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  Interviste


 

L'altro Zeman. I segreti di Zdenek svelati dal figlio karel.

di Cristina Fantoni

Si nota subito, a fine partita. Lontano dal gruppo, distante dal centro del campo, sfoga la rabbia, senza gesti eclatanti, ma l'espressione tesa del viso testimonia tutta la sua insoddisfazione. Che è quella di un tranquillo derby per beneficenza perso con un pizzico di sfortuna, ma tanto basta per non essere contenti di sé.
Forse pesa quel goal del due a due sbagliato davanti al portiere, forse quella condizione atletica lontana dai livelli dei giorni migliori. Tant'è, basta un attimo di attenzione per individuare tra i ventidue in campo chi porta quel cognome così pesante.
Numero otto, casacca rossogialla, un metro e novanta e una inconfondibile camminata. Se le maglie fossero quelle ufficiali, avrebbe stampato in grandi caratteri Zeman sulle spalle, così da farsi riconoscere anche da quei pochi che non l'hanno ancora individuato.
«Guarda che se non corri lo diciamo al boemo!» grida qualcuno dalle tribune. Detto fatto, il ragazzo fatica, nonostante un ginocchio sbilenco, e arriva al novantesimo, senza accettare la sostituzione.
Sbuffa Karel Zeman, sbuffa per la stanchezza e per quel derby perso contro i cugini laziali. Deve suonargli strano provare dispiacere per una sconfitta contro la Lazio, ma davvero non è così. Lo è per noi, che da appassionati sposiamo una fede calcistica per poi non abbandonarla mai. «Ero laziale, certo, perchè le vittorie dei biancocelesti erano le vittorie di mio padre. Adesso non è più così, e nel mio cuore c'è la Roma.
E mi appartiene anche una certa cultura antilaziale, che non deriva dal sano sfottò, ma dal trattamento che la società e qualche calciatore hanno riservato a mio padre».
Due chiacchiere, una spiegazione semplice eppure così decisa, bastano per capire che dietro quei ventuno anni ci sono tante idee chiare e una grande convinzione. Due laziali si fanno coraggio, lo avvicinano e tentano di riallacciare rapporti bruscamente interrotti. La tranquillità di Karel è pari alla sua fermezza. «Dopo l'esonero mio padre aveva ogni sera una cena, tifosi laziali, fans-club, un continuo. È rimasto comunque un grande allenatore fino a quando non ha accettato la Roma. Da quel momento, per voi è cambiato tutto».
Proviamo a farcelo raccontare, quel momento. Una decisione sofferta, immaginiamo ingenuamente, un lungo travaglio: «Macché, anche il presidente Sensi ha detto che si aspettava da mio padre qualche incertezza in più. Per lui non è stato un problema, le considerazioni da fare erano altre: le ambizioni della Roma, la possibilità di continuare a vivere nella nostra casa, i progetti su una squadra per cui c'era da lavorare. Niente altro, nessuna rivincita».
Il derby con i ragazzi di Suor Paola ormai è archiviato, anche il pesante 4 a 1 subìto, ma la gente ha risposto e la raccolta di fondi per la piccola Mojca, che ha bisogno di una costosa carrozzina per vivere meglio, è andata a buon fine. Sembrerà strano a Karel, ma molto ha contribuito proprio la sua presenza, quel cognome che a Roma ha fatto impazzire mezza città e arrabbiare l'altra metà. Si avvicina un giornalista della Rai, chiede di intervistarlo, con una speranzosa anticipazione: «Sarai più loquace di tuo padre, vero?». «Molto, molto meno» risponde con un sorrisetto. Poi è la volta dei tifosi. Un papà di famiglia trova il coraggio di avvicinarsi con pallone e pennarello in mano. «Scusa, mi puoi fare un autografo?».
Sguardo interrogativo, battuta pronta: «E cosa ci scrivo?».
Non certo il mio nome, verrebbe da dire, quello non può far gola a un tifoso. Non riusciamo a capire se tanta attenzione lo infastidisca o più semplicemente lo lasci interdetto. Indaghiamo: cosa avresti fatto se avessi segnato oggi?. «Assolutamente niente. Non mi lascio mai andare a gesti di esultanza quando gioco, ho fatto goal importanti, ma in quei momenti mi sento osservato, e aspetto solo che i compagni mi vengano addosso». Anche l'ultimo degli intuitivi troverebbe affinità con Zeman senior, inchiodato in panchina al di là di ogni emozione. «Ma guarda che lui si alza in piedi,ogni tanto! E dopo il due a uno sulla Fiorentina ha buttato la sigaretta per ter ra. È che voi non lo osservate con la stessa attenzione che ho io».
Torniamo ai goal importanti, quelli di un ragazzino che nelle giovanili del Foggia prometteva bene. «Forse avrei potuto fare il calciatore, adesso mi vedi così, senza allenamento, ma ero bravo, e anche mio padre me lo dice sempre. Anzi, ad essere precisi me lo rinfaccia un po', quando vede i figli degli altri allenatori che fanno carriera mi ricorda sempre che io ho scelto un'altra strada».
Strada che si chiama Università, terzo anno di Lingue per poi arrivare non troppo lontano dal sentiero che il padre ha percorso prima di lui. «Vorrei fare il giornalista, sportivo naturalmente, o comunque rimanere nell'ambito dello sport».
Dipenderà dalle scelte lavorative di tuo padre, sempre pronto a spostarsi da una città all'altra? «Ormai non è più così, io qui ho la mia vita, sarà lui, nel caso, a fare il pendolare. Ho fatto fatica ad ambientarmi a Roma. Ero da cinque anni a Foggia e non volevo spostarmi ancora».
Per ora, comunque, e non potrebbe essere altrimenti, la vita di Karel ruota molto intorno a quella del suo papà. Anche i tempi della sua giornata, le sue passioni, le arrabbiature sono legate a lui.
A Roma si dice che sia Karel a fare da tramite tra il padre e tutte le migliaia di fonti di informazione che girano nella capitale. Radio e tv private, giornali, riviste e rotocalchi vari: tutto passato al setaccio, per poi riferire a chi di dovere. «Prima era così, ma mi prendevo troppe arrabbiature. Ascoltavo proprio le trasmissioni in cui sapevo che avrebbero detto qualcosa di spiacevole; a volte intervenivo addirittura, presentandomi, per ribattere alle accuse, ma poi a casa papà non era molto contento...». E adesso? «Adesso accendo Radio Incontro la mattina, e poi nel pomeriggio cerco di ascoltare solo gli interventi degli opinionisti di qua e di là. Nient'altro. Nient'altro che faccia venire il sangue amaro, ma per il resto lo sport è di casa. Tanto calcio, tanto sci, con grande competenza, il tennis, il basket, per un ragazzo che ha ovviamente la passione addosso. Si scopre che in casa Zeman la tv è spesso accesa, ma per un motivo particolare. «Per spiegarti mio padre ti dico questa. Lui non guarda esattamente la televisione, la tiene accesa per avere compagnia, ma gli occhi sono sui suoi fogli, dove scrive in continuazione». Azzardarsi a chiedere cosa... Altra domanda ingenua.
«Formazioni, appunti, schemi di gioco, lo fa senza sosta, tra una sigaretta e l'altra, visto che in casa fuma ancora di più che in panchina». E c'è tempo per parlare tra una e l'altra? Perché una delle ovvietà più inflazionate sul boemo, è il suo essere silenzioso, taciturno. Chiediamo a uno che forse ne sa qualcosa in più. «È buffo sentire parlare di papà. Chi ha avuto modo di passare del tempo con lui dice che è un compagnone, una persona divertente. Altri sono pronti a giurare che non alza mai lo sguardo per rivolgerti la parola.
Ebbene, hanno tutti ragione. Per parlare con papà, devi prendere l'iniziativa. Se gli chiedi qualcosa, potrai anche passare una serata a chiacchierare, ma se aspetti che attacchi lui bottone, non c'è speranza. Lui sta bene coi suoi pensieri».
La curiosità ci assale, per capire come funziona la vita nella famiglia di un allenatore, che lega le sue soddisfazioni professionali a una partita di calcio. Si porta il lavoro a casa, si respira aria pesante dopo una sconfitta la domenica sera? Solo chi ci vive da sempre può spiegare con tanta logica l'esatto contrario. «Lui fa l'allenatore da tanti anni, è la sua vita, vincere e perdere, nient'altro. Siamo noi a portare il calcio in casa. Io, mia madre e mio fratello non riusciamo a
mascherare gioie e delusioni, e inevitabilmente coinvolgiamo anche lui con il nostro atteggiamento». Un papà non diverso dagli altri, dunque, e presto cade anche quell'ombra di severità che molti gli attribuiscono. Ragionamento ovvio quanto poco arguto: se in campo è così duro, figuriamoci a casa... «Non chiedo mai il permesso per andare da qualche parte, ma so già che al mio ritorno papà avrà da brontolare. Non lo fa perché non approva le mie scelte, è solo un modo di farmi sentire la sua presenza e il suo controllo».
Non una famiglia diversa dalle altre, dunque, sbagliato pensarlo solo perché «comanda» un papà illustre.
Giusto invece notare l'assoluta particolarità dei personaggi che ne fanno parte.
Dell'allenatore è stato detto quasi tutto, di Karel molto meno, ma un pomeriggio può bastare per cogliere un timbro inconfondibile. Che è fatto di ironia, grande decisione, ai limiti dell'intransigenza, immediata schiettezza. Di un ragazzo di ventuno anni che si diverte a parlare del suo papà: «Il dopo derby? È già scritto: se la Roma vince, è perché si è autogestita, senza seguire le indicazioni di mio padre. Se perde, è la Roma di Zeman. Voi in Italia siete fatti così...».