Credo
di aver perso il conto: il cosiddetto new breed
del country-rock texano non conosce sosta e continua imperterrito a sfornare
autentici outsiders, tutti indistintamente sottoposti alla vigile protezione
di Lloyd Maines, produttore di un centinaio di dischi all'anno,
che credo abbia ricevuto il dono dell'ubiquità. Dub Miller
allunga la lista e non cambia le carte in tavola: mettetelo tranquillamente
al fianco di Pat Green, Cory Morrow, Roger Creager e compagnia cantante,
vista la materia trattata con sufficiente freschezza in Post Country,
seconda uscita dopo il brillante esordio di American Troubador. La copertina
per altro sintetizza meglio di qualsiasi recensione la sostanza delle
sue canzoni, che sono uno spaccato ruspante del grande Texas, lungo le
strade impolverate del rock'n'roll. Come sempre si registra una produzione
cristallina da parte di Maines, che mette a disposizione qualche mezzo
in più della media e musicisti poco noti, ma in grado di fornire
le giuste vibrazioni, le quali, vale la pena segnalarlo, non si ricucono
al solito honky-tonk di maniera. Nelle vene del giovane Dub scorre sangue
da ribelle rocker di provincia: Cowboys and Sailors e specialmente
la palpitante I'd Do Anything possiedono il tiro stradaiolo del
primo Steve Earle,
periodo Guitar Town-Exit O. Il resto raccoglie quello che ti aspetteresti
da un buon disco di country-rock made in Texas: ballatone di gran effetto
quali Insanity and Texas, honky-tonk spicciolo (That's When
I'm Coming Home, Honky Tonks and Dancehalls), malinconiche
cowboy songs in stile Jerry Jeff Walker (citazione per The Little Cowboy's
Prayer) e saltellanti quadretti rootsy (21st Century Cowboy).
I texani hanno la pelle dura e non deludono mai.
(Fabio Cerbone)
www.dubmiller.com
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