Redattore: Stefano Bianchi
Ultimo Aggiornamento: 29 maggio 2000

La Domus Italica


E' quella che può essere considerata la capostipite della tipologia di abitazione romana che poi si evolse in tutte le sue diverse architetture. Prospetto di Domus Italica Tali diverse condizioni abitative si svilupparono, però, nel corso dei secoli, poiché la primitiva tipologia dell'antica casa italica, formata da un solo atrium circondato da poche stanze con un giardinetto posteriore, presenta caratteristiche comuni a tutte le abitazioni costruite in antichità dai Quiriti, a prescindere dalla classe sociale. Solo più tardi e ad imitazione di quella greca, la domus italica si sviluppò in senso orizzontale fino ad assumere, con l'aggiunta di nuovi e più comodi ambienti, l'aspetto della tipica casa signorile; domus romana o semplicemente domus.

Sezione di Domus Italica Prospetto di Domus Italica

Spaccato di una domus italica:
(1)-impluvio (2)-compluvium (3)-atrio (4)-vestibolo
(5)-stanze (6)-tablino (7)-giardino


La Domus


Occupata di solito da un'unica famiglia, era la casa urbana delle persone più benestanti. Generalmente costituita dal solo pianterreno, mancava di un prospetto esterno poiché sul lato della strada non si aprivano né finestre né balconi. Gli ambienti erano numerosi e destinati ognuno ad un uso preciso. L'ostium era l'ingresso principale attraverso il quale si accedeva ad un corridoio detto vestibulum a metà del quale si apriva la vera e propria porta di casa; la ianua. A un lato dell'ostium si trovava la stanza del portinaio; cella ostiarii, oppure alcune botteghe; tabernae, che erano comunicanti con la casa e si aprivano sulla strada. Il vestibulum delle case più ricche era molto vasto ed ornato di colonne e di statue. Quello era il luogo preposto ad accogliere i clientes per la salutatio matutina in cambio della quale ricevevano un invito a pranzo o la borsa delle vivande, la sportula. La ianua era formata da una soglia; limen, dagli stipiti; postes, sui quali era posato una architrave di marmo; epistylium, sotto al quale si apriva la porta; fores, a due ante; valvae. Da qui si entrava in un altro corridoio; fauces, che conduceva nella stanza principale della casa; l'atrium. Oltre a quest'ingresso ce n'era uno di servizio; posticum, che da un vicolo laterale alla casa accedeva direttamente al peristylium. Nell'atrium, di fronte all'entrata, era sistemato il lectus genialis, in ricordo dei tempi in cui quest'ambiente era considerato il cuore della casa perché vi si accendeva il focolare domestico ed era insieme stanza da lavoro, di ricevimento e camera nuziale. Con lo sviluppo degli ambienti posteriori della casa, l'atrio rimase un'anticamera grandiosa e sontuosamente arredata dove erano conservate le immagini di cera degli antenati; imagines, i Lares, déi protettori della casa, in una cappelletta detta lararium, la cassaforte domestica; arca, e talvolta anche un ritratto marmoreo del pater familias. Un tavolinetto di marmo; cartibulum, addossato al muro costituiva il ricordo dell'antico focolare.

Una tipica Domus Romana
Una tipica domus romana

L'atrio era normalmente quadrato e al suo centro si trovava l'impluvium dove erano raccolte le acque piovane da un apertura del tetto; compluvium, inclinata verso l'interno. Quest'acqua era poi convogliata in una cisterna sotterranea. Nella parete dell'atrio direttamente di fronte all'ingresso si apriva una grande stanza detta tablinum. Aveva gli angoli delle pareti foggiate a pilastri e un'ampia finestra prospiciente il peristylium da cui riceveva luce ed aria. Questa era la stanza-studio del padrone di casa dove erano conservati gli archivi di famiglia. Ai lati sinistro e destro dell'atrio si aprivano le alae, costituite da ambienti il cui uso era vario, ma nella maggioranza dei casi erano destinate a stanze da letto; cubicola. Attraverso un corridoio chiamato andron, dall'atrio si raggiungeva al pristylium, la parte più interna e spettacolare della casa. Esso consisteva in un giardino in cui crescevano con ordine ed armonia erbe e fiori, circondato su ogni lato da un portico, generalmente a due piani, sostenuto da colonne: lo arricchivano numerose opere d'arte e ornamenti marmorei. Nel peristilio si aprivano due stanze grandi e lussuose: l'exhedra e l'oecus. La prima era una grande stanza affrescata utile per ricevimenti e cene; l'altra era il triclinio più grande della casa dove si tenevano i banchetti con gli ospiti di riguardo. Anche i cubicola padronali davano sul peristilio, erano più ampi e luminosi di quelli che si trovavano nelle ali dell'atrio ed erano decorati in un modo preciso: il mosaico sul pavimento era bianco con semplici ornamenti, le pitture alle pareti erano diverse per stile e colore da quelle del resto della casa e il soffitto sopra il letto era sempre a volta. Nell'epoca imperiale, dopo esser venuti a contatto con i più raffinati Greci, i Romani dotarono la casa di una sala riservata esclusivamente al pranzo, ma nei tempi più antichi si banchettava nell'atrio o nel tablino. La sala da pranzo vera e propria; triclinum, era una stanza vasta e sontuosa che dava sul peristilio ed era fornita di letti triclinari su cui trovavano posto tre persone (da qui il nome della sala) su ognuno, sdraiate sul lato sinistro col gomito appoggiato ad un cuscino; i letti erano chiamati tori o triclinia. Dalla sontuosità dei banchetti si potrebbe pensare che la cucina; culina, della casa fosse sullo stile di quelle medievali, invece era il locale più piccolo e tetro della casa; uno sgabuzzino occupato quasi tutto da un focolare in muratura, invaso dal fumo che usciva da un buco sul soffitto perché non c'era camino. Annesso alla cucina c'era il balneus, riservato alla famiglia padronale e le cellae servorum.


La Villa


Nei possedimenti di campagna i ricchi Romani, che in città abitavano la domus, avevano di regola due edifici: la villa rustica e la villa urbana. La prima era una fattoria costruita secondo precise esigenze pratiche: vi erano due cortili; cohortes, uno interno e l'altro esterno, in cui si trovavano le vasche; piscinae, per abbeverare gli animali, per lavare la lana, macerare il cuoio ed altri usi. Intorno ad ogni cortile sorgevano le stanze degli schiavi; cellae familiares, una grande cucina, le stalle per buoi; bubilia, e per i cavalli; equilia, ed il pollaio; gallinarium. Rivolti a nord, perché fossero sempre freschi e asciutti, c'erano i granai; granaria, i seccatoi; horea, le stanze in cui era conservata la frutta; oporothecae, e la cantina; cella vinaria. Annessa alla costruzione c'era l'aia; area, intorno alla quale sorgevano i capanni per la rimessa degli attrezzi; plaustra. villa La villa urbana, che sorgeva nei paraggi, ma non necessariamente così prossima alla rustica, era più sontuosa della domus, poiché doveva offrire un soggiorno piacevole e tranquillo. Vi sorgevano numerosi e vasti porticati sostenuti da lunghe file di colonne che garantivano lunghe passeggiate al coperto, sia a piedi, che in lettiga, che a cavallo, nei giorni di maltempo. Era dotata di triclini per l'estate, aperti, e per l'inverno, al chiuso, e di camere per il riposo diurno; cubicula diurna. C'era anche una stanza da studio, una piscina per il nuoto; piscina natatoria, e di un bagno fornito di calidarium, tepidarium e frigidarium come le grandi terme pubbliche. La villa era circondata da un terreno in parte coltivato ad orto ed in parte a giardino; hortus, con fiori, piante rare, fontane, giochi d'acqua e statue.

In figura: ricostruzione di una villa che sorgeva presso Laurentum, descritta da Plinio il Giovane nelle sue lettere.


Le Insulae


In stridente contrasto con le splendide abitazioni signorili fin qui descritte, la maggioranza del popolo romano alloggiava in grandi casamenti a più piani che sorgevano nei quartieri popolari. Le insulae erano sorte nel IV sec. a.C. dall'esigenza di offrire alloggio, entro il ristretto territorio dell'Vrbs, ad una popolazione in continuo aumento. Nel periodo imperiale queste costruzioni superavano il sesto piano di altezza, come la famosa insula Felicles che si elevava su Roma come un grattacielo. Costruite spesso da imprenditori privi di scrupoli che utilizzavano materiali scadenti, amministrate da proprietari che miravano ad ottenere il massimo profitto da affitti esagerati, le insulae erano spesso preda di incendi e i continui crolli che minacciavano la sicurezza dei cittadini spinsero l'imperatore Augusto a proibire ai privati di elevare costruzioni sopra i 70 piedi (21m circa). Le insulae avevano una pianta di circa 300 mq, ma con tali sviluppi verticali sarebbero stati necessari almeno 800mq di base che assicurassero stabilità all'edificio. Se si aggiunge che per i muri maestri la legge non richiedeva uno spessore superiore a 45 cm, si può capire che il primo incubo di un inquilino era vedersi crollare la casa addosso. (vedere traduzione allegata) Ciò avveniva con tanta frequenza, che alcuni speculatori ne avevano fatto la fonte principale dei propri redditi. Crasso, ad esempio, era famoso per la rapidità con cui accorreva sul luogo di un crollo offrendo allo sfortunato proprietario dello stabile di comprarlo lì stesso, a prezzo stracciato. Le sue squadre di muratori, poi, lo ricostruivano in un batter d'occhio utilizzandone le stesse macerie e la nuova insula, ancora più traballante, era riaffittata a prezzi maggiori. L'insula comprendeva, riuniti nei cenacula, corrispondenti all'incirca ai nostri appartamenti, numerosi locali piuttosto angusti, areati da finestre che si affacciavano sulla strada, e non destinati a un uso prefissato come quelli della domus: spesso uno stesso locale fungeva da stanza da pranzo e da letto. Insula Anche per le insulae si poteva effettuare una differenziazione in due categorie: nei palazzi più prestigiosi il pianterreno costituiva un'unità abitativa a disposizione di un singolo locatario e assumeva l'aspetto e i vantaggi di una casa signorile alla base dell'insula; nei palazzi popolari il pianterreno era occupato da magazzini e botteghe, tabernae, in cui gli inquilini non solo lavoravano, ma vivevano e dormivano, poiché una scala di legno univa la bottega ad un soppalco che costituiva anche l'abitazione dei bottegai, tabernarii. Particolarmente grave era il problema igienico perché tutti gli appartamenti mancavano di condutture d'acqua e di bagni: lo splendore degli acquedotti romani non deve indurre a credere che nelle case private ci fosse acqua corrente; a Roma, infatti, le reti idriche e fognarie erano esclusivamente riservate all'uso pubblico e tali rimasero. Solo le domus e le case signorili al pianterreno delle insulae potevano usufruire, dietro pagamento di un canone molto alto, di un allacciamento privato. L'acqua zampillava dalle fontane, entrava nelle terme e nei gabinetti pubblici, ma non arrivava nei cenacula. Va da se che non essendoci acqua corrente, nelle case non c'erano gabinetti nel senso moderno del termine; nelle insulae ci si arrangiava lanciando da balconi e finestre, che a differenza delle case signorili abbondavano, ogni sorta di rifiuti nelle vie sottostanti.

Noi abitiamo in una città, che si regge in gran parte su fragili puntelli; infatti, tramite questi il padrone di casa cerca di rimediare alle mura pericolanti e quando ha ricoperto con della calce la spaccatura di una vecchia crepa, invita a dormire tranquilli anche sotto la minaccia di un crollo improvviso. E' meglio, quindi, vivere dove la notte non scoppiano incendi e non c'è alcun pericolo. Il povero Codro aveva un piccolo letto, sei orioli, un tavolo e, sotto, una modesta coppa; una cesta vecchia conservava dei libretti greci e topi ignoranti rodevano le divine poesie. Niente possedeva dunque Codro, chi lo nega? E tuttavia quel disgraziato ha perduto nell'incendio della sua casa quel poco che aveva. Il colmo della sventura è che nessuno gli darà cibo e ricovero e lui va, nudo, chiedendo per carità un tozzo di pane. Se, però, crolla il grande palazzo del ricco Persico, ecco le donne sconvolte, i patrizi in lutto e il pretore rimanda le udienze. In tal caso piangiamo la sventura della città e malediciamo il fuoco. Ancora l'incendio è acceso e già accorre chi dona marmo o partecipa alle spese; questi porterà nude e candide statue, l'altro qualche capolavoro di noto autore, questa ornamenti antichi di dei asiatici, quello dà libri e scaffali e un busto di Minerva, l'altro una quantità d'argento. E Persico, il più ricco tra i senza figli, recupera più di quanto abbia perduto e già è sospettato, a ragione, di aver bruciato lui stesso la sua casa.
GIOVENALE (trad. S. Bianchi)


In figura: ricostruzione di una insula scoperta presso Ostia.


Suppellex


Con questo unico termine i Romani definivano tutto ciò che serviva all'arredamento e che si riduceva in genere ai letti, ai sedili, alle tavole e agli armadi, oltre naturalmente a tutto ciò che serviva ad ornare la casa come quadri, baldacchini, tende; velaria, e altro. Sebbene quasi priva di mobili, la casa romana era fornita di vari tipi di letto: per dormire; lectus cubicularis, per studiare; lectus lucubratorius, per pranzare; lectus tricliniaris, su cui venivano messi materassi; culcitae, e cuscini; cervicalia, pulvini. Il letto era praticamente l'unico vero mobile buono per tutti gli usi. I ricchi avevano letti di legno prezioso o in bronzo, intarsiati d'avorio, di tartaruga oppure di legni diversi che davano effetti cangianti simili a quelli delle piume del pavone; i poveri avevano letti in muratura addossati alla parete e coperti da un pagliericcio. Esistevano letti ad uno, due e tre posti per i banchetti e durante l'impero chi voleva ostentare un lusso particolare ne ordinava a sei posti. Suppellex I sedili erano di tre tipi: scamnum o subsellium, semplici sgabelli a quattro gambe, la sella senza spalliera, ma con i braccioli e la cathedra con una spalliera lunga ed arcuata, destinata generalmente alle donne o a maestri e sacerdoti. Il seggiolone; thronus, con schienale e braccioli era riservato alle statue degli dei. Completavano il quadro i tavolini a tre gambe o ad una gamba sola con largo piedistallo. Le tavole per l'esposizione del vasellame durante il banchetto erano chiamate abaci, mentre le mensae venivano poste presso il letto triclinare perché i commensali potessero appoggiarvi le stoviglie: avevano una, tre o quattro gambe e il materiale di fattura variava dal semplice legno al prezioso avorio. Gli armadi; armaria, appoggiati a terra o appesi al muro, avevano approssimativamente la forma dei nostri. L'arca era bassa, di materiale pesante e ornata di borchie di bronzo; conteneva il patrimonio liquido della casa. Nelle case di lusso, il resto dell'arredamento era costituito da tappeti, coperte, trapunte, cuscini e soprattutto da ogni sorta di oggetti preziosi: vasellame d'oro e d'argento, statue e ninnoli di ogni genere. La dimora di un senatore, ad esempio, era in sostanza una serie di grandi stanze nude, in cui la ricchezza era testimoniata dalla profusione delle stoffe e dei soprammobili rari, ma dove mancava tutto quel genere di comodità con cui oggi noi identifichiamo il benessere.

In figura: ricostruzione del triclinum di una domus di ceto medio-alto.


Gli Horti


I giardini romani non assomigliavano assolutamente ai nostri. Pur essendo grandi esperti delle bellezze di piante, fiori ed arte da esterno, i romani possedevano, per quanto riguarda le piante, solo poche varietà, giacché la selezione che ha portato alle odierne specie non era ancora iniziata. Inoltre, i canoni estetici dell'antichità erano sostanzialmente diversi dai nostri; pur apprezzando l'opulenza di un giardino perfetto, ma sterile, l'indole pratica romana prevaleva anche su questo aspetto della villa, facendo accostare alle piante ornamentali numerose colture di alberi da frutta e di ortaggi. Ciò non significa che il giardino di una villa patrizia fosse una piantagione di cavoli o di altro. In sostanza non c'era quella netta divisione che si potrebbe avere oggi in campagna tra il giardino, solitamente ameno alla casa, e l'orto propriamente detto. Lo stesso nome, hortus, andava ad indicare sia la coltivazione prettamente estetica, che quella alimentarmene funzionale che erano sviluppate nei pressi della villa. Un esempio di specie non presente, così come la conosciamo, nei giardini latini è la rosa. La produzione delle numerose varietà di rose che si conoscono avrà inizio dopo le selezioni che avranno fatto i Persiani, svariati secoli dopo la caduta dell'Impero d'Occidente. Nell'epoca imperiale l'unica varietà di rosa era quella che oggi chiamiamo "Canina"; una corolla con pochi petali legata ancora alla sua origine selvatica. I fiori di bordura erano gli stessi fiori che crescevano spontaneamente nei campi e svariate erano le qualità di piante selvatiche usate per decorazione; more, mirti, oleandri… Con una tale, limitata, scelta delle varietà di specie, e dalla quasi totale assenza di piante esotiche, il giardino romano rischiava di apparire monotono ed uniforme. Il gioco era quindi nello sfruttare questi mezzi di partenza per creare qualcosa di piacevole. Gli specialisti dell'ars topiaria cercavano di rendere movimentato l'ambiente di un giardino operando, non tanto con i colori, ma con la forma delle piante. Erano quindi potate nelle più strane forme e poste in modo da creare diverse sfumature del verde del fogliame, dall'intensità del lauro, all'argento dell'ulivo, alla compattezza dei cipressi fino alla lucida superficie delle foglie di pungitopo. Il resto veniva dagli alberi da frutta che potevano vantare smaglianti fioriture, spesso anche più incisive di quelle puramente ornamentali: si pensi alla bianca fioritura del pesco; albero importato dall'oriente da Lucullo insieme al ciliegio ed ai locali peri e meli; le albicocche, esotiche anche loro, furono importate dall'Armenia. Un elemento indispensabile al giardino dei Quiriti era l'acqua: giochi di fontane e sculture creavano stupendi ninfei, nelle cui acque era coltivato quel tipo di pianta acquatica che chiamiamo proprio ninfea e che esplode in coloratissime fioriture. Nicchie e mosaici ornavano questi angoli, che nelle villae più importanti raggiungevano dimensioni considerevoli (Nel ninfeo della villa di Domiziano ad Albano Laziale, sui colli Albani, è stata ricavata una chiesa nel medioevo). Piccoli ruscelli percorrevano il prato in canaletti di marmo cui erano attribuiti nomi egiziani, euripi, canopi, nili. Nel giardino era essenziale che ci fossero anche animali; soprattutto uccelli ornamentali: pavoni, colombe, ibis, aironi, merli e passeri. Quelli rari erano tenuti in enormi voliere all'interno delle quali passava spesso un corso d'acqua. Nelle villae più raffinate, come quella di Lucullo al Tuscolo, si ponevano dei triclini all'interno delle voliere così che i banchetti potessero essere consumati in un ambiente rilassante e indicativo di agiatezza. Molto più raramente, ce ne sono nella villa di Lucullo al Tuscolo, nei giardini erano presenti delle vasche di itticultura, vere e proprie piscine dove erano allevati pesci commestibili (anche di specie che noi oggi non mangeremmo come le Murene) dei quali i romani erano ghiottissimi. Come per le voliere, una piattaforma era spesso posta al centro della piscina per permettere di approntarci una mensa che stupisse anche i commensali più dediti ai fasti.


Illuminazione


Le case romane erano piuttosto buie anche di giorno per il ridotto numero di finestre e per la scarsa diffusione dei vetri alle finestre, sebbene durante l'impero il lapis specularis fosse impiegato talvolta dalle famiglie agiate per chiudere l'alcova della stanza da letto o per sostituire le tende alla portantina. Perciò le aperture che davano luce e aria alla casa funzionavano bene solo quando il clima era mite. Col freddo, o ci si ammalava per vedere o si sbarrava tutto con pesanti tende di pelle e imposte di legno, a patto però di togliere luce completamente alla casa. Candele e torce risolvevano alla meglio il problema. La casa era solitamente illuminata con lampade ad olio; lucernae, o candelae diverse dalle nostre, formate da cordicelle, ricoperte di sostanze grasse o cera, che venivano intrecciate come funi e fissate a candelabri detti lychni. Per spostarsi all'interno degli ambienti si faceva luce con la lanterna a mano; lanterna, retta da uno schiavo adibito a questa mansione; lanternarius, e formata da un lume a olio protetto da sottili pareti di mica. Le fiaccole di legno resinoso dette taedae erano invece usate in occasioni importanti come matrimoni o funerali.


Toponomastica delle vie


Indicare l'ubicazione di un'abitazione costituiva un grosso problema; per l'assenza di nomi alle strade e la totale mancanza di numerazione civica alle case. Per fornire un indirizzo era perciò necessario ricorrere ad indicazioni quasi tutte approssimative, causa spesso di equivoci, errori e perdite di tempo. A meno della remota ipotesi che la propria casa fosse un edificio particolarmente noto: il Palazzo Imperiale…l'Insula Felicles. Un secondo caso, anch'esso non molto diffuso, era che la propria via di residenza fosse una delle poche alle quali, anche se in maniera non ufficiale, era stato tributato un nome: la via Sacra, la via Salaria, una via Consolare…; nome che derivava dall'uso che se ne faceva, da dove proveniva o da chi l'aveva fatta costruire.


Bibliografia


FLOCHINI, GUIDOTTI, BACCI - "Il Nuovo Libro degli Autori" Bompiani 1993
CALVANI, GIARDINA - "Storia Antica-Roma" Laterza 1992
BRANCATI - "I Popoli Antichi 2" La nuova Italia 1988
MONTANELLI I. - "Storia di Roma" Rizzoli 1991
COMASTRI, MONTANARI - "Cave Canem" Hobby & Work 1999


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Le Abitazioni nella Roma Imperiale - 627Kb


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