Una
toccante raccolta di grandi ballate, come pochi oggi sarebbero in grado
di presentare: questo il primo vero riscontro suscitato da un lungo, meditato
ascolto di Pneumonia, agognato disco di addio di una delle formazioni
chiave del rock americano di questi anni. Si è detto molto e si è costruito
troppo intorno al mito infinito di queste registrazioni, risalenti al
’98 e rimaste nel cassetto per un periodo infinitamente lungo, causa
lo sfaldamento della band e i risaputi intralci di carattere discografico
(la scomparsa della loro vecchi etichetta Outpost). Grazie alla neonata
ed attivissima Lost Highway (pubblica anche il nuovo lavoro di
Lucinda Williams), sussidiaria del colosso Universal, torniamo in possesso
dei fantomatici nastri perduti, quasi ci trovassimo di fronte ad una sorta
di Basement’s Tapes della nuova generazione roots. Piaccia
o meno, Pneumonia è un lavoro di rottura, che svela tutte le successive
mire solistiche di Ryan Adams, tanto da poter essere considerato
un primo vero tentativo di proseguire in solitudine, facendo carta straccia
di gran parte delle certezze del passato: della vecchia line-up infatti,
resta solo Caitlin Cary ed il suo violino, affiancata da Mike
Daly alle chitarre e da numerosi amici, tra cui Ethan Johns alla
batteria (ed anche alla produzione), Tommy Stinson dei Replacements
e James Iha, ex Smashing Pumpkins. Non si rilevano la cruda e furiosa
rabbia country-punk di Faithless Street, ne tanto meno gli orizzonti
desertici e le perfette alchimie roots di Stranger’s Almanac:
si mettano l'animo in pace gli irriducibili sostenitori del sound "no
depression" ad oltranza, perché gli Whiskeytown fanno le stesse
coraggiose (ed intelligenti aggiungo io) scelte degli Wilco. Le radici
country non sono rinnegate, ma tutti i fuoriclasse del settore scelgono
irrimediabilmente di diventare adulti e siccome Ryan Adams è un autore
superbo, infarcisce Pneumonia di vibranti canzoni con la c maiuscola,
in cui la tradizione della ballata country è disciolta in copiosi bagni
di pop beatlesiano (Mirror Mirror, quasi imbarazzante, The ballad
of Carol Lynn, Don’t be sad) ed in una leggiadra eleganza,
che rimanda a maestri quali Randy Newman. Don’t wanna know why,
la stellare Sit down & listen to the rain e le classiche cadenze
western puntellate dalla pedal steel in My hometown e Jacksonville
skyline sono un passaggio aperto con il passato. E se Paper moon
è l'unico indigeribile pasticcio infilato su 14 brani, con quel suo spocchioso
intreccio di violini e mandolini in salsa messicaneggiante, poco importa,
perché il finale è tutto rimesso nel cuore di un grandissimo autore, che
ci riversa addosso la malinconica poesia di Easy hearts per chiudere
poi con l’andamento scoppiettante di Bar lights, con il violino
della Cary a colorare di passione un disco bello, importante e necessario
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