Non
è affatto semplice portare sulle spalle il peso di rinnovare una
tradizione che si perde nella mitologia della storia americana,
eppure, anche in un momento in cui parlare di rinascita della vecchia
folk music è una verità incontrovertibile, personaggi come
Guy Davis mantengono una linea di condotta artistica talmente intransigente
e pura da essere quasi snobbati. Insieme ad altri giovani autori afroamericani
(Corey Harris, certo, ma anche Alvin Youngblood Hart) prova a dare un
senso nuovo e affascinante ad una musica antica quanto e più degli
stessi States. Il suo approccio nobile alla materia, da raffinato finger-picker
acustico (alla chitarra e al banjo), potrebbe confondere le idee: qui
non si tratta di revival fine a se stesso, ma di una conoscenza talmente
intelligente, profonda ed enciclopedica dei linguaggi rurali del blues,
che riesce ad essere rielaborata per creare nuovi classici. Certo, in
Give in Kind (quinto disco in ciso con la Red House) passano
in rassegna Big Bill Broonzy (Good Liquor), Mississippi Fred Mcdowell
(Loneliest Road That I Know) o Leroy Carr (Six Cold Feet of
Ground), omaggi personali e pieni di trasporto ai propri padri ispiratori,
ma è il materiale originale a rendere il disco uno degli atti d'amore
più passionali del nuovo movimento blues: il magico afflato gospel
di I Will Be Your Friend, il crudo delta-blues di Layla Layla
(in apertura si sente persino un digeridoo, strumento tradizionale aborigeno)
e I Don't Know, la dolcezza country-blues di Grandma is Dancing,
gli spiriti di Mississippi John Hurt in Joppatown. Una voce immensa,
quella di un quarantenne che sembra portarsi appresso tutta la storia
di un popolo, ed arrangiamenti dalla forte impronta acustica sono un bagaglio
sufficiente per incidere un mezzo capolavoro.
(Fabio Cerbone)
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