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  Inchieste


 

Malgioglio il diseredato

di Andrea Di Caro - Ott.2001

Alla fine di questo articolo, non meravigliatevi. Come chi sta scrivendo, potreste stupirvi o restare amareggiati al pensiero che per "uno così" nel calcio d'oggi non ci sia posto: e invece se vi fermate a ragionare, tutto torna. Il calcio business, tutto soldi e "fame di vittoria", persone come Astutillo Malgioglio non le vuole, non sa che farsene, anzi ne ha paura. Di sicuro non se le merita. La voce bassa, le parole piene d'amarezza. Malgioglio, 43 anni ex portiere di Brescia, Roma, Lazio, Inter e Atalanta, racconta la sua storia. Da giocatore ha sempre diviso il suo tempo tra i campi di calcio e l'aiuto ai bambini disabili. Un impegno costante che lo portò ad aprire un centro di recupero a Piacenza, città dove è nato e adesso vive. Terminata la carriera si è dedicato totalmente ai bambini handicappati, ma da un anno è stato costretto a chiudere la palestra per mancanza di fondi. "Hanno vinto loro. Mi hanno battuto. Da giocatore ho lottato tutti i giorni, per continuare ad aiutare chi, al contrario di noi calciatori, non potrà correre mai. Adesso che sono un ex, non ho più frecce nel mio arco, né forza per combattere. Quello del calcio è un mondo senz'anima. Gira solo intorno a se stesso e ai suoi piccoli drammi della domenica; ogni voce fuori dal coro è un pericolo. E quando smetti, si spengono le luci. Nessuno si ricorda più di te". Astutillo scava nel passato e ricorda: "Avevo 19 anni ed ero titolare del Brescia in serie B quando, grazie ad un amico, visitai per la prima volta un centro per disabili. Mi impressionò la loro emarginazione, l'abbandono, il menefreghismo della gente. Fu un'emozione fortissima, un pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale, mi avevano già "insegnato" il rispetto e la solidarietà verso gli altri, ma quel giorno tutto mi apparve chiaro. La vita non è solo una palla di cuoio. Mi sono messo a studiare e mi sono specializzato nei problemi motori dei bambini. Poi col primo ingaggio ho aperto una palestra ERA 77 (dalle iniziali del nome di mia figlia Elena nata nel 1977, mia moglie Raffaella e del mio). Lì offrivamo terapie gratuite ai bambini disabili. Li aiutavamo a camminare, a muoversi da soli". Il tentativo di coinvolgere i compagni di squadra, tranne rare eccezioni, non ha mai avuto successo: "I miliardari del pallone dicono sempre di non avere tempo, di essere stressati. Per anni io ho fatto la spola tra il campo d'allenamento e la palestra a Piacenza: nessuno stress, solo la sensazione di essere un uomo migliore. Con i bambini ottenevo la vittoria più importante, la parata da ricordare". Passi per l'indifferenza. Ma c'era chi del suo impegno nel sociale gliene faceva addirittura una colpa: "In tutta la carriera non ho mai saltato un allenamento. Ero uno di quelli che si definiscono "professionisti esemplari". Eppure, spesso, non bastava. Il bravo calciatore deve pensare solo ed esclusivamente al calcio. Qualsiasi altro interesse è visto come una pericolosa distrazione, anche quando aiuti dei ragazzi handicappati. Hai sempre gli occhi di tutti puntati addosso: compagni, dirigenti, tifosi. Devi rendere al 110% per non sentire le chiacchiere odiose e disumane degli sciocchi". E ad ogni umano errore l'ignobile commento: "Quello pensa agli handicappati invece che a parare…Ho visto Juve-Chievo - continua Malgioglio - e la papera di Buffon sul primo gol: può capitare di perdere la palla in un'uscita. Ma fosse capitato a me mi avrebbero massacrato". In carriera Malgioglio ha cambiato diverse maglie. Dovunque è andato ha continuato ad aiutare chi aveva bisogno: "Nel 1983 sono arrivato alla Roma. Dei due anni in giallorosso conservo ricordi splendidi. Ho avuto ottimi rapporti con tutti. La società mi è sempre venuta incontro: portavo i bambini disabili a Trigoria per la rieducazione, usavo la palestra della squadra dopo l'allenamento". Tra i compagni dell'epoca il ricordo più forte va a un indimenticabile campione che dal calcio è stato tradito fino alle estreme conseguenze: "Di Bartolomei, il nostro capitano, aveva una sensibilità particolare. Come me parlava poco, ma aveva un cuore grande. Andavamo spesso negli ospedali a trovare i bambini che erano in terapia intensiva". Ma Roma porta alla mente non solo i successi sportivi, la finale di Coppa dei campioni e la possibilità di continuare ad impegnarsi nel sociale. Il tono di Astutillo si fa più basso e malinconico: "Dopo due anni in giallorosso passai alla Lazio, in serie B. Fu una stagione tormentata in cui vissi l'episodio più triste della mia carriera. La squadra stentava, la società era assente e disorganizzata, i tifosi non mi lasciavano in pace. Criticavano il mio impegno fuori dal campo, insultavano la mia famiglia. Mi sono sempre chiesto il perché di tanto odio; non ho mai preteso applausi, solo un po' di rispetto. In casa col Vicenza perdemmo 4 a 3 e il pubblico si scatenò. Fischi continui a ogni mio intervento, fino a quando comparve uno striscione in curva: "Tornatene dai tuoi mostri". Alla fine della partita mi sfilai la maglia, la calpestai, ci sputai sopra e la tirai ai tifosi. Sono un uomo anch'io. La società chiese la mia radiazione. Dello striscione invece non parlò nessuno". Chi non avrebbe fatto la stessa cosa? Eppure Malgioglio ci tiene a precisare. "Quello che mi ferì di più, non furono le cattiverie nei miei confronti ma la totale mancanza di rispetto, di solidarietà, di pietà per quei bambini sfortunati che non c'entravano niente. "Mostri", così li hanno chiamati. Il giorno dopo a Piacenza ho visto i genitori di quei bambini, che mi guardavano negli occhi. Non sapevo cosa dire. Mi sono vergognato per quei tifosi. Molti di quei bambini oggi non ci sono più". Aveva deciso di smettere quando arrivò la telefonata di Trapattoni: "Non è giusto che uno come te lasci il calcio" mi disse. Firmai in bianco e restai all'Inter cinque anni, vincendo l'ultimo scudetto nerazzurro. Con gli ingaggi rinnovai la palestra con attrezzature all'avanguardia.Venivano da tutta Italia per fare rieducazione nel mio centro". Il destino volle che molti anni dopo, il 4 marzo del 1990 giorno di Lazio-Inter, Zenga, il titolare, fosse squalificato: "Giocavamo al Flaminio, perché l'Olimpico era in ristrutturazione in vista dei Mondiali. Trapattoni non ebbe alcun dubbio: vai in campo - mi disse - non sentire i fischi che arriveranno, dimostra che uomo e che portiere sei. Il clima era teso, il presidente Pellegrini mi chiese di portare dei fiori alla curva laziale per non far scatenare i tifosi, c'era il rischio di incidenti. Io gli risposi che non sarebbe servito a niente, ma a malincuore portai quei fiori". Risultato? "La partita iniziò con 15 minuti di ritardo per lancio di oggetti contro la mia porta. Mi dissero di tutto. Perdemmo 2 a 1 ma fui il migliore in campo. Fummo bloccati negli spogliatoi per parecchio tempo. I tifosi volevano assalirmi". Sembra assurdo ma una parte di imbecilli invece di chiedere scusa a Malgioglio, ancora lo insulta: "Sono tornato a Roma a fine carriera. Una volta per parlare ad un convegno sui problemi dei disabili, all'uscita, per strada mi hanno riconosciuto e insultato". A 34 anni Astutillo ha chiuso la carriera nell'Atalanta a causa di una serie di gravissimi problemi fisici che ancora lo tormentano. Da un anno purtroppo il suo centro di rieducazione è chiuso: "La salute e la mancanza di fondi mi hanno costretto a chiudere la palestra. Io ho di che vivere, non chiedo niente a nessuno. Ma la struttura costa molto e non me la sento di far pagare i pazienti. Ora faccio quel che posso seguendo i casi più gravi a domicilio. Ho ancora tanti macchinari, alcuni fatti fare su misura. Non so a chi darli, un centro come ERA 77 rappresentava un unicum in Italia. E' un peccato sia finita così". Dal mondo del calcio, neanche a dirlo, nessun aiuto, nessun interesse: "Finchè fai parte di quel mondo, riesci ancora a coinvolgere qualcuno, ad attirare l'interesse. Una volta finito di giocare però nessuno si ricorda più di te. Non mi è mai piaciuto bussare alla porta della gente, ho cercato di sensibilizzare tante persone. Ma ognuno deve fare ciò che si sente". C'è un compagno che Malgioglio non dimentica: "Klinsmann mi è sempre stato vicino. Ha seguito la mia attività per anni, aiutandomi molto". Non ne fa un dramma, ma si sente che gli dispiace essere stato dimenticato da tutte le sue ex società: "Eppure in un recente sondaggio sono stato eletto miglior portiere della storia del Brescia e c'ero anch'io nell'Inter che ha vinto l'ultimo scudetto. Ma non ho mai ricevuto un invito, neanche per vedere una partita. Pazienza, così va la vita". Se fosse arrivata una proposta sarebbe rimasto nel mondo del calcio? "Mi sarebbe piaciuto lavorare con le giovanili. Ma uno come me è "pericoloso": mi batterei contro la tratta dei baby calciatori che arrivano dall'estero, bambini che vengono strappati dal loro ambiente. Dove finiscono tutti quelli che non sfondano nel calcio? Se potessi, ad un ragazzo cercherei di far capire l'importanza dello studio, del rispetto verso gli altri, e gli direi che il gol più bello è aiutare chi ha bisogno. Perchè il calcio è un gioco, ma la vita è un'altra cosa". Già la vita, quella che Malgioglio e sua moglie, premiati dall'Unesco, continuano a spendere aiutando gli altri: "Mi ha chiamato un'organizzazione cattolica, i frati trappisti di Lodi, per la creazione di un centro per bambini abbandonati. Voglio aiutarli, le mie macchine potrebbero ricominciare a lavorare". Chiudiamo con un'ultima considerazione: oggi spesso la solidarietà nel mondo del pallone è solo di facciata. Malgioglio sospira: "Un'amichevole a Natale, un sorriso alle telecamere, una frase di circostanza e tutti a casa. Quanti dedicano davvero qualche ora a chi soffre? So di Tommasi e pochi altri. Mosche bianche in un mondo di ricchi, fortunati e…ciechi. Immagino le loro difficoltà. E quando finiranno di giocare, saranno dimenticati. Perchè il calcio non ti perdona niente, neanche la solidarietà".