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David Johansen & The Harry Smiths - Shaker Chesky 2002

 Quante vite aritistiche ha attraversato quest'uomo? Autentico istrione del rock'n'roll, David Johansen ha visto e provato di tutto: dall'incandescente stagione nelle New York Dolls alla bruciante carriera solista fino a trasformarsi nel grottesco padrone dei night club col nome di Buster Poindexter, sempre e comunque eroe indiscusso della New York musicale più eccitante e scoclusionata. Nel 2000 l'ultima folgorazione, quella in fondo che sembra averlo riportato ad un'ispirazione autentica, persa per strada alla fine dei settanta. Il nuovo amore si chiama blues e lui si è buttato nell'avventura con una passione ed uno slancio incontestabili: gli Harry Smiths (doversoso omaggio al grande autore dell'Anthology of American Folk Music) sono la sua nuova band, non conoscono l'elettricità, ma suonano con una visceralità che raggiunge gli stessi effetti di una rock'n'roll band. Shaker è il naturale proseguio dell'esordio di due anni orsono, quello che gli ha fatto guadagnare le attenzioni di Rolling Stone e Mojo (votato Blues album of the year): crudo, asciutto e intrasigente nel rivisitare la tradizone del country-blues (passano in rasegna proprio tutti, da Muddy Waters a Mississippi John Hurt, da Charlie Patton a Lightnin' Hopkins), poetico fino alle lacrime, pone al centro la sua voce cavernosa, che mette i brividi sia quando scava nel torbido (l'oscura Deep Blue Sea, I Can't Be Satisfied, The Last Kind Words), sia quando raggiunge il paradiso (My Morphine, cover di Gillian Welch ed unico brano dalla storia recente; Let The mermaids Flirt With Me). La band accompagna in punta di piedi, le chitarre acustiche sono protagoniste assolute (Brian Koonin e Larry Saltzman) mentre la batteria jazzata (Keith Carlock) muove passi felpati sullo sfondo. Puro ed incontaminato, nella direzione opposta a gran parte della moderna pop music.
(Fabio Cerbone)

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