Inattesa
ricomparsa sulle scene del principe del country gotico David Eugene
Edwards, leader dei funerei Sixteen Horsepower, in una momentanea
pausa di riflessione dalla sua principale attività (il nuovo disco
della band è previsto per i prossimi mesi). Woven Hand nasce
come estemporaneo progetto parallelo ad una carriera sempre più
densa di riconoscimenti, ma forse troppo stretta per il vulcanico talento
di Edwards, una delle voci più ispirate e tenebrose del rock americano
di matrice roots. Sorta di lavoro solista sotto mentite spoglie, prodotto
e suonato nella quasi totalità dallo stesso Edwards, il disco si
avvale tuttavia della preziosa collaborazione di Stephen Taylor
alla chitarra elettrica e molto sporadicamente di Daniel McMahon
al piano ed organo, unici compagni di un viaggio che, come d'obbligo,
si contorce tra melodie oscure ed ombre funeste, intriso di una cupezza
affascinante fin dalle prime battute di The good hand. Non siamo
in fondo molto distanti da quanto abbiamo imparato ad amare in questi
anni con la sua creatura Sixteen Horsepower: atmosfere dark-folk ed allucinazioni
in chiave sudista sono sempre la musa ispiratrice, e sorprende favorevolmente
quanto David riesca a non apparire ripetitivo e maniacale nelle sue scelte
stilistiche. L'immaginario dunque non cambia, ma la musica diventa effetivamente
più sontuosa e rarefatta (Wooden brother, Arrowhead),
quasi religiosa (Blue pair fever), in gran parte acustica, sulla
scia del maestro Nick Cave. Si perdono per strada gli accenti smaccatamente
roots e l'impressione generale è di fronteggiare un folk-rock che
si è imbevuto nella new-wave più tetra (eccezionale l'accoppiata
My Russia-Your Russia e la cover stravolta di Ain't no
sunshine), uscendone con uno stile del tutto riconoscibile.
(Fabio Cerbone)
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