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  Interviste


 

Il calore VIOLA

di Gianfranco Giubilo - Dic. 2000

E poi venne la velina. Non quelle, apprezzabilissime, che danno una mano a Greggio e Iachetti, ma quelle che hanno preso il posto, nel nuovo rapporto tra società di calcio e informazione, delle vecchie care interviste, quasi sempre personalizzate, secondo quanto parevano indicare gli indirizzi professionali della tradizione. L'intervista "esclusiva" non voleva avere il pregio di offrire rivelazioni sensazionali a tutti i costi, ma aveva un vantaggio: se si studiava e si riusciva a mettere in atto una domanda intelligente, quella domanda era tua. E l'interlocutore non doveva rispondere, come accade di questi tempi, a una trentina di cronisti riconoscenti. Dunque niente richieste scritte, niente arrampicate sugli specchi di giocatori disposti soltanto a correre a casa, niente uffici stampa rigorosamente selezionatori di intervistati e talvolta anche di domande. Per un'intervista ad personam, oggi come oggi, ci si può affidare anche al soprannaturale. Che cosa di meglio, dunque, di Qualcuno che da dieci anni, ormai, le cose del calcio le guarda da lassù: mugugnando, magari, e scuotendo la testa proprio quando era con noi, e si liberava dalla maschera protettiva di una diplomazia che le pubbliche relazioni talvolta gli imponevano. E che Dino Viola, il Presidentissimo, a fatica tollerava. Mi mancano i lunghi colloqui con Viola: confidenziali, più spesso di lavoro, ma anche questi ultimi a due facce, lui serio, attento al ruolo, un po' frenato, quando invitava nel suo salotto per l' intervista formale, un po' come si trovasse davanti a quelle telecamere che non amava; e sciolto, invece, ironico e perfino feroce quando il colloquio fluiva attraverso le passeggiate divenute tradizionali, giri e giri attorno ad un campo di allenamento, o magari lungo le strade di una cittadina sede di ritiro. Così questa intervista immaginaria, a dieci anni dalla scomparsa del Presidentissimo, diventa più reale di quanto si possa pensare, un viaggio a ritroso in un passato che regalava un calcio molto più ricco di umanità, di personaggi di sentimenti. E se le cose sono così profondamente cambiate, credo che non avrebbero subito mutamenti le idee, le convinzioni, anche le piccole manie del Presidentissimo. Facile chiedergli, come primo approccio: ma la tua guerra contro il Palazzo, primo e sorprendete atto di una presidenza illuminata, sarebbe ancora possibile? "Ma guarda, lo scetticismo era grande, attorno ad una Roma che reclamava, non soltanto per sé, una nuova gestione sottratta ai centri tradizionali del potere, non agevolazioni, ma par condicio, allora una sorta di utopia. Però qualcosa si è mosso, la Roma per tanti anni ai vertici, due scudetti a Napoli. Si alzava la voce, l'ascolto degli indifferenti di sempre era divenuto più attento. Anche se la comunicazione era difficile e il Palezzo era restio a cingersi delle mura di vetro che avrebbero dovuto essere istituzionali, almeno attraverso qualche finestra la gente ha potuto a cominciare a sbirciare. Insomma, come dite voi romani di nascita - ma io sono romano adottivo e me ne vanto - se dovevano dà 'na regolata". Certo, le televisioni non urlavano, l'omertà resisteva, una parte della stampa era arroccata attorno al potere tradizionale, ma qualcosa si muoveva. Ma tu, presidente, il mezzo televisivo non lo hai mai visto volentieri come megafono per le tue battaglie. "Non ne parliamo. Con la tivvù ho sempre avuto un rapporto conflittuale, una sorta di fobia. Ma lo sai che quando a casa mia, la sera, accendevano le televisioni, io uscivo, me ne andavo a passeggio per Piazzale delle Muse, in compagnia dei miei soli pensieri. E quando poi mi piazzavano davanti una telecamera subentrava di colpo timidezza e diffidenza, essere spontaneo era quasi impossibile. Lo dico per spiegare come nacque, in realtà, il "violese", una sorta di armatura contro ogni tipo di strumentalizzazeione delle mie parole. E così chi voleva capire, gli amici, le persone intelligenti, sapeva lo stesso dove volevo andare a parare. Magari, lo capivano anche i nemici, però, non volevano sfruttare per loro fini le mie parole". Ma come si troverebbe, presidente, in un calcio che le televisioni hanno fagocitato, riducendo lo stadio ad una mera alternativa da sfruttare magari in un pomeriggio dal clima particolarmente invitante? "Male, decisamente, anche se avrei dovuto adeguarmi: con accortezza e cercando di trarne i maggiori vantaggi per le mie società. Come del resto avevo fatto anche allora. Ricordi i tira e molla sulle concessioni delle dirette televisive, il veto fino all'ultimo minuto, poi il sofferto sì, per il bene dei tanti tifosi rimasti fuori dallo stadio? Bene, ai tifosi era la Roma a dover dire grazie perché con i loro appelli accorati alla fine io, la Roma insomma, riusciva a strappare le condizioni economiche più gratificanti. Era un mondo di furbi, il calcio italiano in tutte le sue espressioni: e chi poteva permettersi il lusso delle ingenuità?". Mercato impazzito, stranieri a valanga, ma anche fenomeni sconcertanti, il razzismo serpeggiante nei settori meno raccomandabili degli stadi. Con quali mezzi una società importante può fronteggiare nuove realtà spesso sconcertanti? "Già, il mercato... E chi guarda più l'orologio, contando i minuti che ancora sono disponibili prima che gli uffici milanesi della Lega chiudano i battenti, e addio fino alla prossima stagione? Ricordi quell'ultimo giorno di trattative, ero con te e Liedholm in una saletta del Gallia, le sette di sera, un'ora dopo l'ultima scadenza, e il mister che dice, apertamente: presidente, se facciamo in fretta possiamo avere Turone a condizioni eccezionali. Già, dico io, ma Santarini? E il mister non fa una piega: che problema c'è, giochiamo a zona. E via di corsa in Lega a depositare l'ultimo contratto. Non so se mi piacerebbe combattere con questi mal di testa dodici mesi l'anno, non distrarmi mai per scansare le furbate di qualche procuratore, alle prese magari con passaporti da scrutare sotto la lente di ingrandimento. Chissà, per la Roma mi sarei adattato, ma fregature no, non sarebbero riuscite a darmele, neanche adesso. Gli stranieri, dicevi. Mai rappresentato un problema. Anzi, scusa l'immodestia, ma Bosman e le sue rivoluzioni mi fanno un baffo. Volevo Cerezo per legge non potevo tesserarlo avendo già Prohaska che però, bravo figlio, non poneva problemi, l'ostacolo erano i regolamenti federali. Ma la fortuna è che la Federazione non sempre le aveva fatte rispettare, le sue regole. Allora, bastava ricordarglielo (diciamo: io so che tu sai che io so) e sospirando dicevamo vabbè, facciamo uno strappo, come se fosse il primo, e la Roma una privilegiata. No, ci stavamo soltando riprendendo qualcosa che ci avevano sottratto. E poi la stessa storia con Eriksson, vi pare che un palazzo trasparente ce l'avrebbe data per buona? Buona regola: raccogli quante informazioni puoi, verificale, usale". Rimane il razzismo, la buona gente della domenica, ostaggio di pochi imbecilli che se vedono su un dizionario la parola civiltà si interrogano sul suo significato. "Un fenomeno nuovo, sicuramente non spontaneo, dal momento che qualcuno, e non faccio nomi, se ne è servito per proteggere un'immagine disastrata. Pochi ne hanno individuato sul nascere i pericoli, io sarei stato durissimo, fino a provvedimenti più impopolari, perché la crescita del livello di civiltà per la mia Roma ha sempre costituito obiettivo primario. Una delle mie prime indicazioni, in sintonia con Liedholm, era di evitare le proteste nei confronti dell'arbitro, per dare alla Roma un'immagine di avanguardia nell'ambito di una crescita morale del nostro sport". Belle parole, battaglie a muso duro contro i privilegi per tanti, troppi anni usurpati, la voglia di far pulizia nelle stanze dei bottoni, palesi o magari occulte. Insomma, diciamolo Dino: un rompiscatole, almeno a guardare i fatti da una certa prospettiva? "Sì, se rompere le scatole era un mezzo indispensabile per fare in modo che le carte truccate sparissero dal tavolo, che occasionalmente i perdenti nati avessero qualche chance di andare alla cassa. Io, in fondo, un po' la vocazione del rompiscatole l'avevo, e neanche mi dispiaceva, anzi mi divertiva". Non ti sarai fatto tanti amici, pur avendo guadagnato moltissimi estimatori, specialmente sul fronte schierato contro quella che era la reale, e potente lega nord, non i quattro pagliacci di Bossi? "Sai bene quante ne ho dovute passare, per le inevitabili ritorsioni. Davi fastidio e allora si affidava il castigo e quegli esecutiori di giustizia che erano gli arbitri (non tutti, magari, ma tanti che contavano molto proprio perché ossequianti al potere costituito): e la Roma pagava, soffriva, ma era diventata troppo forte per essere sottomessa del tutto. Allo scudetto è arrivata, altri gliene hanno sottratti a tradimento, ma almeno una strada l'ho aperta e altri ne hanno potuto usufruire, compresa l'opposta sponda del Tevere. Che dici? No, e perché dovrebbe dispiacermi?". Violese a parte, qualche volta eri costretto a giri di parole non del tutto sinceri, chiaramente legittima difesa. "Forse, però un Pinocchio non lo sono mai stato: potevano essere, se vogliamo, piccoli adattamenti della verità a un mondo, e mi riferisco sempre al calcio, che aveva fatto dell'ipocrisia il suo vessillo. Però una volta la parte del Pinocchio l'ho fatta: mi hanno terrorizzato con una presunta congiura per togliere alla Roma la finale di Coppa dei Campioni, il Gatto e la Volpe si sono presi gli zecchini d'oro, per fortuna la mia buona fede era palese". Non so dire a chi fossero in mano i fili di due patetiche marionette, nel caso famigerato di Roma-Dundee United e dell'arbitro Vautrot. Sicuramente non casuale, invece, il pasticcio del Lipopill, degli strali su Carnevale e Peruzzi: deleterio non soltanto per gli effetti contingenti, ma perché determinante nell'allontanare da Roma alla fine il più forte portiere dell'ultimo decennio. "Io non credo che quella vicenda sia andata veramente in archivio, il buon Alicicco ha dispensato, giustamente, denunce e querele, non sorprendetevi se ne verrà fuori qualcosa di pesante, perché quella è stata una cosa sporca. Ammesso che vi fossero dei colpevoli tra i nostri tesserati, nessuno si è mai chiesto da dove partisse il problema: nato probabilmente più a sud di Roma. E passato, prima di arrivare a toccare il giallorosso da un azzurro ad una sfumatura di colore molto simile, ma chi ha mai avuto voglia di arrivare veramente alla verità, tra chi avrebbe dovuto approfondire l'indagine? Se il Palazzo era estraneo alla vicenda, come mai dopo Benfica-Roma fu effettuato a Bari l'antidoping la domenica successiva, quando non era mai accaduto che una squadra italiana impegnata a metà settimana in coppa fosse sorteggiata per il controllo tre giorni dopo? La Roma dava fastidio: perché si era conquistata credibilità e prestigio. E allora sono orgoglioso di essere finito nel mirino dei cecchini del Palazzo e dei suoi manovratori. Occulti? Mica tanto". Grazie, Dino, della lunga chiacchierata, come una delle tante che ci hanno riempito le giornate, quando un campo di allenamento era uno spazio aperto e non un comando blindato del KGB. E grazie per aver gettato le basi di una crescita che ha restituito alla Roma una posizione di privilegio dell'elite nazionale. La vedi, da lassù, la vetta della classifica? "Sì, ma stiamo calmi. Di essere scaramantico, e avendo avuto Liedholm vicino per tanti anni non avrebbe potuto essere diversamente, non me lo possono proibire neanche qui".