A cura dell'Associazione Malcolm X

Dove va la Costituzione?

I lavori della
Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali

Analisi e commenti di: 

Domenico Gallo
Giovanni Russo Spena
Associazione Malcolm X 

In allegato floppy disk: 

Costituzione del '48;
il progetto di revisione licenziato dalla Bicamerale;
relazioni di maggioranza e minoranza;
altro materiale di documentazione sui lavori della Commissione. 

RGF
EDITORE


ISBN 88-86821-08-5
Distribuzione: DIEST - Tel. 011/8981164
V. G. Cavalcanti, 11 - 10132 Torino 
Lire 10.000 
 

 

NOTA DI AGGIORNAMENTO

Gli interventi contenuti nella pubblicazione fanno riferimento al testo di revisione costituzionale approvato dalla Commissione Bicamerale il 30 giugno 1997. In seguito, tale testo è stato sottoposto ad ulteriore esame da parte della Commissione ed emendato in alcune sue parti. Il riferimento ad alcuni articoli va quindi semplicemente aggiornato alla nuova numerazione del testo emendato. Diverso è il discorso per quanto riguarda l'art. 56, che ad una prima lettura potrebbe apparire profondamente modificato, al tal punto da far ritenere fuori luogo l'intervento che lo analizzava nello specifico.
Ma nonostante queste modifiche, la pubblicazione mantiene intatta tutta la sua attualità. Per tutti i temi trattati, infatti, compreso anche il nuovo articolo 56 (si veda l'intervento contenuto in questa nota di aggiornamento), non vi sono state sostanziali modifiche, dovendosi piuttosto registrare un generale peggioramento del testo licenziato il 30 giugno.

Il nuovo testo, risultante dalla pronuncia della Commissione sugli emendamenti, è contenuto nel floppy-disk allegato alla pubblicazione: NEWPROG.WRI.

 
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 Chi parla più dell'art. 56? (di Franco Ragusa)
 

Con la seduta del 24 settembre, la Commissione Bicamerale ha modificato il controverso articolo 56 votato a giugno. Come si ricorderà, con quell'articolo si faceva una scelta normativa per la quale, usando le parole del Sen. Pellegrino, "sarebbe - stato - possibile sostenere che, poiché qualcosa può essere fatto dai privati, è inibito al pubblico farla".

A sfumare questa rigidità, fortemente difesa dagli esponenti iperliberisti presenti nella Commissione, c'è stata la nuova formulazione che, però, a ben vedere, per quanto cambi la forma dell'articolo, rischia di non mutarne affatto la sostanza.
Il nuovo articolo è infatti un classico esempio di "politichese" che, se dovesse rimanere così com'è, procurerà non pochi problemi interpretativi ai professionisti del diritto pubblico:
"Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall'autonoma iniziativa dei cittadini, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni pubbliche sono attribuite a Comuni, Provincie, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà e differenziazione. La titolarità delle funzioni compete rispettivamente a Comuni, Provincie, Regioni e Stato, secondo criteri di omogeneità e adeguatezza."
Come rapportarsi, quindi, rispetto alla cosiddetta sussidiarietà orizzontale?

Quali limiti incontrerà il "pubblico" per esercitare le funzioni di cui è titolare di fronte ad un'attività privata adeguatamente svolta?
E quel "nel rispetto delle attività" a cosa fa riferimento?
Forse che sarà inibita, o reindirizzata verso i privati, tutta l'attività pubblica che potrebbe operare in cosiddetto regime di "ineconomicità", ai fini di un interesse pubblico da sostenere, laddove dovesse entrare in concorrenza "sleale" con le attività "adeguatamente" già svolte dai privati non finanziate alla stessa stregua?
Così, tanto per dirne una, come rapportarsi di fronte alla scuola privata "adeguatamente" svolta?

Non si sono forse affievolite un po' troppo in fretta tutte le voci critiche al vecchio articolo 56 ... praticamente riproposto?

 

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Dove va la Costituzione?
I lavori della
Commissione Bicamerale per le riforme
Indice

Pag. 5 Premessa

9 Domenico Gallo - Bicamerale: La controriforma della giustizia
15 F. Ragusa - Un risultato scontato
35 P. Ramazzotti - Autonomia nel privato e sussidiarietà nel pubblico: gli abbagli dell'art. 56
43 G. Russo Spena - La posta in gioco

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47 Documentazione - Elementi di diritto costituzionale comparato: la revisione costituzionale

        55 Per l'astensione al referendum unico
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Premessa
Come nelle previsioni, la Commissione Bicamerale per le riforme è riuscita nell'intento di produrre un progetto di revisione costituzionale che, di fatto, prelude ad una nuova Costituzione.

Cosa rimarrà, infatti, della Costituzione del '48 dopo questa "revisione"?
Ben poco; e quel poco andrà nella direzione opposta a quanto era invece auspicabile: pur nell'assenza di un intervento formale sulla Prima Parte della Costituzione, attraverso i meccanismi istituzionali escogitati si avrà una ben più pesante divaricazione tra le enunciazioni dei diritti e dei principi ivi sanciti e la loro concreta attuazione. Per alcuni di questi, inoltre, si annunciano dei clamorosi stravolgimenti. Su tutti, la previsione contenuta nel primo comma dell'articolo 56:
"Le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati sono ripartite tra le Comunità locali, organizzate in Comuni e Province, le Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali, riconosciute dalla legge."

Con un colpo solo, al "pubblico" si sostituisce l'autonomia dei privati. Il tutto, tra l'altro, senza chiarire un minimo di criteri. Chi sarà, infatti, a stabilire come e quando i privati risulteranno inadeguati a svolgere determinate funzioni? Quale sarà il punto di discrimine rispetto al quale far valere le "scelte politiche" rispetto agli "equilibri di bilancio" dei privati?

Altro aspetto che non può venire sottaciuto, è il metodo d'indagine con il quale si è arrivati a produrre le varie proposte di revisione.

Anziché partire da un esame sul campo del perché dei malfunzionamenti istituzionali e politici verificatisi durante gli ultimi 50 anni, si è direttamente passati all'elaborazione del sistema istituzionale facendo riferimento ad astratte elaborazioni dottrinali. Di fatto, una sorta di discussione blindata nella quale non è stato possibile approfondire tutto quanto non andava a soddisfare le aspirazioni politiche dei partiti che hanno imposto l'urgenza della riforma. E non deve oggi sorprendere se, per ogni "nuova" soluzione adottata dalla Bicamerale, i problemi da risolvere siano rimasti gli stessi di sempre; per non dire dei nuovi che sorgeranno a causa delle scelte fatte. Del resto, con neanche sei mesi di tempo a disposizione, e con un bagaglio di analisi praticamente nullo alle spalle(1), quale profondità di riflessione ci si poteva aspettare?
Piuttosto, c'è stata la conferma che il lavoro della Commissione non era tanto orientato ad una "risistemazione" della Carta Costituzionale alla luce dei 50 anni passati, con l'intento cioè di correggere gli aspetti più critici, quanto ad una ridefinizione complessiva funzionale agli attuali equilibri di potere politico ed economico.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti:

- un presidenzialismo a tutti i costi, a torto ritenuto depotenziato, in grado di mortificare il Parlamento attraverso il potere di scioglimento;
- un'indicazione di legge elettorale che accentua i difetti tipici del maggioritario, e cioè la sovrarappresentazione istituzionale e quindi l'enorme potere di ricatto del pulviscolo del "centro politico", ma ugualmente in grado di marginalizzare la rappresentanza politica delle istanze e degli interessi sociali incompatibili con politiche di governo asservite alle "esigenze tecniche dei mercati";
- un progetto di federalismo tutto teso a realizzare per altre vie la disgregazione dello "Stato sociale";
- un nuovo articolato costituzionale sulla giustizia che si spiega soltanto nell'ottica di uno stravolgimento dell'attuale equilibrio fra i poteri, da effettuarsi nel prossimo futuro in sede di esame parlamentare del progetto di revisione costituzionale (in sede di Bicamerale si è infatti preferito evitare l'esame degli emendamenti, probabilmente per meglio "preparare" l'opinione pubblica!), e con ciò rinviando inutilmente (dolosamente!) gli interventi legislativi di tipo ordinario che oggi potrebbero permettere di risolvere gran parte delle disfunzioni della macchina giudiziaria;
- infine, una sorta di tricameralismo che ... chi lo capisce è bravo!

Per tutte queste ragioni, ci è sembrato quanto mai urgente un lavoro di documentazione e approfondimento di quanto è avvenuto in questi ultimi mesi.
E nel ringraziare coloro che hanno contribuito a questo lavoro, con opinioni non sempre coincidenti ma in ogni caso con sincero spirito di confronto, cogliamo l'occasione per sottolineare come tutta l'opera della Commissione Bicamerale abbia invece dato l'impressione di un approccio alle questioni fortemente contaminato da "altri interessi".
Un giudizio certamente duro; ma che nonostante ciò non riesce a dare l'esatta percezione della pervicacia con la quale i lavori della Commissione sono stati indirizzati per elaborare soltanto delle specifiche soluzioni. Basti ricordare la farsa della contrapposizione tra il "premierato forte" ed il "presidenzialismo", che non nasce dalle proposte di legge presentate prima dell'istituzione della Bicamerale, ma che è stata imposta come base di discussione sin dalle prime battute.
Tutto lo schieramento dell'Ulivo ha come nulla accantonato la possibilità di formare una propria maggioranza, intorno ad una proposta di premierato più vicina al modello tedesco, nonostante gran parte dei progetti di legge presentati dai parlamentari del centro-sinistra indicassero questa e non altre soluzioni. Il tutto per aderire ad una confusa soluzione di "premierato forte" nella quale avrebbe potuto riconoscersi pure la destra; pena il rischio del fallimento della Bicamerale.
L'alibi dell'accordo "largo" per giustificare soluzioni incredibili prima (il premierato forte); l'accettazione del sistema presidenziale poi. No, risulta veramente difficile credere alla neutralità degli "interessi", evidentemente presenti in entrambi gli schieramenti, in ordine a tutte le scelte fatte in sede di Commissione Bicamerale.

Associazione Malcolm X - mx@mclink.it
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Nota 1) Il premierato forte, ad esempio, oltre che portare il sistema istituzionale al di fuori della tradizione democratico-parlamentare, al pari del presidenzialismo, è una "trovata" dell'ultima ora e tutta italiana. E va purtroppo constatato quanto penosi ed inconcludenti siano stati i diversi tentativi dell'Ulivo di dare a questo tipo di proposta un minimo di credibilità. Ritorna al testo

 
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Bicamerale:
La controriforma della giustizia

di Domenico Gallo (Comitato per la democrazia costituzionale)

Le disposizioni in materia di giurisdizione hanno riscritto l'intero titolo della Costituzione dedicato alla magistratura. Non era affatto scontato che il capitolo della giurisdizione dovesse essere riscritto dalla Bicamerale.
Ciò perché il dibattito politico culturale ed elettorale sulle riforme istituzionali si è concentrato sui problemi della governabilità, sull'esigenza di assicurare la stabilità e l'efficienza dell'azione politica di governo, mentre l'esigenza di profonde riforme dell'assetto costituzionale della giurisdizione, era stata avanzata ad alta voce - in passato - soltanto dagli esponenti di quella classe politica di Governo travolta dagli scandali di tangentopoli. In altre parole, in passato, soltanto Bettino Craxi e Pietro Longo avevano invocato una riforma dei principi costituzionali in tema di giurisdizione, e non si può dire - con il senno del poi - che non avessero dei validi motivi (dal loro punto di vista) per farlo.
Se l'obiettivo della Riforma costituzionale è quello di rafforzare i poteri di azione e di governo, è evidente che questo nuovo assetto istituzionale dovrebbe portare ad un rafforzamento dei poteri di controllo per non alterare l'equilibrio democratico, invece che ad un loro depotenziamento, come in effetti si è fatto.
Quando si pone mano ad una riforma così impegnativa come quella di riscrivere le norme sulla giurisdizione occorrerebbe una chiara diagnosi dei mali che si vogliono combattere e l'apprestamento di rimedi che siano idonei a curare i mali denunziati. Le forze politiche dovrebbero dichiarare quali sono gli obiettivi che si prefiggono, cosa vogliono realizzare e quali sono gli strumenti più adatti allo scopo. Sarebbe interessante che qualcuno ci spiegasse quali sono gli obiettivi che il progetto di riforma vuole perseguire.
Tutti si rendono conto che il servizio giustizia in Italia non funziona in modo perfetto, che ottenere la tutela giurisdizionale dei propri diritti, a volte è una vera e propria via crucis e che la giustizia civile, per l'enorme dilatazione dei tempi, si trasforma spesso in denegata giustizia.
E tuttavia, dal punto di vista dei bisogni e dei diritti dei cittadini, se c'è un difetto che non può essere rimproverato alla giustizia italiana è quello relativo al livello di indipendenza reale raggiunto nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali nel loro complesso.
Se si vogliono affrontare i problemi della giurisdizione, riscrivendo la Costituzione, il male da curare non è certamente il livello di indipendenza e di autonomia raggiunto dall'istituzione nel suo complesso e da ogni singolo magistrato.
Eppure è proprio questa la "cura" che ha in modo ossessivo perseguito il progetto licenziato dalla Bicamerale. Tutti i "rimedi" che sono stati prefigurati, nei differenti settori e nelle differenti materie, si combinano fra loro ed hanno un effetto convergente che ha come unico risultato quello di ridimensionare drasticamente l'autonomia della magistratura ordinaria e di ogni singolo magistrato, comprimendo anche il principio dell'imparzialità e della precostituzione del giudice ( giudice naturale), senza che ciò possa comportare vantaggio alcuno agli utenti del servizio giustizia.

Due sono le principali direzioni di marcia perseguite per realizzare questo disegno:
a) Verticalizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero;
b) Neutralizzazione del ruolo del C.S.M.
La verticalizzazione degli Uffici del P.M. avviene in due modi: mediante la norma (2° comma dell'art. 119) che prevede che: "le norme sull'ordinamento giudiziario assicurano il coordinamento interno e l'unità di azione degli uffici del Pubblico Ministero" e mediante la norma (art. 122, 4° comma) che prevede l'istituzione di una sezione del C.S.M. per i magistrati del P.M.
A questo riguardo va rilevato che il coordinamento delle indagini, attività necessaria ed imprescindibile, è pienamente assicurato dal codice di rito (art. 371 e 371 bis c.p.p.), e reso particolarmente efficace dall'istituzione della Procura nazionale antimafia (di qui l'inutilità di prevederlo in costituzione). Quello che non è assolutamente accettabile è che si possa programmare l'unità di azione degli uffici del Pubblico Ministero. Una cosa del genere comporta la creazione di un vertice che si sovrapponga a tutti gli uffici del P.M., quindi la verticalizzazione del P.M., la creazione di un super P.M. a cui tutti gli altri siano sottoposti attraverso un vero e proprio rapporto gerarchico. In questo modo viene profondamente modificata la natura del potere giudiziario (a cui il P.M. partecipa) che per sua natura (e nell'interesse dei cittadini) è un potere decentrato e distribuito sul territorio.
La verticalizzazione incide negativamente sull'efficacia dell'azione di controllo di legalità ed accresce il pericolo di inquinamenti, corruzioni o arbitri nella stessa misura in cui fa decrescere la responsabilità individuale dei singoli magistrati.
La verticalizzazione dell'ufficio del P.M. viene completata attraverso la divisione in due del CSM. e la previsione di una sezione riservata ai magistrati del PM. Tale sezione, anche se non può costituire un "vertice" in senso tecnico degli Uffici del PM, è evidente che, essendo necessariamente composta da membri provenienti dall'ufficio del PM e separando la gestione del PM da tutto il resto dell'attività giudiziaria, comporterà una corporativizzazione del PM, funzionale ad un maggiore distacco dei magistrati del PM dalla cultura della giurisdizione.
La novità di maggiore spessore introdotta dal disegno di riforma licenziato dalla Bicamerale è quella che attiene al ruolo ed alle funzioni del C.S.M., organo deputato dalla Costituzione vigente ad assicurare la tutela dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura nel suo complesso.
Proprio per tale motivo i costituenti previdero una proporzione fra membri laici e membri togati nettamente favorevole alla componente professionale (2/3). La Bicamerale, nel dichiarato intento di diminuire la "politicizzazione" del Consiglio ha modificato questo rapporto, incrementando la componente "politica" e diminuendo quella professionale (2/5 - 3/5). È una modifica che, da sola, non incide fortemente sul funzionamento del Consiglio, ma accoppiata agli altri "rimedi" escogitati gioca comunque un ruolo nel decrementare il tasso di indipendenza della magistratura.
Quello che appare fortemente innovativo ed eversivo della disciplina costituzionale vigente è il divieto imposto al CSM della attività c.d. paranormativa, ivi compreso il potere tabellare, previsto dalle leggi vigenti di ordinamento giudiziario.
Quando la riforma stabilisce che "spettano ai Consigli Superiori della Magistratura esclusivamente le funzioni amministrative riguardanti le assegnazioni, i trasferimenti e le promozioni nei riguardi dei giudici e dei magistrati del PM" (art. 124) vuol dire che il CSM è stato privato del c.d. "potere tabellare", cioè del potere di disciplinare l'assegnazione degli affari negli uffici giudiziari e la rotazione dei magistrati secondo criteri obiettivi e prestabiliti, che il Consiglio ha esercitato massimamente in attuazione di leggi vigenti.
L'esercizio di tale potere è volto a rendere maggiormente trasparente il servizio giustizia, a rimuovere incrostazioni di potere sempre possibili, a garantire che il principio del giudice naturale, attraverso la precostituzione del giudice, sia assicurato anche all'interno dei singoli uffici giudiziari e quindi a rendere più imparziale l'esercizio della giurisdizione nel suo complesso.
Valutare negativamente tale attività e porre addirittura un divieto costituzionale al riguardo, comporta un forte indebolimento del principio del giudice naturale e conseguentemente della stessa imparzialità del giudice, con il pericolo di ritorno a pratiche di assegnazione selvaggia o interessata degli affari giudiziari al fine di pilotarne l'esito.
Quando viene stabilito che "le norme sugli ordinamenti giudiziari ordinario ed amministrativo sono stabilite esclusivamente con legge" (art. 128), si intende privare il Consiglio del potere di dare istruzioni agli uffici giudiziari nei casi in cui sorgono problemi di interpretazione delle leggi di ordinamento giudiziario.
Ciò è palesemente assurdo poiché non esistono leggi che non hanno bisogno di interpretazione e non può dubitarsi che l'interpretazione delle leggi di ordinamento giudiziario non possa essere attribuita ad organi diversi dal CSM, tant'è vero che la stessa Commissione Paladin, nominata da Cossiga, affrontando il problema, concluse che la riserva di legge in tema di ordinamento giudiziario è assoluta nei confronti del potere esecutivo ma relativa nei confronti del potere normativo del CSM.
Tutte le altre innovazioni introdotte con il progetto di riforma sono meramente di contorno alle due scelte fondamentali in tema di PM e di CSM.
Talune hanno un mero sapore ingiurioso nei confronti del corpo dei magistrati, come la norma che prevede che, nell'esercizio delle loro funzioni i magistrati si devono attenere al principio di "correttezza" (è come scrivere in Costituzione che i Parlamentari non devono rubare!) oppure sono mirate a limitarne i diritti civili (come la norma che toglie ai magistrati il diritto di elettorato passivo).

Altre contengono delle palesi assurdità, come la pretesa di "costituzionalizzare" il principio dell'"oralità" che - se attuata - renderebbe incostituzionale il processo amministrativo, il processo civile, e metterebbe fuori legge i riti alternativi nel processo penale; altre sono meramente decorative, come la ricopiatura della norma dell'art. VI della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, tirata fuori a mo' di foglia di fico. Quel che è ancora più grave è l'effetto diseducativo che hanno queste norme. Il lettore superficiale avrà l'impressione che i diritti processuali dell'imputato ed il principio del contraddittorio non esistevano nell'ordinamento giuridico italiano fondato sulla costituzione del 48 e che c'è voluta l'opera di grandi costituenti come Boato, Berlusconi o la Parenti per introdurre, ex novo, questi principi elementari di diritto.
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Un risultato scontato
di Franco Ragusa (Ass. Malcolm X)
 
Nell'analizzare il lavoro della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali, conclusosi con un progetto di revisione costituzionale presidenzialista e di stampo neoliberista, la prima considerazione da fare è relativa alla prevedibilità del risultato politico raggiunto.

Brevemente, basti ricordare che l'istituzione della Commissione Bicamerale nasce dalle ceneri del fallito tentativo Maccanico di formare un nuovo Governo, per prolungare l'agonia della XII legislatura, proprio in funzione della realizzazione di una riforma costituzionale sul modello presidenzialista o comunque fondata sull'elezione diretta del "Capo dell'Esecutivo". Il tutto sulla base di un dialogo stucchevolmente amichevole tra Berlusconi e D'Alema, concordi nel ritenere che tra le due soluzioni non vi fossero sostanziali punti di divergenza.
Come si ricorderà, l'accordo fallì in dirittura d'arrivo, non tanto perché fossero saltate le ragioni dell'intesa, quanto per la convinzione del Polo di poter vincere le elezioni. Ad un certo punto, infatti, il continuo gioco al rialzo portato avanti da Fini non lasciò più margini per qualsivoglia trattativa. Questo aspetto della questione, però, non ha mai stimolato alcuna riflessione politica riguardo ai possibili umori del paese di fronte al merito della trattativa. Neanche è da dire che siano mancate possibilità di riscontro: soltanto due mesi dopo il Polo perse le elezioni!
Pensando quindi alla sconfitta elettorale del Polo, che per tutta la campagna elettorale aveva fatto del presidenzialismo un punto qualificante del proprio programma(1), e verificare che, paradossalmente (nonostante le elezioni perse!), le posizioni uscite vincenti dai lavori della Bicamerale sono proprio quelle del Polo, viene naturale chiedersi a cosa diavolo sia servito votare Ulivo.

È servito così a poco che neanche si era finito di festeggiare la vittoria elettorale del centro-sinistra che già veniva votata, in prima lettura, l'istituzione di una Commissione Bicamerale per le riforme con praticamente già delineate le direttrici lungo le quali sviluppare la nuova forma di governo(2).
Altro motivo di poca sorpresa, è stata poi la spregiudicata interpretazione della Legge costituzionale istitutiva della Bicamerale, per cui i lavori di revisione hanno toccato profondamente anche tutto il Titolo IV della Seconda Parte della Costituzione: "La Magistratura"(3). Sul punto, infatti, la posizione di Forza Italia è sempre stata molto chiara, pena il fallimento di qualsiasi accordo su tutto il resto.
Non sorprende neanche, infine, il brutto "federalismo" realizzato. Proprio i lavori della Bicamerale hanno messo in luce, se mai ce ne fosse stato bisogno, quali erano e sono le reali intenzioni dei tanti federalisti di cui è divenuta piena l'Italia: una richiesta di autonomia che nasconde malamente gli interessi di un'ideologia liberista, insofferente di fronte ad un quadro istituzionale considerato ancora troppo politico e non pienamente funzionale alle esigenze tecniche dei mercati, che ha la necessità di estendere i luoghi della competizione all'interno degli stati nazionali. Una competizione, però, che deve riguardare l'aspetto del come assicurare i profitti all'impresa intervenendo soltanto sui meccanismi di riduzioni dei costi, in qualunque forma si estrinsechino: dal salario diretto alle tutele giuridiche dei lavoratori; dai costi dell'infrastruttura sociale per arrivare ad introdurre elementi di flessibilità anche sulle prestazioni dello Stato sociale. Separare, quindi, non per aumentare l'autogoverno, ma per scalfire lo status dei diritti collettivi, da flessibilizzare, zona per zona, in funzione dei sovraprofitti che chiedono di essere garantiti.

Tentativi, questi, ben presenti nella prima bozza presentata dal relatore D'Onofrio e che soltanto in parte risultano attenuati nel testo finale. Basti riflettere sul principio di prestazione minima introdotto dall'art. 59 - punto c)(4); e l'ormai famoso articolo 56, che assegna all'autonomia dei privati una sorta di funzione pubblica rispetto alla quale l'intervento pubblico deve ritrarsi(5). Per non dire, come si evidenzia nella relazione di minoranza, della contraddittorietà del principio di autonomia presente nel secondo comma dell'art 65, che, se da un lato prevede un fondo perequativo per "consentire alle Regioni beneficiarie di svolgere le funzioni ed erogare i servizi di loro competenza ordinaria ad un livello di adeguatezza medio"; dall'altro impone alle stesse dei criteri esterni di giudizio, "in condizioni di massima efficienza ed economicità", tali da pregiudicare, per l'appunto, l'autonomia delle scelte. Il tutto appare poi ancora più in contraddizione laddove si consideri che l'ultimo comma dell'art. 59 prevede soltanto un limitatissimo potere d'intervento sostitutivo da parte del Governo(6). Mentre cioè s'impongono dei criteri di efficienza ed economicità, esercitando in tal modo una funzione più o meno nascosta d'indirizzo, nessun criterio è stato invece previsto per stabilire eventuali inadempienze delle Regioni, relativamente all'obbligo di garantire le prestazioni "minime" fissate dalla Repubblica, tali da giustificare che a queste debba sostituirsi, più per dovere che per diritto, il Governo.
Ma se il complesso della riforma era ampiamente prevedibile, diversamente, l'entità del sostegno che il testo licenziato dalla Commissione Bicamerale è riuscito a raccogliere va ben oltre le più pessimistiche delle previsioni: nel limitarsi ad esaminare i mutamenti introdotti relativamente alla forma di governo, appaiono quanto mai curiose le posizioni assunte da chi, soltanto pochi mesi fa, si dichiarava nemico convinto delle formule presidenzialiste e che oggi, invece, di fronte ad una formula molto vicina al modello semipresidenziale francese, riesce a trovare interessanti spunti di novità.

Va infatti sottolineato che il testo finale è stato votato a larga maggioranza e con il convinto sostegno dei Popolari e dei Verdi; per non dire dell'On. Crucianelli (Comunisti Unitari) che ha optato per una scelta "molto originale": l'astensione!?
I Popolari ed i Verdi, nello specifico, sono riusciti a passare, nel breve volgere di pochi mesi, da posizioni di riforma che s'ispiravano al "cancellierato tedesco" ad una più marcata preferenza per il "premierato forte"(7), per poi accettare tranquillamente come interna alla tradizione parlamentare la scelta del presidenzialismo.
Sorprendente, in tal senso, è l'interpretazione che di tale scelta dà l'On. Marini nella sua dichiarazione di voto:
«... il Presidente eletto è per noi un Presidente di garanzia e Dio solo sa se oggi non vi sia bisogno, rispetto all'unità del paese ed ai problemi aperti in mezza Italia, di un Presidente eletto e garante di questa unità, il quale non abbia poteri diretti di governo. Rispetto a questo Presidente garante, invochiamo la linearità ed anche la proficuità di un Governo con una chiara maggioranza, che trovi nel Parlamento la continuità del suo potere e del suo ruolo.»
È evidente che l'On. Marini ha grandi doti di carattere, per cui probabilmente riuscirebbe a trovare motivi di ottimismo anche di fronte alla peggiore delle sciagure; o altrimenti c'è da supporre che si trovasse a votare lì per sbaglio e che neanche conoscesse il testo per il quale si è prodotto in un'accorata difesa sicuramente degna di miglior causa.

A dargli infatti una prima smentita, riguardo al punto che il Presidente non avrebbe poteri diretti di governo, c'è la previsione contenuta nell'art. 76 che impone l'obbligo delle dimissioni del Governo nelle mani del Presidente appena eletto. La prima domanda da porsi è quindi estremamente semplice: che ruolo svolge il Presidente appena eletto nel momento in cui potrebbe decidere di indire nuove elezioni a seguito delle obbligatorie dimissioni del Governo?
Si tratta di un ruolo di garanzia, o piuttosto a favore di una parte, di quella che con lui ha vinto le elezioni presidenziali e che quindi pretende di rimettere in discussione la direzione politica del paese o, diversamente, di avere la possibilità di un'immediata riconferma della classe di governo attraverso il rinnovo della Camera politica per poter così avere altri 5 anni d'incontrastata governabilità?
Non è questo un meccanismo di formazione dei poteri in grado di condizionare l'azione del Governo?
Se infatti l'opportunità di cambiare o di ribadire l'efficacia di un determinato indirizzo di governo è data dall'elezione diretta del Presidente, inevitabilmente la campagna elettorale presidenziale sarà impostata sui programmi di governo. E come si fa, dopo aver eletto il Presidente sulla base di un preciso programma di governo, sostenere poi che questo debba ritrarsi ed assumere funzioni di garanzia una volta nominato il Primo ministro?
Considerando poi il mutato equilibrio istituzionale tra i poteri, anche il rinvio delle leggi o dei regolamenti assume, di fronte ad un Presidente con un programma di governo alle spalle e forte dell'elezione diretta, i connotati veri e propri di un potere di indirizzo politico tipico dei sistemi presidenziali: non più, cioè, la previsione di un intervento posto a garanzia della legalità costituzionale, ma a garanzia degli interessi politici rappresentati dal Presidente che, attraverso il rinvio, potrebbe cercare d'influire sull'indirizzo legislativo e di governo.
Ma la proposta di revisione non si ferma qui, e ben altri e più decisivi poteri d'indirizzo sono stati assegnati al Presidente della Repubblica. Su tutti, la combinazione dell'esclusivo potere di nomina del Primo ministro combinato con quello della minaccia di scioglimento della Camera dei deputati.

Mentre a questa Camera, infatti, non è permesso altro che presentare e votare una mozione di sfiducia al Governo, le successive decisioni sul come risolvere la crisi politica, eventualmente sopraggiunta, vengono lasciate al solo arbitrio del Presidente della Repubblica, che può decidere se indire nuove elezioni o se nominare un nuovo Primo ministro.
Tenendo conto che nella proposta di revisione l'art. 76 è congegnato per facilitare la formazione di "Governi di minoranza", è facile prevedere che il futuro Presidente utilizzerà la minaccia dello scioglimento per indurre a più miti consigli il Parlamento e per tentare possibili "Governi del Presidente"; per non dire che così, tra l'altro, laddove il Presidente riuscisse a mettere in piedi una maggioranza parlamentare trasversale o comunque diversa da quella uscita dalle elezioni, si verrebbe a legittimare la possibilità, più o meno descritta come la peste bubbonica dell'attuale sistema, di realizzare dei veri e propri ribaltoni: "Lui può!", si potrebbe sintetizzare il tutto con una battuta(8).
E sempre relativamente alla possibilità, data soltanto al Presidente, di poter tentare la formazione di un nuovo Governo, non è neanche da escludere che si possa arrivare ad un serio conflitto politico-istituzionale tra il Presidente e "quel Parlamento" che si "ostinasse" a rifiutare le proposte di soluzione presidenziali:
"Ma come, il Presidente eletto dal popolo, al quale viene impedito di formare il Governo in grado di risolvere la crisi apertasi in Parlamento e nel Paese(9) a seguito del disfacimento della maggioranza parlamentare?"

Altra eventualità che non può poi essere affatto esclusa, in quanto con ogni probabilità sarà questo lo scenario politico con il quale ci si dovrà abituare a convivere, è che il Presidente cerchi di condizionare, forte del sostegno di una sufficiente forza parlamentare di maggioranza in grado di minare la stabilità dell'Esecutivo, l'indirizzo politico del Governo(10). Se ad esempio il Primo ministro si rifiutasse di rimuovere uno dei ministri, il Presidente potrebbe provocare, attraverso il gruppo di parlamentari a lui fedele e forte della consapevolezza che nel caso estremo di dimissioni dell'intero Governo il pallino tornerebbe sulle sue mani, un'acuta fase di crisi politica della maggioranza. E qui potrebbe scattare l'ennesimo paradosso. Per evitare infatti di subire passivamente iniziative presidenziali di questo tipo, sia il Primo ministro che parti consistenti del Parlamento potrebbero essere tentati di modificare la maggioranza parlamentare che sostiene il Governo, al fine di superare il momento di stallo o l'eventuale mozione di sfiducia, e non consegnare così la decisione sul come risolvere la crisi al Presidente. Un'eventualità, questa, che potrebbe aprire una fase politica molto accesa ed in grado di produrre profonde lacerazioni nei rapporti fra i poteri e con pericolosi riflessi sul tessuto sociale: da un lato, infatti, una nuova maggioranza parlamentare di governo diversa da quella "in teoria" (11) votata dagli elettori; dall'altro un Presidente eletto direttamente che avocherebbe a sé ogni potere di discrezionalità in ordine all'evolversi della crisi politica che da lui, però, potrebbe benissimo essere stata arbitrariamente provocata. Per i sostenitori del presidenzialismo, chiaramente, non di libero arbitrio si tratterebbe, ma di un legittimo esercizio dei poteri che l'elezione diretta implicitamente conferisce.
Insomma, se tutto questo vuol dire aver istituito il ruolo del Presidente di garanzia ed un Governo che risponde al Parlamento in ordine al suo potere ed al suo ruolo, non oso immaginare cos'altro potrebbe capitarci laddove venissero accolte le richieste di modifica avanzate dai presidenzialisti più convinti, alcuni di questi presenti nello schieramento dell'Ulivo.
Ma ancora più sorprendente, per certi aspetti, è stata la dichiarazione di voto dell'On. Pieroni dei Verdi, della quale è bene riportare alcuni stralci significativi:
"Ciò che mi rende perplesso in questo atteggiamento critico così enfatizzato, atteggiamento ripreso dall'intervento dal collega D'Amico che mi ha preceduto, è la stranezza di questo paese, dove coloro che si dicono riformatori alla fine trovano sempre un buon motivo di ordine generale, l'aspettativa di una palingenesi, per opporsi a votare contro qualche riforma concreta, seria, precisa e individuata. ... Vi è sempre una chiave universale, una formula magica che dovrebbe indurci a respingere proposte concrete, fattibili, realizzabili, certo non perfette, sicuramente perfettibili, però a portata di mano qui ed ora."

È vero, in questo paese c'è chi lavora sempre e soltanto per stravolgere completamente, a proprio esclusivo vantaggio, gli assetti istituzionali; altrimenti non se ne fa nulla e semplici proposte in grado di risolvere le disfunzioni che sono sotto gli occhi di tutti non vengono neanche prese in considerazione.
Ma non è questo il caso, On. Pieroni: qui la palingenesi c'è stata; probabilmente non nella misura desiderata da alcuni, ma non per questo meno asservita al disegno di totale stravolgimento dei principi costituzionali portato avanti dalla destra... e che destra!
E dire oggi, riprendendo la dichiarazione di voto dell'On. Pieroni, che il lavoro fatto dalla Bicamerale ha prodotto risultati parziali significativi «ad un punto tale che, se entrassero in vigore fin da oggi, rappresenterebbero delle sfide di non poco conto rispetto alle esigenze di rinnovamento del nostro paese», significa aver abdicato sin da ora su tutta la linea.
Significa, soprattutto, aver aderito a concetti di "stabilità di governo" e di "efficienza" fondati sull'esclusione, relativamente all'individuazione dei soggetti chiamati a partecipare alla determinazione dell'azione di governo, di ampi settori sociali.

Con il presidenzialismo, infatti, si completa il passaggio ad un sistema bipolare rigido, già parzialmente realizzato attraverso l'introduzione della legge elettorale maggioritaria, in grado di escludere dai luoghi istituzionali i conflitti sociali da considerare scomodi.
Non solo e soltanto a causa dell'azzeramento della rappresentanza che con l'elezione diretta del Presidente si realizza, non potendosi, in una scelta così limitata, articolare la complessità delle relazioni sociali; ma anche e soprattutto per la "necessità" di escogitare gli ovvi contrappesi da contrapporre all'eventuale dilagare dell'attività presidenziale di cui precedentemente si è fatto un breve accenno.
È lo stesso relatore Salvi, nella relazione finale, a mettere in guardia contro il rischio Weimar in presenza di un Parlamento dagli equilibri politici ben più complessi in ordine agli interessi rappresentati(12). Di qui l'esigenza di una legge elettorale in grado di azzerare, anche in sede parlamentare, la rappresentanza, e questo al fine di avere maggioranze di governo forti in grado di "resistere" al Presidente.
Una scelta che quindi s'impone in funzione della forma di governo adottata; e quindi un rimedio che è chiaramente peggiore del male, che ben lascia capire quanta ipocrisia e quanto dolo intellettuale vi fossero in chi ha avuto la faccia tosta di sostenere che una forma di governo valeva l'altra e che la tradizione democratico-parlamentare non era e non è affatto incompatibile con un'evoluzione dell'attuale sistema istituzionale in senso presidenziale.
Un'evoluzione che non tiene conto dei motivi che hanno determinato il fallimento del tentativo di "bipolarizzare a tavolino" l'estrema complessità della realtà sociale italiana, ma che cerca di raggiungere ad ogni costo questo risultato mutando la forma di governo e costringendo così, attraverso questa, l'accettazione della logica maggioritaria, pena il rischio del malfunzionamento della macchina istituzionale. Come dire, un azzeramento bipolare da imporre, o meglio, che s'impone alla complessità della dialettica democratica "per amore o per forza": o perché si accetta di eleggere un Parlamento privo della rappresentanza e del potere di intervenire sulle politiche di governo di ampi settori sociali; o perché, in assenza di questa condizione, ci penserebbe comunque il Presidente a "semplificare" nella sua persona la logica del "chi arriva primo prende tutto".
Non essendo cioè riusciti ad escludere dalla mediazione istituzionale le realtà sociali che non si prestano ad essere "normalizzate" in una logica di concertazione dei contrasti sociali completamente asservita alle esigenze dell'impresa, si è reso indispensabile, sia per la destra che per la "sinistra liberista", portare avanti il salto di qualità della forma di governo presidenziale e l'indicazione di una nuova legge elettorale di tipo maggioritario a due turni(13).
E riguardo a quest'ultimo aspetto, bisogna purtroppo rilevare che anche Rifondazione Comunista ha sottoscritto l'impegno a realizzare una legge elettorale a doppio turno, fondata sul ballottaggio di coalizione anziché di collegio; il tutto, probabilmente, per contrattare la persistenza della quota proporzionale.
Di tutti i doppi turni possibili, però, quello che prevede il «ballottaggio unico nazionale tra le due coalizioni che nel primo turno hanno ottenuto i più alti numeri di seggi» è sicuramente il peggiore. Mentre viene infatti amplificato il peso politico dei partiti di centro, i partiti che non hanno alcun potere di contrattazione elettorale, perché rigidamente schierati agli estremi dei poli politici e quindi senza la possibilità di poter minacciare travasi di voti da una parte all'altra degli schieramenti, verranno automaticamente tagliati fuori dagli accordi elettorali e, quindi, di programma(14).
Per quale motivo, ad esempio, l'Ulivo dovrebbe essere costretto a stipulare un accordo elettorale e politico con Rifondazione, se al primo turno quello che conta è arrivare fra i primi due? Forse che senza Rifondazione potrebbe esservi il timore di non passare il turno, in un sistema che prevede il ballottaggio di coalizione? E una volta passato il turno, forse che l'elettorato di Rifondazione potrebbe decidere di votare per il centro-destra, cosa che invece potrebbe benissimo fare l'elettore di centro?
La peculiarità della legge proposta, infatti, è che con l'attuale quadro politico(15) si sa già in partenza che a passare il turno saranno le coalizioni dell'Ulivo e del Polo; Lega o non Lega, Rifondazione o non Rifondazione, o quale che sarà il numero dei candidati non coalizzati che, nel primo turno, potrebbero strappare dei seggi alle due coalizioni maggiori.
Rendendo inoltre sostanzialmente ininfluenti i risultati del primo turno, dato che la maggioranza parlamentare si conquista in ogni caso al secondo turno, non vi è più l'obbligo, per le coalizioni maggiori, di dover stipulare particolari accordi politici con i partiti estremi per cercare di conquistare quanti più collegi già nella prima tornata elettorale: nel primo turno è infatti importante che a livello nazionale si arrivi fra i primi due, con 100 o con 50 collegi vinti non importa, e nulla di più.
Doppio turno per doppio turno, allora, molto meglio il doppio turno di collegio, con ballottaggio limitato ai primi due candidati o a tutti quelli che superino una determinata quota d'accesso.

Nel caso del ballottaggio secco, limitato ai primi due candidati, per le coalizioni maggiori non sempre potrebbe esservi la certezza di superare il primo turno; basti pensare che solo nel nord non sarebbero pochi i collegi dove la Lega riuscirebbe a garantirsi il passaggio al secondo turno. Già nel primo turno, quindi, per le coalizioni maggiori potrebbe rendersi necessario allargare, quanto più possibile, la propria base elettorale, dovendo così per forza di cose includere anche quelle forze rispetto alle quali potrebbero sì confidare in un recupero dei voti al secondo turno, ma a condizione di arrivarvi. Certo, in mancanza di terzi incomodi tutto il ragionamento salta. Ma qui non si sta facendo l'elogio del tal doppio turno, al quale ci si dovrebbe sempre opporre, indipendentemente dal tipo di soluzione adotta; ma se doppio turno deve essere, che ci sia almeno una minima possibilità per poter tentare un intervento politico.
E anche nel caso che al ballottaggio possano partecipare più candidati, in base ad una determinata quota d'accesso, ben venga il "mercato delle vacche" alla francese, che sarebbe sicuramente non più deleterio di quello al quale siamo stati abituati dalle due ultime tornate elettorali, dove gli accordi per la divisione dei collegi tra i diversi partiti delle coalizioni sono stati contrassegnati da "temi" politici di bassissimo profilo. Quindi, molto cinicamente, tra voti che potrebbero andare dispersi e voti che potrebbero decidere la vittoria finale di una coalizione oppure dell'altra, a seconda di quanti collegi queste potrebbero essere disposte a cedere per poterne conquistare degli altri, ci sarebbe lo spazio per ottenere qualche utile accordo elettorale anche per quei partiti non facilmente assoggettabili alla piatta logica bipolare Ulivo-Polo.
Va da sé che tutto questo modo di ragionare non rappresenta il massimo della "politica"; anzi, si impiegherebbe volentieri il tempo in altre attività. Ma di fronte alla lesione del più elementare dei principi di democrazia, il diritto alla rappresentanza, non ci si può permettere il lusso di guardare troppo per il sottile. Anche perché, può piacere o no, le intese politiche si stipulano sulla base dei rapporti di forza.
Rapporti di forza che, per le minoranze in genere, sono stati fortemente messi in discussione anche dalle modifiche introdotte in materia di referendum abrogativo.

Con l'innalzamento del numero delle firme, da 500.000 a 800.000, si è definitivamente consegnato lo strumento del referendum abrogativo ai grandi gruppi del potere politico ed economico. In tal senso, se l'obiettivo era quello di "limitare" Pannella, chi ha promosso e sostenuto tale modifica ha chiaramente mostrato di non aver capito quali interessi si muovono dietro le iniziative del radicale, che negli ultimi tempi è sempre più apertamente sostenuto da importanti settori del potere economico; per cui, non saranno certo 300.000 firme in più a spaventare i burattinai che di volta in volta decideranno di mettere in moto la macchina referendaria per presentare referendum a grappoli.
Queste 300.000 firme in più, invece, costituiranno un serio ostacolo per le realtà sociali che già ora non dispongono di mezzi organizzativi e finanziari tali da poter sostenere l'onerosa raccolta di firme.
Un intervento, quindi, che non frenerà l'abuso di chi con le solite firme dei soliti 800.000 cittadini presenterà una come cento proposte di referendum; ma che servirà soltanto per rendere lo strumento inaccessibile a chi, per i pochi mezzi di cui può disporre, vi farebbe ricorso per questioni realmente sentite.
Altra modifica a dir poco curiosa, in quanto risulta poco chiaro come potrebbe venire attuata, è stato il prevedere una legge che determini "il numero massimo di referendum da svolgere in ciascuna consultazione popolare".
Se anche in questo caso si è pensato ad una soluzione per mettere ordine di fronte ad abusi tipo quelli di Pannella, c'è soltanto da immaginare le matte risate che questi ora si starà facendo. La sua prossima iniziativa sarà sicuramente quella di presentare cento referendum, formalmente di cento comitati promotori diversi, sempre con le solite firme, e mandare così in tilt l'intera macchina referendaria.
Quanti di questi cento referendum potranno essere svolti in una singola consultazione? E quante consultazioni l'anno sarà possibile fare? E dopo quante consultazioni ci sarà la possibilità, per un altro comitato promotore, non riconducibile alle iniziative di Pannella, di vedere svolgere il proprio referendum? Su quale base, infatti, si potrebbe posticipare il referendum del tal comitato, per favorire lo svolgimento del referendum proposto da un altro comitato?
Insomma, se proprio si voleva dare la possibilità, ai tanti populisti di cui è sempre più pieno questo paese, di fare polemica nei confronti della politica del Palazzo in difesa della democrazia diretta offesa e calpestata, con questa trovata dell'art. 106 ci si dovrebbe essere riusciti in pieno.
Diversamente, per evitare in ogni caso di sovraccaricare di proposte referendarie una singola consultazione, al fine di salvaguardare l'uso consapevole ed efficace, da parte dei cittadini, del referendum abrogativo, era forse più opportuno perseguire altre strade. Si poteva, molto più semplicemente, intervenire sul numero massimo di proposte che ogni singolo cittadino può sottoscrivere nell'arco di un anno. Fissando ad esempio questo numero a cinque proposte, il singolo soggetto politico che volesse promuovere 20 referendum, dovrebbe necessariamente raccogliere due milioni di firme e non le solite 500.000 (o 800.000) moltiplicato per venti. Una proposta estremamente semplice da realizzare(16), e in una misura tale da non ledere l'opportunità per le minoranze di ricorrere pienamente allo strumento referendario. Con in più un'opera di scrematura delle proposte che parte dai cittadini stessi, e non dagli interessi politici di chi promuove referendum a grappoli con l'interesse specifico rivolto soltanto su alcuni dei temi proposti.
Fatta questa lunga e al tempo stesso limitata premessa(17), c'è da chiedersi cosa sia ancora possibile fare per contrastare questo tentativo di stravolgimento dei principi sanciti nella Costituzione del '48.

Le scelte sin oggi adottate dal costituzionalismo democratico in genere, hanno purtroppo evidenziato i limiti di un approccio alle questioni puntato più sul quadro politico e sugli equilibri delle forze parlamentari in campo, piuttosto che orientato ad una difesa coerente dei principi. Il punto di svolta di questa "politica di rimessa" si è avuto a gennaio di quest'anno, quando si è preferito non delegittimare il processo di revisione avviatosi, votando o indicando di non votare contro l'istituzione della Commissione Bicamerale, nel timore di aprire la strada all'elezione di un'Assemblea Costituente senza vincoli di mandato riguardo all'oggetto della revisione.
Una posizione di retroguardia che oggi evidenzia tutti i suoi limiti, e che fatalmente si riproporrà nel momento di decidere se votare NO al referendum finale previsto dalla Legge costituzionale che ha istituito la Commissione bicamerale. È bene infatti essere consapevoli, sin da ora, che l'auspicabile vittoria del NO potrebbe venire utilizzata per riproporre posizioni di rifiuto della "politica" dalle vocazioni plebiscitarie.
Va quindi al più presto preparato un terreno di confronto politico che, partendo dalla constatazione della violazione della sostanza del dettato costituzionale in ordine a tutto il processo di revisione costituzionale in corso(18), delinei un ritorno alla legittimità delle procedure da adottare.

In tal senso, però, l'art. 138 della Costituzione ha chiaramente mostrato di non essere in grado di tutelare neanche se stesso. Si impone quindi una sua ridefinizione, alla luce degli effetti prodotti dalla legge elettorale maggioritaria (a meno di un auspicabile ritorno al proporzionale e la definitiva archiviazione del principio dell'azzeramento bipolare), che ne restituisca l'originaria impostazione di sostanza che esso aveva in regime di legge elettorale proporzionale.
Come è da restituire al loro originario equilibrio tutti gli strumenti posti a garanzia e controllo che la logica maggioritaria ha di fatto reso funzionali alle esigenze della maggioranza di governo.
Con il passaggio dal proporzionale al maggioritario, infatti, i poteri di nomina di natura parlamentare hanno acquisito una diversa valenza, potendo divenire di esclusivo dominio della maggioranza parlamentare uscita vincitrice dalle elezioni.
Basti pensare all'elezione del Presidente della Repubblica che, a Costituzione vigente, grazie al maggioritario potrebbe facilmente essere eletto da coalizioni di governo ben più omogenee che nel passato; e per di più non rappresentative dell'effettiva maggioranza degli elettori. Non più un Presidente espressione di un ampio arco di forze politiche e di un variegato insieme di interessi, quindi, ma la diretta espressione del programma di governo uscito premiato dal meccanismo elettorale. A ciò dobbiamo poi aggiungere che questo "Presidente di parte" a sua volta nomina un terzo dei giudici della Corte Costituzionale e presiede il Consiglio superiore della magistratura. Come anche non è da trascurare, indipendentemente dalla maggioranza che potrebbe essere richiesta, il potere di nomina parlamentare relativamente a questi due organi: un terzo dei giudici della Corte Costituzionale e del C.S.M(19).
In altre parole, con il passaggio dal proporzionale al maggioritario e divenuta concreta la possibilità, per il Governo, di poter definire in via pressoché esclusiva la composizione degli organi preposti al controllo della legalità costituzionale.
Ma cosa c'entri tutto questo straripare di competenze con l'esigenza di garantire la stabilità e l'azione di governo è un dato che nei lavori della Bicamerale non è stato minimamente sfiorato, visto che, anche nel progetto di revisione, la questione del come evitare che i controllori siano in gran parte nominati da chi deve essere controllato non è stata affatto risolta; anzi, per certi aspetti si è fatto di peggio.

Tenendo infatti conto dei nuovi poteri attribuiti dal nuovo testo al Presidente della Repubblica, non si capisce perché si è deciso di lasciare a questi la nomina di un terzo dei giudici della Corte Costituzionale. Se a questi 5 giudici aggiungiamo inoltre i 3 di competenza del Senato, laddove il sistema d'elezione per questa Camera dovesse rimanere di tipo maggioritario, e con quindi la concreta possibilità che la maggioranza dei senatori sia riferibile alla stessa parte politica che ha promosso l'elezione del Presidente e che sostiene il Governo, è facile intuire verso quale labile regime di controlli e di garanzie ci si sta dirigendo. Tanto più che anche in ordine alla composizione del CSM si è deciso di aumentare la parte di nomina parlamentare; come anche si è deciso di lasciare la presidenza di questo Organo ad un Presidente della Repubblica con poteri di governo.
Un problema di riequilibrio dei meccanismi di controllo e garanzia, quindi, che non riguarda soltanto il meccanismo di revisione costituzionale fissato dall'art. 138, ma che praticamente investe tutto il funzionamento della macchina istituzionale. Il tutto determinato, è bene ripeterlo, dall'introduzione di una "banalissima" legge ordinaria quale è quella che regola la materia elettorale.

Si tratta certamente di un "paradosso" giuridico che ripropone l'inadeguatezza della vigente disciplina in merito ai modi di accesso e l'individuazione dei soggetti titolati a poter promuovere le questioni di legittimità costituzionale di fronte alla Corte. Ed è per questo che si ritiene largamente insufficiente quanto previsto dagli articoli 134 e 137. Sono certamente comprensibili le ragioni di chi vede dei rischi di snaturamento della funzione giurisdizionale della Corte a causa del possibile eccesso di ricorso alla stessa da parte delle minoranze parlamentari e dei cittadini, come anche potrebbe essere concreto il rischio di paralisi. Problemi, questi, per i quali è certamente necessario trovare delle soluzioni, ma che non possono però giustificare il protrarsi di una situazione che non garantisce l'effettivo controllo della legittimità costituzionale di numerose leggi e atti della Pubblica Amministrazione; le zone franche di cui fa accenno anche il relatore Boato. Per non dire dell'impossibilità, anche nei casi dove il giudizio di illegittimità viene espresso, di riuscire a sanare situazioni consolidate a causa del tardivo intervento (principalmente dovuto ai tempi imposti dai modi d'accesso) della Corte Costituzionale: si veda ad esempio la vicenda legata alla legge Mammì.
Ma ritornando all'introduzione della legge elettorale maggioritaria, di fronte allo sconquasso istituzionale sopravvenuto, il cittadino comune non può che chiedersi se vi sia stata l'oggettiva impossibilità di riuscire a sollevare la questione di illegittimità di fronte alla Corte Costituzionale, o il timore politico di affrontare di petto il responso di un referendum comunque lesivo dei diritti delle minoranze ed in grado di stravolgere l'equilibrio dei poteri definito dalla Costituzione. Domande più che pertinenti, visto che non risultano iniziative in tal senso. Domande che, in ogni caso, mettono in evidenza i limiti di un sistema di controllo di legittimità costituzionale soltanto successivo e che a volte si riduce ad una mera salvaguardia dei soli aspetti formali.
Un esame di sostanza, infatti, avrebbe potuto (dovuto) sancire l'oggettiva incostituzionalità della legge elettorale maggioritaria, non potendosi tollerare l'inversione del principio della superiorità delle fonti. Sono ormai 4 anni che si sta discutendo del come adeguare la Costituzione al nuovo regime di regole "imposto" dal maggioritario... e non viceversa!
Inversione del principio che è alla base di tutta la "non cultura" costituzionale della destra, che con forza e a più riprese ha condotto campagne di delegittimazione contro tutti i Poteri dello Stato che si rifiutavano di ottemperare al nuovo regime di regole non scritte, e alla quale il centro-sinistra si è di fatto supinamente adeguato. Una fase di revisione costituzionale che nasce quindi sulla base di un profondo processo di violazione e al tempo stesso di delegittimazione della Costituzione vigente.
E non si tratta di un'esasperata lettura politica dettata da chissà quale vocazione estremistica: sono i trionfalismi dei settori politici più retrivi a dare questa chiave interpretativa.
«Il nuovo progetto di Costituzione», viene oggi pubblicamente sostenuto dagli eredi della Repubblica di Salò, «nasce con il concorso fondamentale del contributo di idee della destra storica che non poté esprimersi nei lavori costituenti del '47 a causa della pregiudiziale antifascista».

Mentre da parte dei sostenitori dell'onnipotenza del mercato, viene espressa la soddisfazione nel vedere ribaltata la logica (sancita nella Prima parte della Costituzione) che regola i rapporti tra l'interesse pubblico e quello dei privati.
Insomma, ce ne dovrebbe essere abbastanza per giustificare più di qualche pausa di riflessione e per chiedersi se non sia il caso di ripristinare un regime di sostanziale rispetto delle garanzie, prima di procedere alla revisione anche solo del più "banale" degli articoli della Costituzione.
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Nota 1) Una bandiera che fu per lo più portata avanti con arroganza, ribadendo ad ogni occasione che, in caso di vittoria del Polo, i cittadini avrebbero avuto il presidenzialismo, anche a costo di votare da soli, con la maggioranza di un solo voto, le riforme costituzionali. Ritorna al testo

 Nota 2) Da ricordare, inoltre, che anche in questa circostanza è stata la destra a dettare le condizioni per la stesura del testo della Legge costituzionale: eclatante è stata l'imposizione del referendum unico. Si vedano gli articoli contenuti nel file storico.wri. Ritorna al testo

 Nota 3) La Legge istitutiva non menziona esplicitamente la parte relativa alla "Magistratura", come invece fa per tutto il resto, ma si limita ad un generico riferimento al sistema delle garanzie, lasciando per lo più intendere che si dovesse far riferimento ai problemi sorti con l'introduzione della legge elettorale maggioritaria e dei quali si fa un breve esame alla fine di questo intervento: Art. 1 comma 4 - La Commissione elabora progetti di revisione della parte II della Costituzione, in particolare in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie. Ritorna al testo

 Nota 4) Art. 59 - c) "...; determinazione dei livelli minimi comuni delle prestazioni concernenti i diritti sociali e la tutela della salute". Questo passaggio nasconde una vera e propria insidia. Cosa si vuole infatti affermare sancendo il principio dei "livelli minimi"? Che la diversità delle prestazioni possono essere considerate un fatto normale, tale da non obbligare lo Stato ad intervenire per migliorare il livello generale dei servizi? Ritorna al testo

 Nota 5) Art 56 - "Le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati sono ripartite tra le Comunità locali, organizzate in Comuni e Provincie, le Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali, riconosciute dalla legge. ..." Ritorna al testo

 Nota 6) Art. 59 - "...il Governo della Repubblica può sostituirsi ad organi delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni, nel caso che da inadempienze derivi pericolo per l'incolumità e la sicurezza pubblica". Ritorna al testo

 Nota 7) Durante la votazione sul testo base riguardante la forma di governo (seduta N°. 33 della Bicamerale), Rifondazione Comunista presentò una proposta alternativa che si rifaceva ampiamente al modello tedesco e che aveva molti punti in comune con le proposte di legge presentate alla Camera dei Deputati dai Verdi e dai Popolari nel mese di gennaio (N° 2995 e N° 3088 degli atti della Camera); come molti punti in comune aveva anche con la proposta presentata da alcuni deputati del PDS, Folena, Mussi ed altri (N° 3071 degli atti della Camera). Ma sia i Verdi che i Popolari dichiararono di preferire, a questa proposta, la formula del premierato forte; formula poi uscita sconfitta nei confronti del testo base riferito al semipresidenzialismo. Ritorna al testo

 Nota 8) L'art. 69, punto b), prevede la nomina del "Primo ministro, tenendo conto dei risultati delle elezioni della Camera dei deputati". Questa previsione, più che una norma antiribaltone sembra piuttosto la conferma che il sistema sia molto più presidenziale di quanto non sembri. Tranne che l'atto politico della mozione di sfiducia, infatti, non esistono dei meccanismi istituzionali veri e propri per mettere in discussione le scelte presidenziali in ordine alla designazione del Primo ministro. Meno che mai, poi, si potrebbe contestare il merito di tale scelta di fronte all'esigenza di risolvere eventuali crisi di governo. Ritorna al testo

 Nota 9) La classe politica italiana non ha mai mancato di trovare i motivi per prolungare l'agonia delle legislature, purché queste proseguissero nell'interesse della parte politica che di volta in volta si assurgeva ad interprete delle immediate esigenze che "provenivano" dal Paese: una volta l'emergenza economica; un'altra quella internazionale... insomma, se già prima qualsiasi motivo era buono per varare "governi tecnici o a tempo determinato", c'è da supporre che il futuro Presidente non si lascerà scappare l'opportunità di divenire l'arbitro-giocatore della partita. Ritorna al testo

 Nota 10) Tutti i casi di possibile conflitto fra il Parlamento ed il Presidente qui esaminati, fanno riferimento ad una situazione politica da considerare fisiologica: Presidente e maggioranza di governo appartenenti alla stessa coalizione politica. Il problema vero, infatti, del come risolvere i conflitti interni alla stessa maggioranza di governo, non è stato affatto risolto, ma anzi potenzialmente esasperato dalla presenza di due leadership con funzioni istituzionali tra di loro facilmente intersecanti. Basti pensare, in tal senso, al già ricordato potere di rinvio delle leggi o dei regolamenti del Governo che potrebbe ben essere utilizzato da parte del Presidente in funzione di contrasto politico. Ritorna al testo

 Nota 11) Gli elettori, secondo i sostenitori della logica maggioritaria, votano per un preciso programma di Governo. La cosa è però più teorica che pratica, come ha avuto modo di evidenziare il professor Sartori durante l'undicesima seduta della Commissione Bicamerale: «Con tutto il rispetto, mi chiedo quante cose voti un povero elettore, quante volontà esprima e come si faccia a sapere quale abbia espresso. Il voto è per un partito, per un programma, quello dell'Ulivo ha cento punti: per quale di questi cento punti ha votato l'elettore? Non esageriamo con la tesi per la quale il popolo ha espresso una certa volontà: ...». Ritorna al testo

 Nota 12) «Con l'esclusione del caso tragico della Repubblica di Weimar, riportabile ante litteram alla categoria "semipresidenziale", e che fu segnato da problemi storici immani oltre che da indubbi difetti dei congegni istituzionali (primo tra i quali il sistema elettorale proporzionale "puro" a fronte di un sistema partitico estremamente frammentato e diviso ideologicamente), tutti i sistemi semipresidenziali attualmente esistenti in Europa hanno superato la duplice prova della democraticità e della governabilità.» (dalla relazione di Maggioranza). Ritorna al testo

 Nota 13) Questo passaggio è praticamente ripreso da un precedente lavoro del '95 (La "riforma" truccata), con la triste differenza, però, che mentre allora si poneva l'attenzione sui pericoli dell'evoluzione del dibattito costituzionale, oggi si è costretti a constatare quanti di quei timori erano purtroppo fondati. Ritorna al testo

 Nota 14) Ed è in questo rapporto di amplificazione-esclusione delle diverse forze politiche che sta tutta l'antidemocraticità dei sistemi elettorali maggioritari. Mentre l'elettore del Patto Segni, ad esempio, potrebbe benissimo spostare il proprio voto da un Polo all'altro, dando così un potere contrattuale non indifferente al proprio partito, l'elettorato di Rifondazione potrebbe decidere, tutt'al più, di astenersi; cosa che poi, tra l'altro, neanche avviene, verificandosi così, per la coalizione di centro-sinistra, il recupero quasi completo dei voti. E quindi, molto cinicamente, perché contrattare qualcosa che attraverso i meccanismi elettorali si riuscirà ad avere comunque? Più democratico di così... Ritorna al testo

 Nota 15) Certo, nell'ipotesi di una rottura dell'Ulivo e la nascita di una formazione di centro, con ogni probabilità il PDS sarebbe costretto a doversi alleare con Rifondazione per avere la possibilità di passare al secondo turno. Siamo però nella fantapolitica; ed in ogni caso, laddove si verificasse questa eventualità, l'alleanza PDS-Rifondazione sarebbe una scelta obbligata anche con altre soluzioni di doppio turno. Ritorna al testo

 Nota 16) Come per le schede elettorali, si può pensare ad un certificato elettorale contenente 5 tagliandi da consegnare ogni qualvolta si firmi una proposta referendaria. Ritorna al testo

 Nota 17) Anche altri aspetti del testo licenziato dalla Bicamerale meriterebbero infatti di essere analizzati a fondo. Al di là delle scelte più eclatanti, come il già citato art. 56 o l'improvvisato tricameralismo, poco convincente appare anche il lavoro fatto relativamente alle garanzie costituzionali, delle quali si accennerà più avanti. Ritorna al testo

 Nota 18) Riguardo a questo aspetto, si rinvia al materiale contenuto nel floppy allegato che fa riferimento alle diverse fasi del processo di revisione formalmente avviato a gennaio di quest'anno. Ritorna al testo

 Nota 19) A differenza che per l'elezione del Presidente della Repubblica, la Costituzione, come anche il progetto di revisione proposto dalla Bicamerale, non definisce le modalità di nomina parlamentare per questi due Organi. Per correggere quindi le distorsioni introdotte dal "premio elettorale" maggioritario, un primo intervento legislativo, che non implicherebbe alcuna revisione costituzionale, potrebbe essere orientato verso l'innalzamento dei quorum parlamentari necessari per varare le nomine. Un simile intervento, però, non potrebbe comunque correggere l'assenza, nel Parlamento, della somma delle minoranze escluse dalla rappresentanza dal meccanismo elettorale. Un punto critico dei sistemi bipolari, infatti, è l'azzeramento politico che avviene soprattutto tra le forze di opposizione, permettendo, di norma, soltanto ad una di queste di essere adeguatamente rappresentata. Ritorna al testo

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Autonomia nel privato e sussidiarietà nel pubblico:
gli abbagli dell'art. 56 (vedi nota di aggiornamento)
di Paolo Ramazzotti (Ass. Malcolm X)

Il progetto di legge approvato dalla cosiddetta Commissione Bicamerale prescrive un preciso rapporto sia fra attività privata e intervento pubblico sia nelle modalità di quest'ultimo (1). Vale la pena riflettere su questi due punti. Tenterò di farlo suggerendo in primo luogo alcuni casi esemplificativi, da cui risultino le possibili implicazioni dell'articolo citato. Trarrò, alla fine, alcune conclusioni di ordine più generale e metodologico, come è opportuno fare data la natura della legge in discussione.
La sostanza del primo punto indicato è che si prevede una priorità dell'attività privata su quella pubblica. Quest'ultima è chiamata a supplire alle carenze della prima, quando queste si manifestino. A una lettura veloce può sfuggire che si parli di "funzioni che non possono essere più ... svolte" dai privati, quasi che a priori questi siano comunque in grado di agire e solo in virtù di qualche impedimento contingente non possano farlo. È un fatto curioso perché chiunque abbia letto anche il più ortodosso dei testi di economia sa che esistono situazioni nelle quali l'attività privata non può neanche concepire un intervento risolutivo di problemi collettivi (classici sono gli esempi dell'ordine pubblico e della difesa nazionale). Preferiamo ritenere che, più che la scarsa conoscenza dell'economia, sia stata la lingua italiana che ha dato qualche problema all'estensore del periodo citato anche se, come vedremo più avanti, una spiegazione alternativa è possibile.
Al di là di questi "dettagli", resta l'idea di un intervento pubblico suppletivo rispetto all'azione privata. A priori verrebbe da dire che non c'è nulla di strano in ciò. In fondo, che senso ha pensare a un'azione delle amministrazioni comunali finalizzata alla produzione di patatine fritte o di televisori? Vi è qualcosa di ragionevole su cui merita soffermarsi. Prima di farlo ricordiamo il secondo punto.
Il principio di sussidiarietà prevede che l'azione pubblica venga condotta dagli "enti più vicini agli interessi dei cittadini", come seguita a prescrivere l'art. 56. In altri termini, in prima istanza intervengono i Comuni. Solo qualora essi non fossero in condizioni di agire efficacemente, per esempio perché i problemi in questione sono di portata più ampia rispetto all'ambito d'intervento di una singola amministrazione comunale, saranno le Province, le Regioni o lo Stato a dover prendere dei provvedimenti.
Non volendo inoltrarci in tediose riflessioni metodologiche e teoriche, consideriamo il seguente esempio, già suggerito dall'economista giapponese S. Tsuru. Si consideri un posto in cui, ogni giorno, i lavoratori vadano al lavoro con l'autobus. Un bel dì essi hanno la sorpresa di montare sul mezzo pubblico e di vedere che uno dei colleghi è assente. A metà strada dal posto di lavoro lo vedono sfrecciare con una bella e veloce automobile. Un misto di invidia e di ragionevole valutazione della convenienza (in termini di velocità e comodità di andata e ritorno casa-lavoro) porterà presto qualcuno a emulare il fortunato collega. Il processo continuerà, lasciando apparentemente soddisfatti sia coloro che si adattano a rimanere sull'autobus sia i nuovi automobilisti.
A rigore, tutti dovrebbero essere felici, avendo consapevolmente optato per il trasporto più adeguato ai loro bisogni. È inutile dire, tuttavia, che ciò darà luogo a serie conseguenze. I vantaggi di cui godeva il primo automobilista si riducono, man mano che questi viene seguito dai colleghi: aumenta la congestione del traffico, la velocità di spostamento si riduce, i costi di carburante individuali vengono accresciuti dai rallentamenti, l'inquinamento aumenta e, nel caso, anche le importazioni di carburante.
Questa è solo parte della storia, tuttavia. Se riflettiamo sulle conseguenze che ciò avrà sul trasporto pubblico, vediamo che non sono di lieve entità. I costi di trasporto per passeggero aumenteranno man mano che i lavoratori passano dal trasporto pubblico a quello privato. Saranno possibili, allora, due opzioni: la prima è che i prezzi del trasporto pubblico non vengano modificati. In tal caso l'azienda che lo gestisce incorrerà in difficoltà crescenti per coprire i propri costi. Ciò, con tutta probabilità solleverà proteste sull'onerosità del servizio e solleciterà l'adozione della seconda opzione, quella di un "risanamento": riduzione dei costi (normalmente si parla di "tagliare i rami secchi") e loro copertura con tariffe più elevate.
L'intervento qui delineato si presenta come razionale in quanto persegue un servizio apparentemente più efficiente. Osserviamo nondimeno che, come conseguenza di tale "risanamento", aumenterà la convenienza a ricorrere all'automobile, sia perché i percorsi coperti dagli autobus e/o il numero delle corse saranno minori, sia perché le tariffe pubbliche saranno più elevate di prima. L'aumento del trasporto privato, a sua volta, accentuerà tutte le difficoltà prima elencate. Alla fine si può immaginare che quei lavoratori che, soffrendo per la lentezza dell'autobus, siano divenuti automobilisti, ora si trovino a procedere alla stessa velocità di prima se non ad una inferiore, con in più maggiori costi sia per sé che per la collettività di cui fanno parte. Come se non bastasse, qualora lo desiderassero, ora non avrebbero più modo di avvalersi del servizio pubblico, se non a costi molto elevati e con un maggiore disagio.
L'obiettivo che ci si è proposti con questo esempio, che pur nella sua semplicità non sembra scostarsi tanto dall'esperienza storica, non è di sottolineare i danni del trasporto privato quanto, piuttosto, di evidenziare alcuni punti di carattere generale abitualmente trascurati. Il primo è che l'attività privata può, pur venendo incontro a esigenze degli individui, generare costi sociali di grande entità. Il secondo è che l'apparente inefficienza pubblica - nell'esempio, l'elevato costo del trasporto pubblico - può ben facilmente dipendere dalle forme assunte dall'attività privata. Il terzo è che, come conseguenza di quanto detto, attività privata e attività pubblica sono interdipendenti e solo su un piano astratto - e facilmente fuorviante - è possibile pensare che una sia suppletiva rispetto all'altra.
Di carattere più generale è un quarto punto: sono osservabili, nei sistemi sociali, processi cumulativi, ovvero circoli viziosi e/o virtuosi. Come avviene con l'incendio di un bosco, una volta innescati, non viene ripristinato l'equilibrio preesistente ma si modifica del tutto il contesto di partenza, talvolta con esiti tutt'altro che desiderabili. Nel caso dell'esempio, non si assiste alla mera sostituzione di un tipo di trasporto con un altro: gli effetti generali finali sono ben diversi, in termini di costi individuali e di costi sociali. Inoltre, proprio per il loro carattere cumulativo, è pressoché impossibile tornare indietro una volta che ci si renda conto di aver commesso un errore.
Il quinto e ultimo punto risulta dai due precedenti: il numero degli autobus e la qualità del servizio all'inizio della nostra storia sono cruciali per ciò che avviene dopo, in quanto possono favorire o disincentivare il ricorso al trasporto privato(2). Ciò che si vuole evidenziare è che l'azione pubblica determina, con la sua presenza o assenza, il contesto entro il quale si trovano ad operare i privati. Ritenere che le due sfere d'intervento siano separabili e che la prima possa seguire - in senso logico e/o temporale - quella che viene definita "l'autonomia" dei privati è a dir poco riduttivo, oltre che segno di scarsa conoscenza della storia.
Verrebbe, infine, da osservare come la possibile divisione del lavoro prefigurata dall'articolo 56 possa portare a una divisione del lavoro fra enti pubblici in cui i comuni sarebbero alle prese con i problemi di trasporto qui delineati e i governi si attiverebbero nella promozione dell'attività produttiva dell'industria, magari con incentivi all'acquisto di automobili. Torneremo su questo punto più avanti. Merita prima riflettere su un secondo esempio, che si richiama ad uno studio di qualche anno fa dell'economista americano J. O'Connor.
Si considerino due comuni limitrofi, desiderosi di stimolare l'attività economica sui loro territori al fine di accrescere gli introiti tributari nonché il benessere locale. Poiché essi si trovano a dover convincere le imprese a localizzare la loro attività all'interno dei propri territori, faranno di tutto per invogliarle. La guerra di agevolazioni (esenzioni fiscali, allentamento di vincoli urbanistici, ecc.) determinerà un vincitore. Posto che a beneficiare della nuova occupazione siano i cittadini del comune vincente e che l'attività economica indotta avvantaggi le imprese dello stesso, si può in prima istanza ritenere che i benefici così ottenuti sopravanzino il costo delle agevolazioni e i costi sociali associati all'attività produttiva: inquinamento, congestione, ecc...
È ragionevole ritenere, tuttavia, che in un secondo momento i cittadini del comune "vincitore" - quanto meno quelli che se lo possono permettere - si chiedano se, anziché vivere in un ambiente degradato dall'attività dell'impresa, non convenga avvantaggiarsene a distanza, lavorandovi magari ma abitando nel comune "perdente". Il risultato sarà che il comune vincente si svuota dei contribuenti più ricchi, pur subendo i costi sociali dell'insediamento, mentre il perdente trae vantaggio dall'afflusso dei nuovi abitanti. Anche qui, come sopra, il processo si autoalimenta, assumendo carattere cumulativo. Inoltre, una volta innescato, il meccanismo è irreversibile: non si può ripristinare la situazione preesistente.
Perché, allora, i comuni dovrebbero sottostare a questo gioco del cerino acceso nel quale il vincitore va incontro ad una vittoria di Pirro? Perché non rinunciare a farsi la guerra e concordare, invece, una politica comune di localizzazione produttiva? Il fatto è che non sempre gli accordi sono facili da raggiungere, anche quando vi sia consapevolezza che essi potrebbero accrescere il benessere di tutti. Nel caso in esame, inoltre, alla difficoltà di conseguire i vantaggi congiunti si contrappone la chiara contrapposizione d'interessi in cui si trovano i due comuni finché non raggiungano un accordo.
L'interesse ad attrarre purchessia le imprese verrebbe accentuato se i due comuni dovessero trovarsi a competere non solo tra loro ma anche con quelli di un'altra regione. L'alternativa, in questo caso, riguarderebbe non quale parte avere in un processo di sviluppo distorto ma se avere o meno un qualche sviluppo. L'iniziale insediamento potrebbe costituire la premessa per lo sviluppo di un tessuto produttivo e questo potrebbe agire da polo d'attrazione per altre imprese. Anche qui si delinea un potenziale processo cumulativo. Un'area, sviluppandosi, attira ulteriore attività economica. Così facendo, rende le altre aree meno attraenti per gli investitori, deviando da esse ogni preesistente attività. In simili circostanze, è probabile che il pur discutibile dualismo fra i comuni di una medesima regione industrializzata possa venire da questi preferito alla povertà e al declino. In conclusione, il processo delineato non avvantaggia tutta la collettività ma solo sue componenti.
Che il processo descritto possa verificarsi e che i suoi effetti siano irreversibili - come risulta dall'esame di vicende storiche più e meno vicine - non significa che esso sia inevitabile. Occorre, tuttavia, che gli enti locali non si facciano concorrenza a vicenda. Occorre altresì evitare una concorrenza al ribasso - caratterizzata dall'allentamento della normativa che dovrebbe consentire uno sviluppo territoriale non dannoso - che generi una crescita economica solo apparente, i vantaggi della quale risaltino solo perché non vengono contabilizzati i costi sociali sostenuti dai singoli individui e dalle collettività.
Quanto detto non significa che siano impossibili accordi fra enti locali e che tutto debba essere gestito a livello centrale. Si vuole solo sottolineare che i processi qui descritti possono verificarsi e che è - nel migliore dei casi - ingenuo dare rilievo costituzionale ad un principio che, sollecitando il conflitto di interessi fra enti pubblici territoriali, può far prevalere i bisogni di singole aree su quelli generali, con effetti distruttivi di tessuto sociale ed economico.
Viene naturale chiedersi, a questo punto, se non ci si trovi in presenza di problemi che, pur validi, rappresentano dei casi particolari o, comunque, eventualità di cui si può sempre tener conto. Al contrario, gli esempi proposti suggeriscono che all'origine dell'articolo 56 vi siano questioni di metodo, non distrazione nei confronti di dettagli.
Che debba esistere una qualche divisione di funzioni fra enti pubblici è più che ragionevole. Che essa debba fondarsi sempre e comunque sul principio della sussidiarietà è possibile solo ad una condizione: quando l'azione "dal basso" degli enti territoriali generi un ordine spontaneo e che quest'ordine sia auspicabile, salva la possibilità di correttivi minori da parte dell'autorità centrale. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che si tratta di una condizione che non si realizza né sempre né facilmente.
Vi è, talvolta, la tendenza a credere che la "vicinanza ai cittadini" sia sinonimo di democrazia. Si trascurano, con ciò, gli elementi di conflitto fra interessi immediati e interessi di lungo periodo (come nel primo esempio) nonché quelli fra interessi locali e interessi generali (come nel secondo esempio). La superficiale contrapposizione fra una presunta prevaricazione paternalistica dello stato e il diritto degli individui a scegliere nasconde il vero problema, quello di cosa scegliere. Se si vuole evitare di optare fra alternative indesiderabili, è chiaro che è opportuno prefigurare interventi adeguati.
Ma i problemi di metodo non si fermano qui. Appare evidente, nella definizione proposta dei rapporti fra pubblico e privato, una visione statica del sistema economico. I singoli, siano essi individui o enti locali, vi appaiono come incapaci di modificare lo stato delle cose. Il "sistema di mercato" appare caratterizzato da leggi ineluttabili. L'azione pubblica può magari porre dei vincoli, non può alterare il meccanismo.
Si è già visto, d'altra parte, che - prescindendo da tutto il resto - piccoli eventi possono ben innescare processi cumulativi e irreversibili, così come il cerino che scatena l'incendio. È poi noto che, di fronte all'eventualità di una circostanza indesiderata, non solo ci si può assicurare contro i danni che questa genera (mantenendo inalterata la probabilità che si verifichi) ma si può anche agire al fine di evitarla (modificandone la suddetta probabilità): ci si può assicurare contro le conseguenze del furto di un'automobile ma si può anche installare un apparecchio che impedisca (o quasi) tale furto; il terremoto può essere inevitabile ma si possono costruire case antisismiche che ne eliminino le conseguenze più drammatiche. Che le imprese siano consapevoli di ciò è chiaro: è su questa premessa che si fondano le strategie imprenditoriali.
Qualcuno potrebbe obiettare che, se è vero che le nostre azioni modificano gli esiti futuri, ciò può avvenire in modo non del tutto prevedibile. Questa affermazione, benché vera, non significa che si debba sempre e solo ovviare - quando possibile - a danni ormai avvenuti anziché perseguire interventi creativi che li prevengano. Ovviamente ciò richiede che si abbia piena consapevolezza che, in un sistema economico, pur se talvolta gli interessi individuali coincidono con quelli collettivi, non è necessariamente questa una regola.
All'estensore dell'articolo 56, in definitiva, risulta impossibile che l'azione pubblica possa svolgere una funzione cruciale, in un senso o nell'altro, nel creare le premesse e nell'indirizzare il sistema economico e, al suo interno, l'azione privata. Gli risulta inconcepibile che il sistema economico operi in modo non spontaneo e non meccanicistico e che certe circostanze siano evitabili solo che le si sappia prevedere. È una visione riduttiva delle cose, destinata a favorire chi la capacità di prefigurare un proprio futuro - e di realizzarlo, magari a danno degli altri - ce l'abbia.
Nel concludere queste considerazioni viene da chiedersi il senso di un'operazione politica quale quella dell'articolo 56. È indubbiamente possibile e fondato dilungarsi sui limiti di comprensione della realtà di chi, ancorché in buona fede, si avvalga della strumentazione teorica dominante: purtroppo è difficile sfuggire al peso travolgente delle istituzioni esistenti, se non alle mode teoriche. È altresì possibile rilevare, come ha fatto qualcuno, che gli interessi costituiti tendono a prevalere sulla chiara comprensione dei fatti: non si può negare, infatti, che l'appellarsi all'intervento pubblico quando vi siano "funzioni che non possono essere più ... svolte" dai privati richiama quegli interventi di salvataggio e di socializzazione delle perdite che hanno sempre contrassegnato la fine dei periodi di vacche grasse.

Nel caso specifico, tuttavia, non si può trascurare la gravità della decisione di predisporre un nuovo testo costituzionale senza sollecitare il più ampio dibattito possibile. Sarebbe stata necessaria una discussione estesa - in termini di tipo e di numero dei partecipanti - dei punti da trattare; sarebbe occorso condurla a più livelli, da quello strettamente analitico e teorico a quello più propriamente politico. Purtroppo, i risultati di un confronto fra posizioni diverse hanno un senso, quelli della discussione sulla proposta uscita dal cappello a cilindro di qualche estemporaneo, anche se magari rispettabile, riformatore ne hanno un altro. Anche al più benevolo critico non può sfuggire che la scelta di una procedura così affrettata non poteva che potenziare il peso dell'inerzia intellettuale e degli interessi costituiti.

Nota 1) L'art. 56 del nuovo testo costituzionale così inizia: "Le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati sono ripartite tra le Comunità locali, organizzate in Comuni e Province, Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali, riconosciute dalla legge.". Ritorna al testo

Nota 2) Altri elementi sono altrettanto importanti come, per esempio, la decisione di trattare - nel caso dell'esempio - le automobili o l'accesso a certe zone come un bene di lusso, soggetto a tassazione elevata o a restrizioni, così da disincentivarne l'uso. Ritorna al testo
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La posta in gioco
di Giovanni Russo Spena (Sen. di Rifondazione Comunista)
 
Vi è una frase, molto stupida ma molto accattivante che, in maniera chiaramente autonoma, sia D'alema, sia Fini, sia Berlusconi ripetono ossessivamente in questi mesi: «bisogna trovare l'accordo comunque; perché occorre portare a casa le riforme costituzionali; altrimenti è un dramma».

Ma è politica molto mediocre quella che non si chiede il senso di marcia del cambiamento, il suo segno di fondo, le sue tendenze. Credo, infatti, che una delle più stupide e vuote invenzioni politiche dell'ultimo quinquennio sia l'accezione di "nuovo" e l'accezione di "conservatore".
Io penso, invece, che lo schema della Commissione Bicamerale vada discusso e combattuto nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nelle istituzioni, perché ha un obiettivo di fondo: sostituire alla schieramento costituzionale nato dalla resistenza l'arco del mercato.

Mi interessa qui solo sottolineare un aspetto che ritengo decisivo: va concentrata l'attenzione delle lavoratrici, dei lavoratori, dei sindacati sull'intreccio tra riflessi sociali e controriforme istituzionali. È bene che tutti comprendano che non ci troviamo di fronte ad una "tecnica istituzionale" ma ad una ristrutturazione politica delle istituzioni. Essa si svolge, tra l'altro, non in un clima "storico", così come ogni Costituzione deve nascere, ma in un clima di compromessi e di mercificazione. Che si trattasse, a casa di Letta con Berlusconi il "presidenzialismo" o il "capitolo giustizia" della nuova Costituzione, nessun democratico italiano aveva mai immaginato ... La realtà sa essere più drammatica degli incubi!
Bisogna, allora, tentare di comprendere i dati strutturali. Quante volte il dott. Romiti ha detto che la Costituzione italiana è contro l'impresa perché è nata da un mix di solidarismo cattolico e di proposte comuniste?

Ecco ciò che ora si vuole realizzare: un "protrarsi" dell'elemento di coazione implicito nel meccanismo dell'accumulazione capitalistica sul terreno diretto delle istituzioni e della "politica". Il "pubblico" soggiace al "privato"; la comunità soggiace alla valorizzazione del capitale. Si tenta di "costituzionalizzare" i rapporti di forza sociali, caratterizzati, ideologicamente e politicamente, da una violenta rinascita liberista. Insomma, la logica del mercato e dell'impresa tendono a pervadere la "sfera politica" fino al punto di svuotare ogni strumento democratico, di controllo, di partecipazione organizzata di massa. Viene negato il "valore sociale" del lavoro, che è un cardine della nostra Costituzione, subordinandolo al primato dell'accumulazione. Del resto, quando la moneta può essere governata dalla banche, senza che gli stessi governi possano intervenire in maniera efficace nell'ambito europeo, siamo già ad un abbattimento, in sé per sé, della sfera della sovranità politica, intesa come processo collettivo di trasformazione, capace di "dialettizzarsi" con i processi di autorganizzazione.
La questione sociale "scompare" dalla dialettica istituzionale. Le istituzioni diventano una "corazza" contro il conflitto. Perciò vi è bisogno, per i «nuovisti», di un "uomo forte" per un popolo "muto", che esaurisce, con il voto al Leader, la sua attività, la sua "funzione" politica.
Di Pietro e la "sua gente": ma il plebiscito è un segmento della democrazia autoritaria; è l'esatto opposto della democrazia organizzata e partecipata in una società pluralistica, complessa, ricca di saperi, culture, professionalità, bisogni.

Di fronte alla crisi della democrazia, indotta dai processi di "mondializzazione" e dal mutamento delle funzioni dello Stato-nazione, è stata subito messa da parte la risposta (possibile ed innovativa) dello sviluppo della democrazia di massa all'interno di un orizzonte di socializzazione, di democratizzazione della vita quotidiana, di allargamento e dilatazione dell'ambito della decisionalità; per puntare invece sulla scelta, ossessivamente ricercata, dell'esaltazione dell'esecutivo e dei "poteri di comando" centrali, nel tentativo, per l'appunto, di renderli impermeabili alle tensioni, ai conflitti, alle modifiche indotte dalla società, dalla "domanda democratica".
Cosa altro voleva la famosa Commissione Trilaterale?
E, per certi versi, quali erano i criteri di fondo del cosiddetto Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli?

La Costituzione non deve essere considerata merce nel mercato degli equilibri politici in una fase di transizione. Dovremo far capire a tutti che si sta giocando una "partita vera", con forti valenze simboliche(1):

taglio drastico con il patto civile fondamentale antifascista;
attacchi alla forma unitaria dello Stato con minisecessioni che nulla hanno a che fare con un vero federalismo democratico;
democrazia d'investitura e plebiscitaria;
esercito professionale e "diritto alla guerra" come elemento della statualità della Seconda repubblica.

Siamo ad un "passaggio stretto": la sostanziale delegittimazione della Costituzione, prodotta dalla propaganda liberista (e pidiessina), ha già appannato, nell'immaginario collettivo, l'interazione del "patto fondamentale costituzionale".
O sapremo costruire, in quest'autunno, un movimento "largo", plurale, capace di coinvolgere anche settori sociali del lavoro, dei lavori, un movimento per il «costituzionalismo democratico», o rischiamo di giungere al referendum costituzionale del 1988 come profeti disarmati, impotenti di fronte all'ondata populista, sapientemente "pilotata" dai Romiti di turno.
Può non interessare. Ma è bene conoscere la posta in gioco.

Nota 1 In modo che ciascuno possa scegliere il suo atteggiamento ed il suo comportamento nella fase istituzionale di discussione sugli emendamenti che si apre in autunno; e, successivamente, nel momento referendario, affinché non sia una becera trappola propagandistica falsificata come fu per il referendum Segni-Occhetto. Ritorna al testo

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