcun futuro davanti, se non quello - miserabile - della continua ricerca di mezzucci per arrivare a gestire quella governabilità che costituisce la sua ossessione da sempre; altri conigli, sempre più deformi, usciranno da cilindri usurati, altre diminuzioni della democrazia e della rappresentanza (come il maggioritario), nella stolida convinzione che la politica sia un affare di ingegneria istituzionale, lontana da conflitti, tensioni e bisogni reali.
In questo contesto, la destra non è destinata a vincere: è la "sinistra" che le consegna una vittoria dopo l'altra.


RGF Editore