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  Interviste


 

Gustavo Javier Bartelt. "Una passione chiamata Roma"

di Ugo Trani

Tranquillo, semplice, riflessivo e per niente timido. Gustavo Bartelt, 24 anni, ce lo descrive Romina, la sua ragazza di 22 anni. È venuto a Roma un po' spaurito, forse perché lo avevano avvertito che doveva misurarsi con le illusioni estive dei tifosi giallorossi. Quando si guardava allo specchio non somigliava certo a Batistuta o a Kluivert, a Inzaghi o a Montella. Si guardava e non vedeva riflessa l'immagine di un marziano, nel senso del campione. Voleva somigliare a se stesso, uno che sa far gol. Nessuno sapeva niente di lui, eppure era stato bocciato in partenza. Senza motivo. O meglio. Dicevano di lui: sono solo tre anni che fa il calciatore. Romina mostra una foto: c'è il nostro eroe a due anni e in tenuta da gioco, con un pallone in mano. Gustavo non lo ha più lasciato.

Gustavo, come ha iniziato questo mestiere?
«A sedici anni, con il Velez. Sino a quel momento giocavo solo per divertirmi. Era più mio papà Oscar che mi spingeva verso questa professione. È ancora adesso un grande appassionato. Da piccolo mi portava a vedere tutte le gare del campionato argentino, quelle ovviamente che si svolgevano a Buenos Aires, la mia città».

Ha scelto subito di fare l'attaccante?
«Sì, da quando ho cominciato. Sono sempre stato punta centrale, mi piace così».

E, una volta centravanti, a chi si è ispirato?
«A Ramon Diaz. Per la rapidità e il tiro. Un grande attaccante».

Una pausa nella sua carriera, prima del professionismo. Perché?
«Non ero convinto di questo lavoro. Avevo qualche dubbio. Fino a sedici anni ho studiato. Poi per due anni ho giocato nelle giovanili. Mi sono fermato e ho pensato di smettere definitivamente, sono rimasto due anni senza giocare, ricominciando a studiare. L'inglese, una lingua importante, e l'economia. Avevo capito che il calcio non è così semplice: se non ti applichi, c'è tanta concorrenza. Eppoi, non hai mai la certezza di poter sfondare. Credevo che questo mestiere non fosse per me. Mi sbagliavo».

Che cosa è il gol per Bartelt?
«Il massimo e non solo per chi è centravanti. È difficile spiegare quello che uno prova. A me capita di pensare a tante persone, a tanta gente. Agli amici, a mio padre, ai tifosi. Dopo una rete, mi vengono in mente tante cose».

Non ha un posto fisso, qui: si è mai pentito di aver lasciato il suo paese?
«Mai, perché il mio obiettivo era giocare in questo campionato. Lo seguivo con grande attenzione quando ero a Buenos Aires. Credo che sia il top per un calciatore».

Quanto le manca l'Argentina?
«Devo essere sincero? Tantissimo. La nostalgia ci sarà sempre, anche se qui mi trovo benissimo».

Che differenze nota tra il torneo del suo paese e quello italiano?
«Non tante. Ma qui il calcio è più schematico e più veloce».

Le crea qualche imbarazzo l'etichetta di "sconosciuto"? Anche perché se la porta dietro da quando ha messo piede a Roma.
«Nessun problema. So che non sapevano niente di me, sia i tifosi che i media. Mi hanno comunque accolto bene e questo per me è importante».

Ha tirato in ballo i tifosi rosso&gialli: loro volevano Batistuta, non Bartelt, lo sa?
«So che si aspettavano un nome più importante del mio, tra i tanti anche quello di Gabriel. Ma sono stati bravi con me: non mi hanno fatto pesare il mancato acquisto di un campione, di un grande centravanti».

Chi è che ha insegnato a Bartelt a giocare a pallone?
«Nessuno, sono autodidatta. Non ho avuto maestri, avevo queste doti sin da bambino, ho fatto tutto da solo».

Eppure a qualcuno dovrà dire grazie, per i consigli e per altro?
«A mio padre. Papà stravede per il calcio. Da lui non ho imparato niente, perché non sa giocare. Lavora in banca, ma non si perde una partita. Mi ha trasmesso la sua grande passione».

Con quale compagno ha legato in queste prime settimane romane?
«Tutti mi hanno messo a mio agio. All'inizio stavo sempre con i brasiliani, perché parlano spagnolo e ci capiamo. Con Delvecchio non c'è rivalità: anzi da Casalpalocco andiamo insieme a Trigoria. Poi ho un bel rapporto con Petruzzi e Di Biagio».

C'è un gol che sogna?
«Ne sogno tanti».

Uno in particolare?
«Alla Lazio, perché so che farei felice tanta gente qui a Roma».

E, derby a parte?
«Voglio far gol contro l'Inter, contro Ronaldo».

Tra i gol segnati, anche quelli con la Roma, può dire quale è stato il più bello?
«In serie B con il Lanus. Una rete importante contro il Los Andes».

Arrivando alla Roma, ha chiesto di indossare la maglia con il numero 9. Già sapeva che quella era la casacca del suo connazionale Abel Balbo e si rendeva conto che poteva diventare una responsabilità in più?
«Certo che ero a conoscenza di chi aveva quel nove sulle spalle. Quando ci penso, un po' il fatto mi emoziona. Ma stimo tanto Balbo e avere la sua maglia mi fa trovare qualche stimolo in più».

Che cosa può dire di Zeman, ora che conosce meglio il tecnico rosso&giallo?
«Mi dà l'impressione di un uomo sempre tranquillo. Mi piace il suo calcio molto dinamico, si sposa bene con le mie caratteristiche». Come trascorre il tempo libero? «Per ora ne ho avuto poco. Se ho una giornata intera a disposizione, vado a scopire le bellezze di Roma. Sennò sto a casa».

Come mai ha preso casa a Casalpalocco, lontano dal centro?
«Sono più vicino a Trigoria e mi hanno consigliato i compagni che già vivono in quella zona. In più volevo un posto dove ci fosse un giardino per i miei due cani, due femmine di Collie, e soprattutto tanto spazio e tante camere. Così ho trovato una villa, proprio come volevo. E c'è anche la piscina».

Perché una casa, anzi una villa, così grande?
«Avevo bisogno di almeno tre stanze, perché mi piace ospitare i miei parenti e quelli di Romina, la mia fidanzata. Abbiamo, io due fratelli e due sorelle, lei tre sorelle e un fratello. Siamo tanti e molto uniti. Vogliamo che vengano a trovarci spesso».

Crede molto nella famiglia?
«Sì e non solo io. I miei genitori e quelli di Romina hanno un grande senso della famiglia. A Buenos Aires, tutte le domeniche, ci riunivamo a pranzo. Tutti, al completo. Mio padre è già venuto qui. Poi sono arrivate mamma Marta e mia zia Dora».

Ha mai pensato di sposare Romina?
«Sì, ne abbiamo parlato, ma ancora non c'è una data. Siamo insieme da tanto, lei ha due anni meno di me. Siamo una coppia affiatata».

Le piace uscire, in questa nuova città?
«Non tanto, perché preferisco restare a Casalpalocco. Non mi piacciono le discoteche e nemmeno i ristoranti, anche se i piatti italiani sono proprio buoni».

Che cosa mangia?
«Tanta pasta. E me la cucina Romina. Pasta fredda con olive e pomodori».

Nei suoi giri romani, c'è una piazza o un monumento, un angolo caratteristico della capitale ad averle suscitato sensazioni speciali?
«Ho dedicato solo una giornata a Roma. Ho visto quanto è bella: un fascino incredibile è senz'altro quello di Fontana di Trevi. Quando sono entrato sulla piazza, l'impatto è stato fortissimo».

Da come sta raccontando quest'esperienza, avrà anche buttato la monetina nell'acqua?
«Certo, ero a conoscenza del rito. Stavo con Romina e abbiamo espresso il desiderio. Non possiamo dire quale, è un segreto tutto nostro».

C'è una vacanza che vorrebbe fare?
«Sì, qui in Italia. Non sento altro che parlare delle due isole, Sicilia e Sardegna. Mi piace il mare, mi dicono che lì è fantastico. Ci andrò sicuramente».

Ha fatto capire di essere un casalingo: è almeno un appassionato di cinema?
«Sì, quello americano. Il mio film preferito resta Scarface, il mio attore preferito è Al Pacino».

E l'attrice?
«Un'italiana, la Cucinotta. Preferisco le more, come Romina».

Torniamo per chiudere al calcio: che cosa pensa di Diego Maradona, argentino come lei?
«Un numero uno. Ora ha trentotto anni, non è più al top. Ma non ci sarà mai più un grande come Diego».