Tucson
continua ad essere un luogo speciale sulla mappa del rock perferico americano:
come in altri piccoli santuari del roots-rock, l'incredibile forza comunicativa
del paesaggio circostante si riversa in un sound perfettamente distinguibile.
Credo che citare esempi quali Giant Sand e Calexico possa rendere bene
il concetto racchiuso in questa introduzione. Joe Peña e
i suoi Greyhound Soul (a proposito, un nome splendido) non fanno
eccezione: il suono del deserto ce l'hanno nel sangue e lo rigurgitano
in un bluesy-rock crudo e arido, a tratti nervosamente elettrico, altre
volte magnificamente soulful e d'atmosfera (la bellissima Roll on).
Il merito va assegnato principalmente alle timbriche rauche della voce
di Peña, alternativamente accostata a Tom Waits e Bob Dylan, ma
in realtà del tutto personale e forse più affine ad un altro
grande ed ignorato cantore del deserto quale Guy Kyser dei Thin White
Rope. La band ha esperienza da vendere, e la ruvida produzione è
una garanzia assoluta nelle mani di Craig Schumacher: il risultato
è Alma de Galgo, affascinate viaggio desert-rock
di quasi settanta minuti, secondo lavoro per i Greyhound Soul dopo l'esordio
del '96 con Freaks. Non c'è che dire, Joe Peña
e soci si prendono tutto il tempo necessario, ma poi sfoderano dieci canzoni
di elevatura mediamente superiore, con pochi inevitabili riempitivi, vista
anche la lunghezza del cd: dalle stilettate elettriche in apertuira con
Love don't rain, rock'n'roll ringhioso, alle atmosfere rootsy di
una ballata come Nothin', dal roboante folk-rock dyalniano di Alligator
Face e Hold my heart alle lunghe conclusive cavalcate di Whole
e I'll never know (sopra i sette minuti) è un continuo inseguirsi
di ombre dalla classica iconografia del western-rock, all'incrocio tra
la Band, il Dylan più scontroso ed il deserto younghiano di Zuma.
(Fabio Cerbone)
www.greyhoundsoul.com
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