Quante
vite aritistiche ha attraversato quest'uomo? Autentico istrione del rock'n'roll,
David Johansen ha visto e provato di tutto: dall'incandescente
stagione nelle New York Dolls alla bruciante carriera solista fino a trasformarsi
nel grottesco padrone dei night club col nome di Buster Poindexter, sempre
e comunque eroe indiscusso della New York musicale più eccitante
e scoclusionata. Nel 2000 l'ultima folgorazione, quella in fondo che sembra
averlo riportato ad un'ispirazione autentica, persa per strada alla fine
dei settanta. Il nuovo amore si chiama blues e lui si è buttato
nell'avventura con una passione ed uno slancio incontestabili: gli Harry
Smiths (doversoso omaggio al grande autore dell'Anthology of American
Folk Music) sono la sua nuova band, non conoscono l'elettricità,
ma suonano con una visceralità che raggiunge gli stessi effetti
di una rock'n'roll band. Shaker è il naturale proseguio
dell'esordio di due anni orsono, quello che gli ha fatto guadagnare le
attenzioni di Rolling Stone e Mojo (votato Blues album of the year):
crudo, asciutto e intrasigente nel rivisitare la tradizone del country-blues
(passano in rasegna proprio tutti, da Muddy Waters a Mississippi John
Hurt, da Charlie Patton a Lightnin' Hopkins), poetico fino alle lacrime,
pone al centro la sua voce cavernosa, che mette i brividi sia quando scava
nel torbido (l'oscura Deep Blue Sea, I Can't Be Satisfied,
The Last Kind Words), sia quando raggiunge il paradiso (My Morphine,
cover di Gillian Welch ed unico brano dalla storia recente; Let The
mermaids Flirt With Me). La band accompagna in punta di piedi, le
chitarre acustiche sono protagoniste assolute (Brian Koonin e Larry Saltzman)
mentre la batteria jazzata (Keith Carlock) muove passi felpati sullo sfondo.
Puro ed incontaminato, nella direzione opposta a gran parte della moderna
pop music.
(Fabio Cerbone)
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