Le avvisaglie
di un talento pronto ad esplodere erano nell'aria fin dal suo esordio,
More Storms Comin, in seguito confermate anche dalla preziosa presenza
nel tributo a Mississippi John Hurt. Difficile tuttavia prevedere uno
scarto fulmineo dal tradizionale tracciato d'impostazione rock-blues su
cui si era costruito la sua immagine. Mark Selby non è l'ennesimo
guitar-hero cresciuto all'ombra di Steve Ray Vaughan (come il suo amico
Kenny Wayne Shepard, per esempio): è innegabile che l'intero mondo
delle dodici battute sia una componente essenziale, che cova sotto le
ceneri del suo rock'n'roll ad alto tasso emozionale, eppure Dirt
svela soluzioni (merito dellla produzione in coppia con Brent Maher) e
canzoni di una maturità sorprendente per essere solamente al secondo
lavoro. Lo si intuisce al primo stacco di chitarra in Reason Enough
che Dirt è il disco rock che aspettavamo da tempo, crudo e torbido
quando serve, romantico all'inverosimile e senza alcun senso di pudore
nelle pause acustiche. L'attacco ricorda il Charlie Sexton solista (che
ci manca un po', a dire il vero) ed è una scarica di adrenalina
pura, con una slide assassina sullo sfondo e riff al cardiopalma. Insieme
all'epica Willin' to Burn ed al finale incendiario della title-track
rappresenta un autentico arsenale di artiglieria rock'n'roll da non perdere.
Fosse tutto qui non ci sarebbe bisogno di scomodare le quattro stelle.
La sorpresa arriva dalla capacità di scavare nei meandri nelle
sue radici black e di sovrapporre elettrico ad acustico: nel soul-rock
palpitante di Back Door to My Heart e Moon Over My Shoulder,
con organi e slide guitar ad imprimere passionalità; nei profumi
west-coast di You e Deep Pockets; nel clima raccolto di
Easier to Lie; persino nel rock proletario di Unforgiven,
che ricorda il Mellencamp più sporco di Whatever We Wanted. Abbiamo
perso un onesto bluesman, abbiamo acquistato un rocker di razza.
(Fabio Cerbone)
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