Fosse uscito nel 1980, The Big Issue avrebbe avuto le sue
discrete credenziali da giocarsi, in un periodo in cui scrivere pop song
intelligenti e sbarazzine non era un delitto, ma il segno di una nuova
generazione di musicisti stanchi della rabbia nichilista punk. Per Brian
Jay Cline l'orologio si è fermato da quelle parti e non sembra
curarsi troppo degli inevitabili paragoni, francamente pesanti da reggere.
Il suo terzo lavoro, che segue peraltro di pochissimi mesi l'uscita del
precedente Fast
Train to Brooklin' conferma la sua completa maturazione in
chiave pop, abbandonando anche gli ultimi orpelli di matrice roots-rock
riscontrabili agli esordi discografici. Assai più centrato
ed omogeneo, The Big Issue abraccia definitivamente il verbo di un limpido
pop-rock, grazie anche all'apporto delle tastiere di Chris Nichols,
pescando a piene mani nella new-wave inglese di fine settanta (Nick Lowe
e Squeeze i primi nomi che saltano all'occhio) e in tutti quegli artigiani
della canzone pop che hanno saputo unire chitarre e melodia (Marshall
Crenshaw resta un esempio da citare all'infinito). C'è più
personalità in campo e le canzoni stanno in piedi da sole, senza
scomodare troppi confronti: in particolar modo il tris iniziale resta
la sorpresa più piacevole. Merry Go Round è puro
power-pop, One more Broken heart è leggera come una piuma,
mentre Much Ado About Nothing sembra uscire dalle frequenze di
una college radio di metà anni ottanta. Lungo il percorso Brian
inciampa in qualche riempitivo anonimo, specie se tenta di indagare altri
territori musicali (Roamin' Holiday, Touch and Go), ma quando
torna sui passi sicuri del suo stile è impossibile non riconoscere
un talento genuino (Upside Down/Inside Out, All Roads Lead to
You), anche se leggermente ripetitivo negli schemi compositivi.
(Fabio Cerbone)
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