Le
fluttuanti, fragili melodie dei Savoy Grand ti avvolgono delicatamente
e non tentano minimamente di graffiare: ammalianti e letargici a seconda
dei punti di vista e dei diversi stati d'animo, si collocano in quella
nutrita schiera di incalliti amanti della depressione alternativa. Affondano
le radici nel seminale post-rock degli Slint, una formazione cardine dell'underground
americano degli anni novanta, prendono in prestito la malinconia perenne
di Smog e Songs: Ohia, rielaborando la materia con un gusto del minimale
che ha del prodigioso. Non sono per tutte le stagioni queste canzoni:
la voce di Graham Langley (autore di tutti i testi) sospira e sussurra,
le chitarre ricamano sullo sfondo e tutto si adagia su un tappeto di tastiere
e batterie appena accennate che ti lasciano sprofondare in una malinconia
quasi dolce e confortevole. Ballate eteree (A trained dog), squarci
di elettricità e melodia improvvisi (Moonlit e la splendida
Face down in a fountain) , atmosfere notturne (la lunghissima The
mirror song) e a tratti quasi jazzate, con l'uso suggestivo della
tromba (Ian Sutton) per un esordio sulla lunga distanza (dopo l'ep
di Dirty Pillows del 2000) che mantiene tutte le entusiastiche
promesse ravvisate dalla stampa (Mojo e New Musical Express). Hanno padri
musicali americani, ma loro vengono da Nottingham, Inghilterra, e sembrano
aver trovato una formula vincente: quelli che potranno essere gli sviluppi
futuri è difficile dirlo. Il sound è assolutamente identificabile
e sembra non lasciare troppi spazi di manovra, sfiorando a volte una certa
ripetitività, ma è inutile fare processi alle intenzioni.
Intanto culliamoci in questa beata tristezza post-rock.
(Fabio Cerbone)
www.savoygrand.co.uk
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