Di fronte alle ispide ed oscure trame della musica di Johnny Dowd si
rimane sempre spiazzati: personaggio assolutamente anarchico ed irriverente,
ha esordito alla "tenera" età di cinquant'anni con un
sintomatico Wrong Side of Memphis (1998), manifesto di un
approccio deviato ed oltraggioso verso le sue radici sudiste (originario
del Texas, ha vissuto per anni in Oklahoma). Da quel punto in poi il suo
percorso musicale si è ulteriormente indurito: stabilito un fruttuoso
sodalizio con la sua band, ha sporcato il suo folk-blues d'impostazione
acustica con arrangiamenti ed atmosfere nere come la pece, inventandosi
uno strampalato folk industriale, tra tastiere minacciose, canti sulfurei
ed infernali addolciti dalla seconda, insostituibile voce di Kim Sherwood-Caso.
The Pawbroker's Wife continua questo percorso, confermando
pregi e difetti della formula musicale abbracciata: la produzione di Justin
Asher (anche chitarrista del gruppo), oltre ai sintetizzatori ed alle
batterie elettroniche di Brain Wilson feriscono meno che nel precedente,
torbido Temporary Shelter (uscito giusto un anno fa), rendendo
questo lavoro il più digeribile e meno contorto della sua produzione;
tuttavia continua ad essere un autentico tour de force giungere in fondo
ad un disco del buon Johnny senza essere assaliti da un senso di angoscia.
Ironico nel proporre una versione stravolta di Jingle Bells (si,
proprio la famosa canzoncina natalizia), Dowd insegue ritmiche sbilenche
in On shakey ground we stand, fa il verso al Tom Waits più
rumorista in Billy blu, affonda le mani nel fango del Delta-blues
(King of emptiness) e ci assalta frontalmente con le scariche punk
di Sweeter than honey. Niente compromessi: o lo si ama o lo si
trova assolutamente insopportabile.
(Fabio Cerbone)
>>Intervista
a Johnny Dowd
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