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  Inchieste


 

Dino Viola, i segreti in un manoscritto

di Massimo Izzi - Gen.2002

Un altro frammento di verità su Dino Viola riposa da qualche anno nella cassaforte di uno studio legale. Si tratta di un manoscritto di 500 pagine, contenente annotazioni, ricordi, rivelazioni messe insieme dalla famiglia Viola che, a detta di uno dei pochi fortunati ad averne letto alcuni stralci "fino a qualche anno fa sarebbero state sufficienti a scatenare qualche decina di querele". Vedranno mai la luce queste carte? Ettore, uno dei figli, dice di sì, ma resto convinto che quando questo accadrà riusciremo a ricostruire alcune fasi cruciali della storia romanista, ma solo marginalmente a decifrare le pieghe più profonde dell'animo di Dino Viola. La sua essenza più autentica è nascosta dietro ad una spessa cortina fumogena fatta di pudori, fraintendimenti e leggende alimentate ad arte. Gli piaceva ripetere di aver studiato vent'anni da dirigente prima di decidersi (sconsigliato dall'avvocato Guidi) a rilevare la società. Poi, capita che ti chiudi negli archivi di una biblioteca e scopri che già negli Anni Sessanta bombardava il Corriere dello Sport con chilometriche lettere nelle quali, come ricorda Marco Morelli: "era contenuta una specie di Summa del calcio, un vero e proprio trattato del gioco del pallone e del modo più opportuno di condurlo e amministrarlo". Nell'estate del 1968, mentre Evangelisti è sul punto di lasciare la mano, la strada della presidenza sembra finalmente aperta. Lui ci crede, e quando Ranucci gli soffia l'incarico la delusione è enorme. I giornali tornano a fare il suo nome nel luglio del 1971, ma devono passare ancora sette anni perché il suo miraggio sia nuovamente ad un passo dall'avverarsi. Anzalone dà segni di stanchezza, Viola invita il consiglio ad una riunione ristretta e mette all'ordine del giorno la possibile successione al vertice della società. Nel chiacchiericcio preliminare emerge anche la questioncella dei quattro miliardi di passivo della società, lui taglia corto: in un summit di mercato tenuto a Civitavecchia ha già concluso gli acquisti di Casagrande, Filippi e Pruzzo. Tutto è pronto, ma una nuova inversione di rotta di Anzalone farà saltare l'operazione, poi realizzata l'anno successivo, nel maggio del 1979. In questo lasso di tempo, non smette di pensare per un secondo alla possibilità di far sua la società. Cordova ci ha raccontato di un suo colloquio con l'ingegnere che è estremamente indicativo dell'incessante lavorio portato avanti: "Eravamo già d'accordo su tutto. Io sarei tornato alla Roma e sarei stato un po' il suo biglietto da visita. Avevamo stabilito anche il modo con cui sarei dovuto uscire di scena dalla Lazio. Avrei dovuto sfilarmi la maglia sul campo? e sotto avrei avuto la casacca giallorossa". L'unica cosa che si può escludere è che Viola non suscitasse sentimenti forti, quasi feroci, nel bene come nel male. Boldorini ricorda le pressioni ricevute perché relazionasse sempre l'ingegnere su quello che accadeva all'interno dello spogliatoio, Guarnacci riferisce di un abboccamento con cui il Presidente gli chiese di entrare in società come team manager: "Gli spiegai che per accettare la sua richiesta avrei dovuto abbandonare la mia attività, mi feci quattro conti per capire quanto dovevo chiedere per non perderci? ma forse la cifra che chiesi era troppo bassa, non se ne fece nulla". In pochi mesi si guadagna la cordiale antipatia di molti, primo fra tutti l'avvocato Colalucci che nel novembre del 1980 lo descrive come "(?) di gran cuore, ma che per ambizione travolgerebbe tutto e tutti. È un uomo che per grottesca presunzione ritiene se stesso l'unico intelligente in un mondo di cretini. Però è anche un manager per bene, che, sia pure per incontentabile cupidigia di popolarità, alla Roma ha dato tutto quello che aveva e forse anche oltre. Merita quindi rispetto. Incapace com'è di coltivare le vere amicizie, l'ing. Viola curi almeno la pianticella del rispetto che tutti devono portargli".

Leggo queste parole e mi tornano alla mente quelle ascoltate dalla voce di Gratton, il grandissimo grafico che, proprio nel 1980, aveva realizzato per Anzalone il logo del lupetto e che era passato a fornire la sua consulenza alla nuova dirigenza romanista. Gratton aveva un ufficio al Circo Massimo e in più di un occasione si trovò a dover respingere le richieste di Viola, tese a modificare, almeno un poco, quel lupetto, di quel tanto che fosse sufficiente a renderlo figlio legittimo della sua gestione. E ancora, penso alle parole di Amos Cardarelli, che a scudetto appena vinto, alla metà di maggio del 1983, si sentì chiedere da Viola se conoscesse la collocazione del sepolcro di Renato Sacerdoti. Cardarelli rispose di sì e i due partirono alla volta del Verano: "Arrivati al luogo in cui riposa il Commendator Sacerdoti, lui disse quello che doveva dire poi mi chiese: "Amos dimmi un po', era veramente un grande presidente?". Gli dissi che sì, era stato veramente un grandissimo personaggio. Mi guardò e poi disse sorridendo: "Beh, ma io ho vinto lo scudetto"". Quella delle visite al cimitero era uno dei pezzi forti del suo repertorio di istrione, di grande illusionista. Lo ricorda anche Stinchelli che ebbe il suo primo incontro con lui ad Asolo, davanti alla tomba di Eleonora Duse. Iniziò a parlargli del suo progetto, creare una società che fosse finalmente in grado di rivaleggiare con il modello organizzativo imposto dal nord. Mostrò in poche settimane che cosa intendeva, portando l'orario lavorativo dei dipendenti della società da tre a otto ore. Quando qualcuno osò fargli presente che la truppa non ce la faceva, replicò secco: "Prendano esempio da me". Aveva una missione da compiere, che non era semplicemente quella di creare "una grande Roma‰, ma una Roma, che fosse in tutto e per tutto Violacentrica. Questo obiettivo è stato il faro che ha illuminato tutta la sua gestione e che non lo ha abbandonato mai, neanche nei giorni finali della sua gestione. Nei giorni della sua scomparsa, si è scritto, con una sollecitudine fin troppo sospetta, che prima di morire si fosse rassegnato ad un cambio della guardia, ma in quei giorni fece giurare ai suoi figli che lo avrebbero aiutato a gestire la società. Il 20 dicembre, aveva trionfalmente raggiunto un accordo con Falcao per il suo rientro nella Roma in qualità di DR (nelle stesse ore, per uno strano scherzo del destino aveva avuto il suo unico incontro con Francesco Totti). Di segreti ne ha portati con sé molti, compreso quello riguardante gli accadimenti di un Roma-Fiorentina del 12 aprile 1981 che definì: "la giornata più triste della mia vita". Il rebus continua a proporre da una parte il manager di successo, capace di entrare in una piccola industria meccanica con 50 dipendenti e arrivare a metterne a busta paga 2000, rivaleggiando con gente del calibro di Romiti e Schimberni. E questo, mi dico, non lo realizzi con il sentimento, ci vuole il Viola inflessibile, calcolatore, intransigente, gelido, di cui ho sentito raccontare. Dall'altra c'è il dirigente che lotta contro le tessere omaggio ma ne regala ai campioni d'Italia del 1942, che intitola a Fulvio Bernardini il centro tecnico di Trigoria, che non solo libera la Roma "dalla prigionia del sogno", ma che quel sogno lo riscatta con la sua vita. Questo è il Viola del sentimento, impossibile da sostituire o eguagliare, la pietra di paragone che ancora oggi è la bussola di questa società... "Giusto?".