Quest'uomo sa come far parlare una chitarra: nel caso aveste qualche dubbio,
i quindici brani compresi in Tinitus sono l'ennesima variazione
sul tema che Rich Hopkins propone da vent'anni a questa parte.
Personaggio a ragione mitizzato e ritenuto un'icona della scena di Tucson
nell'Arizona, il nostro protagonista sguazza nei bassifondi dell'underground
da troppo tempo ormai per non rendersi conto che il suo treno fortunato
gli è sfrecciato davanti e non tonerà più indietro.
Anche per questo continua ostinatamente a proporre un rock'n'roll vitale
e periferico che farà la gioia di chi apprezza l'elettricità
frenetica dei Crazy Horse, i feedback e le sventagliate psicheliche, gli
echi mai sopiti del Paisley Undergorund (Dream Syndicate e compagnia al
seguito). Altri si sarebbero arresi da tempo, lui invece continua a sfornare
con regolarità impressionante (a volte un po' eccessiva) dischi
fatti con pochi mezzi e molto amore. Dopo Sidewinders e Sand Rubies, i
Luminarios sono la sua ultima incarnazione in ordine di tempo,
quella che gli è riuscita meglio, a dire tutta la verità.
Inizialmente disponibile solo mailorder e durante i suoi frequenti tour
in terra tedesca, Tinitus approda ad una distribuzione più capillare:
il sapore è quello di un disco informale, non molto unitario, infarcito
di stacchi strumentali (Americana, Solyet Burger) e frequenze disturbate
(Oma, Prayer of Thanksgiving) un poco fuori luogo, ma con
all'interno alcune gemme che rischiarano il cupo cielo invernale. Per
esempio la cruda versione di Eight Miles High dei Byrds, rivelatrice
delle sue indelebili influenze sixties, la travolgente cavalcata lisergica
di Mumbly Peg, un'ode alla chitarra Younghiana, gli orizzonti desertici
di Poker Face e Signed D.C., il rock squadrato di Looked
Away e via di questo passo, fino al finale acustico ed allucinato
di Weed Runner Blues. Fosse stato costruito con più pazienza, Tinitus
avrebbe potuto persino assomigliare ad un piccolo gioiello. Ci accontentiamo
della norma.
(Fabio Cerbone)
www.sanjacintorecords.com
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