Tra
i più acuti alchimisti dei suoni della frontiera,
Stan Ridgway resta uno dei songwriters più geniali ed ignorati
degli ultimi anni, un autore singolarissimo, che è riuscito nel
difficile compito di rendere uniche ed affascinanti le sonorità
del deserto, partendo dalla tradizione country e rock'n'roll, per delineare
un suono sintetico e moderno, infarcito di un armamentario di tastiere
e batterie elettroniche. I puristi storceranno il naso, troveranno indigeste
le sue elecubrazioni elettroniche, eppure Stan, a partire dalla ormai
lontana avventura con i Wall of Voodoo alla fine dei settanta,
ha incarnato un progetto singolarissimo, assolutamente originale, nato
dalle ceneri della scena punk e finito diritto tra le realtà più
eccitanti della new-wave americana. Holiday in Dirt non
è il suo nuovo solista, ma potrebbe benissimo essere considerato
in tali termini, tale è la coesione e la forza del materiale raccolto.
In realtà si tratta di "scarti" ed inediti di studio
dei suoi ultimi dieci anni di carriera, non rietrati per vari motivi nei
suoi ultimi dischi, tra cui ricordiamo Black Diamond del
96, praticamente un capolavoro. Ci si accorge dunque della precisa identità
di questi brani, che vanno a formare un disco completo a tutti gli effetti:
è il solito, ammaliante Stan Ridgway con il suo inconfondibile
taglio cinematografico per una ipotetica colonna sonora di un b-movies
poliziesco sulle strade della California. Radici country (Floundering
e l'acistica Act of Faith) e border songs riadattate ai suoi gusti
(Time inside), rivisitazioni e stravolgimenti del suo passato punk
e garage-rock (After the storm), in uno scenario apocalittico.
Basterebbero le mirabili movenze notturne di Operator help me ed
il robusto rock'n'roll di End of the line per garantirne l'imperitura
gloria.
(Fabio Cerbone)
www.newwestrecords.com
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