Questo mese in edicola
   
rossoegiallo.com
  Interviste


 

Intervista con Angelo Paparelli

di Daniele Lo Monaco - Set. 2001

È un altro mezzogiorno di fuoco, come tutti, del resto, in un agosto bollente che rende sbiadite per la troppa luce queste strade di periferia libere dal traffico ma non dall'angoscia per qualche novità che non arriva mai, perché la vita scorre sempre uguale a se stessa. Angelo Paparelli aspetta fuori dall'officina, di fronte a quell'insegna che non ha mai cambiato, dove c'era scritto F.lli Paparelli prima del 28 ottobre 1979 e dove ancora oggi c'è scritto così anche se Vincenzo da quel giorno non c'è più. Ricordavo qualche foto di Angelo, comunque sorridente come ora, ma con diversi chili in meno e molti capelli biondi in più: "Certo, non sono più quello di prima. Di prima della malattia, intendo. Sono gonfio dal cortisone e dall'inattività e ho tagliato quasi a zero i capelli. Ma non mi lamento". Ha una bella officina, larga, comoda, piena di borchie di ruote sulle pareti che qualche architetto dell'era moderna ci prenderebbe spunto per l'arredamento, ma non c'è una macchina dentro tranne la sua: "Il lavoro s'è fermato un momento, è da ieri mattina che non ho niente da fare. Ma ad agosto ringraziando Dio ho lavorato abbastanza, sono rimasto sempre aperto e ho avuto il mio daffare. Certo anche nel nostro campo i tempi sono cambiati. Oggi la mia clientela è composta per l'ottanta per cento da extracomunitari e il resto da italiani. Normale: gli italiani comprano sempre più macchine nuove e gliele vendono con l'obbligo dell'assistenza, vanno a fare i tagliandi e sono accolti da capofficina in camice bianco da primario. Queste nostre tute non le mette più nessuno. Qui se mi portano una bronzina o una pompa rotte le riparo. Nei megaservizi di assistenza invece ti cambiano il pezzo, non riparano più niente. E se anche volessi io non potrei mai far loro concorrenza: oggi le macchine sono governate da centraline elettroniche e per conoscere il guasto bisogna avere dei tester che costano venti milioni di lire. Solo che ogni macchina ne ha uno diverso. Si tratta di investimenti di centinaia di milioni, e chi me li dà?". La vita di Angelo Paparelli è piena di domande senza risposte e il motivo per cui oggi ha accettato di incontrare rosso&giallo è proprio per far chiarezza su un altro dubbio che gli sta davvero a cuore. Capita infatti che per la prima volta da ventidue anni, il calendario di serie A ha previsto per il 28 ottobre la sfida tra Roma e Lazio, e la ricorrenza ha suscitato brividi contrapposti: da una parte coloro che temono che con l'occasione le tifoserie potrebbero trovare sostanziosi alibi reciproci per riprendere su vasta scala quel progetto di belligeranza che proprio nello scorso derby di ritorno è sembrato riemergere in maniera preoccupante (vedi rosso&giallo dello scorso maggio), dall'altra quelli che, come Angelo Paparelli, sostengono che è invece l'occasione giusta per non dimenticare dove porta la follia umana e che piuttosto la ricorrenza va sfruttata per sollecitare la riflessione sulla recrudescenza degli episodi criminali. Le esigenze della Champions League metteranno tutti d'accordo, probabilmente: visti gli impegni di entrambe le squadre romane, sarà necessario l'anticipo a sabato 27 e forse alla fine ne sono tutti contenti. Tutti tranne Angelo: "Per carità, se il motivo è quello della Champions League mi sembra legittimo. Ma quando ho letto l'iniziativa di quei consiglieri comunali che sostenevano l'esigenza di cambiare data per evitare pericolose ricorrenze, sono sobbalzato. Ho chiamato una radio privata e ho parlato in diretta con Bruno Ripepi e lui è stato gentilissimo. Poi ho chiamato Gazzetta dello Sport e Messaggero e al telefono sono stati comprensivi, ho spiegato il mio punto di vista e ho polemizzato con l'iniziativa di quei consiglieri comunali che forse potrebbero usare il loro tempo per lavorare su temi più importanti, ma poi il giorno dopo non ho trovato niente pubblicato. Si vede che avevano notizie più importanti. Pazienza". Angelo Paparelli è l'incarnazione della disillusione. Il balzo cronologico dei ritagli attaccati alla rinfusa alle pareti del piccolo ufficio ricavato nell'officina, va dalle foto ricordo del terzo memorial Paparelli ("All'inizio mi sembrava una manifestazione seria, poi intuito il tragitto delle cifre sborsate dagli sponsor non abbiamo più permesso che il nome di Vincenzo fosse accostato a quel torneo"), roba di diciotto anni fa, allo striscione esposto dalla curva sud due anni fa che invitava la tifoseria rossogialla a portar rispetto per il morto. Non ha tante foto, però. "Qui mi è rimasta poca roba. Il fatto è che ogni volta che viene qualche suo collega per un articolo mi dice, "prendo questa, poi gliela riporto". Ma spesso non riportano niente". Nel dubbio non chiedo niente, e proseguo con l'argomento dell'amore dei tifosi: "Sì, i veri tifosi portano Vincenzo nel cuore, lo dico con orgoglio. Io sono romanista e quello striscione mi fece un immenso piacere. La tifoseria biancoceleste poi non ha mai dimenticato di onorare la memoria di mio fratello. So che anche in questi giorni gli Irriducibili stanno proponendo una raccolta di firme per intitolare a Vincenzo una strada, come provai io, o addirittura la Curva Nord. Sto cercando di chiamarli per ringraziarli. Forse è la volta buona che ci riescono, chissà. Il tifoso morto ad Ascoli ha avuto la sua targa un mese dopo il suo omicidio. Per Vincenzo sono trascorsi quasi ventidue anni e ancora non è stato fatto niente". Quante promesse ricorda, quante offerte non richieste di solidarietà rimaste in piedi fino al break pubblicitario, quante passerelle di politici, quante tessere vitalizie rimaste nei cassetti di Trigoria o di Formello: "Mia moglie ogni volta mi dice: "Angelo, ma ancora ti intestardisci? Non l'hai capito che non ci si fila nessuno? Io invece insisto, talvolta solo per rimediare a qualche ingiustizia". Fa nomi e cognomi di gente che s'è fatta bella a sua spese e in diretta radio, miserabili che non vale neanche la pena di citare. Ha bei ricordi solo di un uomo politico, peraltro scomparso: "Al tempo della tragedia il sindaco di Roma era Petroselli, un vero gentiluomo. Al primo approccio non l'avevo neanche riconosciuto: era un tipo tranquillo, con una scoppoletta in testa, mi prendeva sottobraccio e mi parlava, mi rincuorava, io lo ringraziai senza sapere chi fosse. Gli amici mi dissero che era il Sindaco. Poi divenimmo amici e a cadenze periodiche tornava a farsi sentire". Tra i calciatori Manfredonia fu il più vicino alla famiglia: "Si ricordò che proprio pochi giorni prima della disgrazia mi ero recato da lui con una sua foto per regalare una dedica a Vincenzo che lo stimava tantissimo. Così quando seppe che proprio Vincenzo era morto quel giorno si prodigò in mille maniere per aiutarci. Anche a distanza di anni mi chiamava per dirmi se magari potevamo aver bisogno di qualche biglietto per lo stadio". Il rapporto con lo stadio per Angelo è un discorso chiuso: "Capirà, ho scritto diverse lettere ai presidenti di Roma e Lazio che in questi anni si sono succeduti perché nel momento più critico della mia malattia ero disperato e ho pensato veramente di rivolgermi a qualcuno in grado di aiutarmi. Sia chiaro, non ho mai chiesto una lira. Solo, viste le mie condizioni fisiche ho pensato di offrire la mia collaborazione per un lavoro di qualsiasi tipo da svolgere rimanendo seduti. Ma non ho mai ricevuto risposte. Perché ora io dovrei dare i miei soldi ai presidenti della Roma e della Lazio?". Poi ci ripensa: "Anzi, una volta ho ricevuto una risposta e dovrei avere ancora la lettera, eccola". Me la mostra, è su carta intestata della Roma ed è firmata Franco Sensi. Si legge: "Egregio Signor Paparelli, abbiamo ricevuto la sua offerta di collaborazione e pur consapevoli che la sua situazione attuale sia tutt'altro che facile, La informiamo che gli organici della società sono attualmente al completo per cui non intravvediamo alcuna possibilità per un Suo inserimento nella nostra struttura. Tanto ci premeva per correttezza comunicarLe mentre Le assicuriamo che presentandosene l'opportunità sarà nostra premura contattarLa tempestivamente. Con i migliori saluti". "Almeno Sensi mi ha risposto". Ma non è una risposta, obiettiamo. O meglio, lo è. Ma forse certe questioni potrebbero essere regolate diversamente. Invece così vanno le cose. In sostanza, i familiari di Paparelli non sono mai stati risarciti? "Un momento: dopo il processo moglie e figli di Vincenzo sono stati risarciti com'era giusto e poi ci fu il contributo di un incasso di un derby amichevole giocato in ricordo di mio fratello. Io mi pagai persino il biglietto della tribuna" Ma di che malattia soffre, Angelo Paparelli? Spiegarlo non è facile. Mi mostra un altro ritaglio, è dell'Unità: si parla di un clamoroso caso di malasanità e l'intervistato è proprio il nostro Angelo. In sintesi, i suoi guai cominciarono quando si manifestò in maniera insistente un dolore non meglio identificato al tallone destro: "Stai somatizzando la scomparsa di tuo fratello", mi dicevano i medici che mi visitavano quando con il conforto degli esami radiografici non notavano anomalie. "Ma il dolore aumentò fino a farsi lancinante, finchè mi diagnosticarono un guaio di natura muscolare che poteva essere risolto con un intervento chirurgico. Fui operato e come risultato non riuscii più a poggiare il piede per terra. Anche oggi, il peso del solo lenzuolo mi fa sobbalzare dal dolore. Poi sono dovuto andare in Francia a farmi curare, vendendo quel poco che avevo per potermi pagare le spese, e lì i medici che mi hanno visitato hanno stabilito che soffrivo di una malattia degenerativa ad un legamento plantare peraltro aggravata dal pessimo lavoro eseguito dai loro "colleghi" italiani. In sostanza avevo un'infermità totale". L'escalation della sua vicenda lo ha prostrato fino a spingerlo sull'orlo del suicidio: "C'è stato un periodo in cui piangevo dalla mattina alla sera, cercando peraltro di non farmi vedere dalla mia famiglia. Ma non avevo davvero di che mangiare. Da quando era mancato Vincenzo erano cominciati anche i guai. La vera anima di questa officina era lui, lui era il fratello più grande, era lui che mi aveva insegnato il mestiere e con il lavoro di entrambi le cose andavano davvero bene. Quando è mancato, se n'è andato il mio personale punto di riferimento e oltre al dolore constatavo che le cose non funzionavano più come prima. Poi con la malattia è esplosa la mia disperazione. Ma un giorno ho reagito. E ora sono qui, non posso permettermi di fare vacanze e nessun vizio, ma ho una splendida famiglia e i miei figli mi daranno le soddisfazioni che non ho avuto io". Quanti figli ha? "Io e Teresa abbiamo due figli, Valentina di 21 anni e… Vincenzo di 17. Gliel'ho detto, quando è successo la tragedia mia moglie era incinta, ed è nata una femmina. Poi, quattro anni dopo, è arrivato il maschio. Non dimenticherò mai la commozione di quel giorno quando ho parlato con mia moglie subito dopo il parto e lei mi ha bisbigliato "Ti ho fatto Vincenzo"". E come porta quel nome il ragazzo? "Con il giusto orgoglio". Ora il piede non le dà più dolore? "Ho il fuoco dentro. Certe volte mi tolgo la scarpa e metto il piede sotto l'acqua. E ricomincio. Finchè posso lavoro in piedi, poi mi siedo". Le viene mai in mente la tragedia di suo fratello? "Certo, non voglio mai dimenticare quello che è successo. A parte che ogni tanto ci pensa pure qualche sciacallo". In che senso, scusi? "Di solito quando si avvicinava il derby, almeno fino a tre o quattro anni fa, il telefono prendeva a squillare e a chiunque rispondeva partivano frasi indecenti, slogan terribili tipo quelli ancora scritti su qualche muro, slogan inneggianti alla morte di Vincenzo". Laidi individui senz'anima e senza palle. Non dia loro più dell'infimo peso che meritano. "Certe volte chiamavano anche di notte, a casa. Ora per fortuna non succede più". Con Wanda, la moglie di Vincenzo, ora come sono i rapporti? "Preferirei non parlarne, diciamo che non ci frequentiamo più. Ma prima e subito dopo la tragedia eravamo molto uniti. Consideri che io e Vincenzo eravamo i due maschi di nove figli e con il nostro lavoro ci eravamo costruiti una casetta con quattro appartamenti, due li occupavamo noi, stavamo porta a porta, e le altre due delle nostre sorelle". Cosa ricorda del giorno della tragedia? "Vincenzo andò allo stadio con il mio abbonamento: io ero tesserato della Roma Curva Sud, lui della Lazio curva Nord. Ma quel giorno, anche se giocava in casa la Roma, decisi di non andare perché mia moglie era incinta e non stava molto bene. Lui comprò un biglietto a Wanda e con la mia tessera entrò in Nord, allora si poteva". Lei dov'era? "Con mia moglie andai a pranzo da mia suocera e dalla televisione apprendemmo che c'erano stati dei gravi incidenti al derby. Li annunciò addirittura Pippo Baudo. Lì per lì non gli diedi peso, vai a pensare che proprio a Vincenzo… Poi però, dopo qualche tempo, telefonò la sorella di mia cognata e ci disse: "Venite al Santo Spirito, Vincenzo è grave. In macchina ricollegai le parole di Pippo Baudo e trasalii. Mi fermai. Poi, quando arrivammo all'ospedale incontrammo Wanda. Mi disse semplicemente "Vincenzo non c'è più"". Vincenzo Paparelli era stato colpito tra l'orbita e la tempia sinistre da un razzo per segnalazioni marine sparato dall'opposta Curva mentre mangiava un panino. La moglie fu la prima a soccorrerlo e ebbe addirittura la forza di strappargli dall'occhio il razzo ancora fumante. L'arma mortale fu in seguito raccolta da un giovane cronista di una radio privata, Gianni Elsner, oggi conduttore di una seguitissima trasmissione mattutina su un'altra radio privata, e consegnata alla polizia. Le indagini portarono all'arresto di Vincenzo Fiorillo che morì diversi anni dopo, già scarcerato, per un'overdose. A pagare furono anche il complice e l'armiere che aveva venduto l'attrezzo "bellico". "Ma io sono convinto - aggiunge convinto Angelo - che i veri colpevoli non sono mai stati trovati". Ebbe modo di vedere Vincenzo all'ospedale? "Ci fu sconsigliato. Ci dissero "Non andate a vederlo, è meglio se ne conservate un altro ricordo"". E qual è il ricordo che ha conservato di lui, invece? "Non dimenticherò mai quello che mi disse un paio di giorni prima di morire. Avevamo appena chiuso una lunga giornata di lavoro, eravamo stanchi ma contenti per come avevano ormai carburato le cose. Vincenzo mi mise una mano sulla spalla e con fare paterno mi disse: "Eh, Angeli'? Ma chi ci ammazza a noi?".