Notizie sull'autore PAOLO FLORES D'ARCAIS - Filosofo, direttore di MicroMega, collaboratoredi El Pais,
Frankfurter allgemeine Zeitung e Cazeta Wyborcza. E' autore, tra l'altro, di Etica senza fede (Einaudi, 1992),
Hannah Arendt, Esitenza e libertà (Donzelli, 1995) e L'individuo libertario (Einaudi, 1999).
Tratto da Micro Mega di Paolo Flores d'Arcais Matematica
1. La matematica non è un'opinione, si dice: Due più due fa sempre quattro, si dice. Nulla di più falso, almeno
in politica. A prendere sul serio quasi tutti i politici, e la maggior parte degli editorialisti e commentatori, due più due fa qualsiasi numero tranne quattro. Quasi nessuno, infatti, ha voluto assumere i risultati elettorali per quello che erano e che i numeri dicevano, incontrovertibilmente: una netta maggioranza antiberlusconiana nel paese, che produce una ancor più netta maggioranza berlusconiana in parlamento. Cioè una sconfitta in termini di consenso, nel voto popolare, che costituisce però una vittoria elettorale indiscussa grazie alla capacità politica di unire in coalizione, laddove gli avversari del Cavaliere, maggioritari nel consenso dei cittadini, si presentano divisi e quindi destinati (inevitabilmente e giustamente, dato il sistema elettorale) alla sconfitta: Anzi, ad un'autentica Caporetto.
Le cifre parlano chiaro, infatti ( per quelli che si ostinano a tener fermo il due più due eguale quattro). Al Senato il 5 per cento di Bertinotti, aggiunto alla percentuale del centro-sinistra, avrebbe garantito a quest'ultimo una netta maggioranza in seggi: Se si contassero poi i suffragi per Di Pietro avrebbero portato a una situazione esattamente rovesciata rispetto a quella odierna: gi antiberlusconiani a Palazzo Chigi e il Cavaliere ad Arcore, in malinconica opposizione.
2. Si obietta: ma i voti di Bertinotti e di Di Pietro non sono sommabili a quelli di Rutelli, perché chi ha votato i candidati dei primi non avrebbe votato i candidati del centro-sinistra. Niente di più inesatto e smentito dai fatti: in tutti i ballottaggi per i comuni, appena due settimane dopo, nessun voto antiberlusconiano è andato disperso. Del resto, si è visto che la logica bipolare spinge ormai gli elettori a mettere da parte ogni distinzione e a privilegiare le ragione della coalizione: votano per Berlusconi elettori dalle posizioni altrimenti incompatibili ( il leghista che sprezza la bandiera e non canta Fratelli d'Italia, e il militante di AN, nazionalista fino allo sciovinismo; il filonazista alla Rauti e il cattolico moderatissimo). Avrebbero votato per i candidati del centro-sinistra gli elettori di Rifondazione (al maggioritario per la Camera lo hanno fatto!) e dell'Italia dei valori, se i vertici di questi movimenti avessero trovato un accordo con i dirigenti dell'Ulivo.
3. Gli errori e le colpe della sconfitta sono dunque tutti dei politici antiberlusconiani, non dei cittadini. Su questo non ci piove (sempre che due più due faccia quattro). Di chi, fra i politici, e in quale misura? Sarà bene, in proposito, evitare genericità ed ecumenismi. I partiti del centro-sinistra hanno abbondato in arroganza e irresponsabilità. Dato il sistema elettorale, raggiungere l'unità delle forze antiberlusconiane era una precondizione ovvia per partecipare alla competizione con effettive chance di successo. Avrebbe dovuto quindi essere al prima preoccupazione di chiunque, nel centro- sinistra. E invece per mesi abbiamo dovuto sentire anatemi aprioristici contro Rifondazione dei Castagnetti e altri Mastella, infastiditi ultimatum al "giustizialista" Di Pietro (del tipo: o mangi questa minestra….), nel mentre si continuavano a fare profferti di accordi a un Berlusconi sempre più oltre le righe (della Costituzione).
4. Tutto questo, vero e pesante, non giustifica però né Bertinotti né Di Pietro. Entrambi sapevano benissimo, infatti, che in un sistema maggioritario ad un turno qualsiasi voto che non vada a un candidato con effettive possibilità di vincere equivale a un voto nullo: Deporre nell'urna una scheda colma di improperi, o indicare un candidato marginale, dal punto di vista politico non cambia di un ette. Nel secondo caso ci si illude di aver dato un voto significativo, per un programma e un candidato, ma è puro autoinganno governato da una necessità psicologica di rimozione della realtà. A conti fatti, quei voti andranno tutti nel calderone delle espressioni umorali (voti nulli), mentre conteranno solo i suffragi per i due candidati con effettive possibilità.
In un solo collegio, quello dove era candidato Di Pietro, vi è stata per un momento l'impressione che i rappresentanti di entrambi gli schieramenti maggiori potessero essere sconfitti. In tutti gli altri casi una tale possibilità non aveva neppure il più lontano carattere aleatorio.
In una situazione del genere, presentare propri candidati è scelta coerente (a prescindere da come poi la si giudichi) ad una sola condizione: che i due schieramenti maggiori e i rispettivi leader sostanzialmente si equivalgono. Se alla lettera, "Berlusconi e Rutelli per me pari son". Se un governo del primo o cinque anni di Ulivo sono vissuti, davvero e fuor di metafora, come un'alternativa tra la padella e la brace, Solo in questi casi, presentare i propri candidati no né una contraddizione in termini. Solo chi ritiene insignificante o apparente la contrapposizione fra i due poli puà annullare il voto o ( il che è lo stesso) presentare un candidato senza chance. Solo chi ritiene equivalenti e indifferenti una Italia del Cavaliere o un'Italia dell'Ulivo (al di là di tutte le critiche legittime che all'Ulivo si possono rivolgere) può disperdere il proprio voto.
5. Ma non risulta che questa sia la posizione di Bertinotti e di Di Pietro (è quella, invece, a suo modo coerentissima, espressa proprio su MicroMega da Erri De Luca). Di più: se avessero manifestato tali posizioni, probabilmente avrebbero perso in pochi mesi o addirittura in poche settimane, molti dei loro consensi. Non si può sfuggire alla conclusione, perciò: per Bertinotti e per Di Pietro affermare la "visibilità" e l'autonomia del proprio movimento valeva il prezzo di consegnare l'Italia (in maggioranza antiberlusconiana) a Berlusconi. Questo hanno fatto, e non potevano non sapere di stare facendo: e' possibile, anzi probabile, che lo abbiano fatto nella convinzione (dimostratasi poi errata) che la partita fosse perduta comunque. Del loro comportamento, perciò, il minimo che si possa dire è il seguente: hanno seguito la via del tanto peggio tanto meglio per narcisismo (di partito) oppure per totale mancanza di realismo politico. Difficile dire cosa sia peggio.
6. Da queste considerazioni, i partiti del centro-sinistra non escono certo assolti. E sottolineo i partiti, perché sono proprio loro ad aver voluto fino all'ultimo ridurre l'Ulivo a pura sigla e sommatoria (al punto che si discusse seriamente di dare alla coalizione un nuovo nome). Loro, cioè i loro dirigenti. E massime Massimo D'Aalema, incontestabilmente. Perché è solo nelle ultime settimane di una campagna elettorale di fatto lunghissima che Rutelli, obtorto collo, e stato davvero riconosciuto dai partiti come il leader della coalizione, ed è potuto apparire tale sui mass media. Per troppo tempo, invece, i capipartito hanno fatto a gara per metterlo in ombra, per occupare spazi televisivi e pagine di interviste, dicendo e scrivendo anche l'opposto di quanto l'Ulivo di Rutelli tentavi di comunicare agli elettori.
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