Non
c'è che dire, Beth Orton ha agganciato il treno fortunato. Daybreaker
è il disco del momento (trendy, si direbbe oggi), e lei la voce femminile
più autorevole e chiacchierata del moderno songwriting. Una maturazione
costante, una crescita ed un assestamento dei propri gusti musicali continuo,
che conduce le certezze dei precedenti Trailer Park e Central Reservation
verso i lidi dorati di un folk-pop che non può non conquistare i palati
più esigenti. Seducente, adorabile, delizioso, sono gli aggettivi scomodati
per l'occasione: il senso è quello di racchiudere l'impalpabile eleganza
di un folk-rock un poco futurista, che mischia un suono acustico assai
tradizionale (qualcosa che vaga tra John Martyn e Linda Thompson) con
i trucchi dell'elettronica più alla moda (i Chemical Brothers che
sperimentano nella title-track) e le malizie pop che garantiscono l'accogliemto
nei circuiti radiofonici. Qualche illustrre ospite accresce la curiosità
(prezzemolino Ryan Adams e sua signora del country Emmylou Harris
in God Song) ed il gioco è fatto. Beth Orton non ha bisogno di
spinte eccessive, non fraintendete: il talento c'è e si sente, come del
resto una voce inconfondibile, ma resta il fatto che le troppe distrazioni
elencate distolgono l'attenzione dal vero contenuto di queste canzoni,
che non sono, va detto sinceramente, un autentico capolavoro. Hanno grazia
da vendere (Concrete Sky è un singolo di prima classe), una malinconia
di fondo coinvolgente (Carmella, This One's Gonna Bruise),
ma risultano spesso algide nei loro arrangiamenti (la pomposa Paris
Train), e parecchio tediose nello svolgimento (Mount Washington).
Brava si, ma forse non sarebbe meglio ridimensionare il personaggio?
(Fabio Cerbone)
bethorton.astralwerks.com
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