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  Interviste


 

Falcao: "roma-colonia? L'emozione piu' bella"

di Fabio Maccheroni - Set. 1999

C'era una volta "er core", "er derby" e "a Roma". Il resto, lo scudetto, le coppe, erano travolte dai soliti destini: gli arbitri, gli Agnelli, la jella e le donne e la dolce vita. E il Brasile era Pelè. E Paolo Rossi finiva alla Juve. E il lunedì la vita ricominciava sempre uguale. Sarà per questo che, senza saperlo, senza voler offendere nessuno di quei giovanotti che hanno vinto quello scudetto, quella del 1983 la chiamano ancora "la Roma di Falcao". Perchè Falcao era l'unica cosa diversa, l'unica cosa che non c'era mai stata. Anche se era solo un mattone, un gran bel mattone, di quel meraviglioso edificio. E quando arriv" a Roma, era praticamente anonimo come un mattone, altro che "Divino". Se lo ricorda anche Paulo Roberto, il ragazzo dell'Ottantatrè: "Mi conosceva soltanto Carletto, il figlio di Liedholm, che sapeva tutto del calcio internazionale. Disse al padre che ero l'uomo giusto per la Roma e cominci" a incuriosirlo. Così Liedholm vide dei filmati, prese altre informazioni e convinse Viola a prendermi. Ma credo che Viola avesse tutt'altre aspettative...".
Quali?
"Si aspettava un "brasiliano". Voleva i "numeri". Come ogni tifoso, del resto. Ricordo che mi fermavano per strada e mi dicevano "a Farca' ma quando ce li fai i numeri?". Io diventavo pazzo. Perchè se volevano quel tipo di giocatore avevano sbagliato tutto. Un giorno, contro il Como, feci qualche "numero" e, uscito dal campo, andai vicino a Viola e gli dissi "presidente, adesso che ho fatto i numeri pensiamo a vincere qualche cosa". Proprio così. A Roma si accontentavano dell'attimo, si vietavano di guardare lontano. Un tifoso mi disse "a noi ci bastano i numeri, perchè a vincere gli scudetti ci pensa la Juve, qui non si vince mai, qui non si pu" vincere mai". Ed era questa mentalità l'avversario pi difficile. C'era rassegnazione. Nonostante un presidente tenace come Viola".
Ce ne parli, di Viola.
"Carattere forte. Voleva vincere. E sapeva aspettare. Sapeva che le cose si costruiscono con pazienza. Era intelligente. E ambizioso. Tutto qui".
E Liedholm?
"Un grandissimo. Mi ha dato tanto. Era l'unico, all'inizio, a sapere quello che avrei potuto dare alla Roma. Come allenatore riesce a essere dolcissimo e a farsi rispettare. Con lui basta uno sguardo e nessuno sgarra, non ha bisogno di fare il duro. Credo che come carattere noi due ci somigliamo molto. Per questo siamo andati sempre d'accordo".
Quando arrivò a Roma, che cosa si aspettava?
"Sapevo pochissimo di questa società, perchè in Brasile arrivavano notizie di Juve e Milan e Inter. Un mio amico mi aveva parlato della Fiorentina. Non sapevo davvero che cosa avrei trovato, a parte la storia, l'arte di Roma, quella che si studia e che ogni uomo nel mondo spera di vedere con i propri occhi. Quanto alla squadra, andai a vederla giocare a Parma: un disastro. Ricordo che Ettore Viola, uno dei figli del presidente, mi disse "stai tranquillo, a volte gioca meglio di così". A parte questo, trovai tutto meraviglioso. A cominciare dalla gente. Mi davano calore e mi facevano sentire a casa. Per me fu determinante la gente di Roma. Perchè io ero vissuto nel Porto Alegre e amavo quella società, quella maglia. Era una cosa mia, mi apparteneva e quando giocavo, giocavo per una cosa mia. Staccarmi dopo sedici anni fu difficile. Ma a Roma fu tutto facile. E adesso d" lo stesso valore affettivo a Porto Alegre e Roma. Perchè, anche giocando con la Roma, avevo la sensazione di essere cresciuto dentro quella maglia, come mi capitava a casa, in Brasile. E volevo ripagare queste sensazioni. Volevo dare qualcosa di importante. Perchè ricevevo, ogni giorno, cose importanti...".
Ma avrà avuto anche momenti difficili, no?
"Penso che sia inevitabile. Ma sono stati pochissimi e non riesco a ricordarli, perchè ho avuto troppe soddisfazioni. Troppe gioie. Troppo affetto: e troppe volte ho avuto i brividi per quell'affetto".
Brividi?
"Come quando tornai dai Mondiali. I giornalisti scrissero che ero sfiduciato, che avevo addirittura pensato a smettere. Ricordo che stavamo scendendo in campo al Flaminio per la prima partita della stagione, contro il Como. Vicino a me c'era Maldera. E lo stadio sembrò esplodermi dentro. Tutti in piedi a urlare Falcao, la voce mi bolliva sulla pelle. Maldera mi prese una mano e mi disse di toccargli il braccio: "senti che pelle m'è venuta, ho i bozzi per i brividi". E io gli dissi di guardare i miei. Se ci ripenso ho ancora la pelle d'oca. Incredibile. Con i tifosi è stato sempre così. Straordinari".
Era l'anno dello scudetto: ormai avevate capito di essere un gruppo maturo.
"Sì, lo avevamo capito due anni prima, a Torino, con quel gol di Turone".
Anche lei con Turone?
"Certo, ma non per recriminare. Sarebbe sciocco. Con quel gol tutti noi capimmo che la Roma era arrivata a battersi per il titolo. Poteva vincere o perdere, ma c'era. E il messaggio arrivò anche agli altri. Non contava il risultato".
Che ricorda dello scudetto?
"Le bandiere, le strade pitturate, la folla all'aeroporto di Ciampino".
Veniamo alle dolenti note: la Coppa Campioni.
"Non tanto dolenti, perchè fra i miei ricordi più cari di Roma c'è la partita con il Colonia. Avevamo perso 1-0 all'andata e dovevamo assolutamente recuperare. Avevano giocato durissimo. Ricordo il pareggio e la fatica per evitare i supplementari. Proprio mentre stavamo scivolando verso la fine della partita, mi arriva quella palla e io tiro con tutta la forza: gol. Mentre tiravo mi sentivo una forza sovrumana, come se avessi davvero dentro lo stadio, l'energia di tutta quella gente".
E quando invece non ha tirato il rigore con il Liverpool, in finale, che si è sentito?
"Se avessi saputo che avrei creato tutte queste discussioni, avrei tirato. Non sono mai stato un rigorista, nemmeno ai tempi del Porto Alegre. Ma avrei tirato. Quel giorno è andato tutto storto. Io ero sicuro di vincere. Pensavo che fosse scritto: la Roma in casa, al primo tentativo vince la Coppa. Ero così sicuro che non mi sono preoccupato di chi battesse il rigore. é stato anche un atto di altruismo. Perchè avevo dolore alla gamba, non quella operata, l'altra, quella colpita da Baresi con quel fallo terribile. Avevo fatto un'iniezione per attenuare il dolore prima di entrare in campo, ma dopo centoventi minuti il dolore era tornato. E così non ho pensato ai rigori. Purtroppo c'è andato tutto male. L'infortunio di Pruzzo, la squalifica di Maldera. La realtà è che nello sport non si improvvisa niente. La Roma non era abituata a giocare quel tipo di partite e ha pagato l'inesperienza: altrimenti non sarebbe mai arrivata ai rigori".
Ma dopo quella sconfitta la Roma ha fatto poco per acquisire esperienza in campo internazionale: anzi, a rileggere questi sedici anni, sembra che abbia fatto molto per dimenticare, bruciare. Non crede che quegli anni andassero capitalizzati?
"Vincere in Italia è difficile per tutti. Ci riesce chi cambia poco. La Roma, dopo Viola ha cambiato molti presidenti, non ha avuto continuità. La Juve e il Milan vincono, ma non cambiano la struttura societaria. La stessa Inter, che cambia molto, vince poco".
Che pensa di Sensi?
"Ci ho parlato soltanto un paio di volte. Non lo conosco bene. Ma vedo che spende e quindi deve avere voglia di vincere. Ci vuole pazienza. Per" ha preso bei giocatori, come Assunao: è bravo e intelligente, sa trattare bene la palla e è arrivato in nazionale".
Pensa che questa Roma sia competitiva?
"Credo di sì. Essere competitivi non significa vincere, ma significa esserci e questo è importante".
Se a Roma c'è una squadra competitiva, però, è soprattutto la Lazio.
"Quando giocavo io, i derby non erano importantissimi, perchè la Lazio aveva molti problemi. Ora ha trovato un equilibrio importante. E credo che sia un bene per Roma avere due squadre competitive. Ho sempre sostenuto che una grande città deve avere due squadre forti. Adesso Roma ce l'ha".
E Falcao, sedici anni dopo, che cos'ha?
"Sempre voglia di calcio. Faccio l'osservatore, lavoro per la televisione e spero di trovare il tempo per fare un salto a Roma a rivedere i vecchi amici, che si sentono poco, ma che, quando s'incontrano, soffocano il tempo ch'è passato con un abbraccio.