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Intervista con Aldair

di Daniele Lo Monaco - Ott. 2001

Quando Aldair Nascimento Dos Santos vestiva per la prima volta la maglia della Roma, il presidente del Consiglio in Italia era Giulio Andreotti, Francesco Cossiga era a capo dello Stato e nessun albanese aveva ancora attraversato l'Adriatico alla ricerca della terra promessa, Mario Chiesa era ancora il rispettato presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, Antonio Di Pietro era solo un battagliero sostituto procuratore della Repubblica e nessuno lo conosceva, neanche Bettino Craxi, potente segretario del Partito Socialista Italiano. Accadeva una vita fa, per la precisione sono passati undici anni e due mesi. Poco prima di sbarcare a Trigoria, 5 miliardi il costo del suo cartellino, lo smilzo difensore centrale era stato sconfitto dal Milan nel corso di una combattuta finale di Coppa dei Campioni: indossava la maglia del Benfica, allenatore era Sven Goran Eriksson, rigenerato a Lisbona dopo una sfortunata parentesi italiana, proprio alla Roma. Aldair, non ancora Pluto, aveva capelli ricci innaturalmente alti, come quel tipo della pubblicità che rinuncia al barbiere dopo aver trovato una macchina con gli interni così confortevoli che non gli si schiaccia l'acconciatura mentre sta seduto al posto di guida. Tonino Tempestilli, attuale team manager e allora compagno di reparto del brasiliano, ha ricordato proprio recentemente, in un godibilissimo pezzo sul Messaggero dell'Aldairologo Mimmo Ferretti, che la capigliatura di Aldair era motivo di irresistibile ilarità nel gruppo di quella Roma, la Roma di Giannini e Voeller, Carboni e Nela, Desideri e Rizzitelli, Carnevale e Cervone, la Roma pavida di Ottavio Bianchi che vinceva in casa e perdeva fuori, la Roma del doping e del Lipopill, l'ultima Roma di Dino Viola, che arrivò nona in campionato ma fino in fondo in Coppa Uefa, arrendendosi malamente solo all'Inter di Trapattoni. Tra quella Roma e quella di ieri, che ha vinto lo scudetto, e quella di oggi, che cerca di percorrere il cammino che porta ad un'altra finale di Coppa dei Campioni, anche se adesso si chiama Champions League, c'è un solo punto di contatto ed è proprio quello smilzo difensore centrale che adesso, con i capelli più corti, ha appena ripreso a fermare avversari con la sicura autorità che ne ha fatto, per lunghi periodi, uno dei migliori difensori centrali del mondo, con l'attendibile attestato di campione del Mondo con la Nazionale brasiliana a Usa '94. Questo splendido arco di Roma nostra è seduto qui di fronte, nel regno della sua privatissima Roma, "Conosco l'Eur, non Roma. Sono dell'Eur, non di Roma", all'Eur, appunto, in viale Europa, al tavolo di una pasticceria di suoi amici, mentre il viavai di fans estasiati/e non accenna a diminuire. E si parte proprio dalla sua popolarità. Sono undici anni che è così Alda? Quanti autografi avrai firmato? "Da undici anni è così, ma non mi dà fastidio, anzi. Mi fa piacere. Sento l'affetto di questa gente". Undici anni in una frase, ci riesci? "Sono stato bene. Ho passato tanti momenti belli, tanti brutti. Ma sono contento". Una cosa va detta, prima di riprendere con le domande e le risposte. Aldair ha il suono della voce monocorde, su toni piuttosto bassi, e mantiene una timidezza che in alcuni passi gli consiglia addirittura di aumentare la velocità del suo discorso. Questo porta a due conclusioni: la prima è che non era proprio possibile che si capisse fino in fondo con Zeman, visto che uno parla come l'altro e nessuno si sforza più di tanto per farsi comprendere, e quindi già da questo si intuisce perché il più convinto dei suoi minacciati divorzi si riferisca proprio al periodo romano del boemo; la seconda è che sarà dura portare a termine questa intervista senza lasciare per strada qualche battuta. Anche perché il rumore del traffico di viale Europa alle 18.30 di un qualsiasi giorno feriale sovrasta spesso i nostri discorsi. Ma ci sforzeremo: Alda ha voglia di parlare, ha tempo, ha la mente sgombra e il cassetto dell'anima pieno di ricordi e di speranze. Lo scudetto: l'hai sognato per dieci anni, poi è arrivato. Hai notato differenze tra quello che ti immaginavi e quello che è stato? "Più o meno avevo immaginato tutto, l'atmosfera, i colori, lo stadio, la città. Ma mi ha sorpreso l'intensità della festa, ci sono stati 4-5 giorni incredibili, poi sono partito". Che ti resta dentro? "Soprattutto la trombetta di mio figlio Stefano. Ci ha assordati". Prima dello scudetto le soddisfazioni che hai provato sono state di altra natura. "Erano legate soprattutto alle prove personali, a certe vittorie importanti della squadra. Vittorie fini a se stesse". Peccato non essere in campo contro il Parma. Ne avevate realmente parlato? "No, l'ho solo letto sul giornale. Né dal tecnico né dal presidente sono mai arrivare indicazioni in tal senso". Deluso? "Quando abbiamo pareggiato a Napoli ho capito che non ci sarebbero state possibilità. Il risultato della partita con il Parma era fondamentale e Capello non poteva permettersi il lusso di portare in panchina un infortunato". Capello è stato l'ottavo allenatore che hai conosciuto nei tuoi dodici campionati di Roma, comprendendo nell'elenco la coppia Liedholm-Sella che rilevò l'argentino Bianchi dopo l'esonero. Ti va di ricordarli uno per uno? "Cominciamo da Ottavio Bianchi, l'allenatore con il quale, a dispetto del sentire comune, ho avuto il miglior rapporto umano. Io ero appena arrivato alla Roma e incontravo qualche difficoltà di inserimento. Sotto il profilo tecnico lui mi ha insegnato a giocare a uomo ed è stato fondamentale per la mia formazione di difensore. Ma non dimenticherò mai soprattutto l'apporto umano che mi ha dato: parlava molto con me, mi chiedeva sempre quali fossero i miei problemi, come si trovasse a Roma la mia famiglia, se avessi bisogno di aiuto". Poi fu il momento di Boskov. (Alda sorride) "Beh, devo dire che aveva molta fiducia in me, mi chiedeva sempre chi ritenevo fosse giusto far giocare, chi vedevo più in forma tra i miei compagni di squadra. Usanza che ha avuto in molte delle sue squadre, dicono. Con me aveva un buon rapporto, mi chiamava "Biondino": ricordo soprattutto quando mi faceva fuori, c'era il tetto degli stranieri, allora, potevano giocarne solo tre contemporaneamente. Allora entrava nella mia camera, diceva "Biondino, tocca a te", mi dava uno schiaffetto in testa e io non capivo se voleva dire che dovevo giocare o mi dovevo fermare... Secondo me il suo problema è stato che lasciava troppa autonomia ad ognuno di noi, era troppo buono, e alla fine qualcuno se ne approfittava". E siamo a Mazzone. "I suoi primi tempi io rimasi fuori dal campo per un lungo periodo: mi ero rotto il crociato e lo conobbi bene solo al mio rientro, dopo sei mesi. Lui in campo pretendeva molto agonismo e in effetti la sua fu una Roma davvero grintosa. Tatticamente importò lo schieramento con tre difensori a zona mista, mi sembrava molto preparato. Umanamente è quello che si vede: si arrabbiava, eccome, ma gli passava presto". La sua reazione contro i tifosi dell'Atalanta ha fatto discutere. "Io lo capisco, forse perché sono come lui. Sono un tipo tranquillo, ma quando mi arrabbio perdo la testa". Veramente non sembri uno che non sappia controllare le sue emozioni. Non hai mai avuto reazioni violente, in campo. "Solo una volta, durante un derby, contro Casiraghi. Ma non lo presi". A proposito, con quali avversari hai avuto i confronti più agonistici? "I più duri? Non ho dubbi: Casiraghi, Van Basten e Serena". Tre attaccanti che non giocano più. Non ricordi nessuno di più... fresco? "Nessuno, tra quelli che giocano oggi, è "cattivo" come lo erano loro". Torniamo ai tecnici: Carlos Bianchi. "Ha avuto il torto di non capire la realtà italiana, e con lui il suo preparatore atletico. In Sudamerica si lavora sulla corsa continua, qui sugli scatti. E non faceva mai fare lavoro tattico: pretendeva una squadra molto chiusa, ma senza schemi. Bisogna anche dire che tecnicamente non aveva una grandissima squadra a disposizione, anche se era difficile per noi capire quello che voleva". Dopo il breve interregno Liedholm-Sella è toccato a Zeman. "Un'avventura entusiasmante all'inizio. Temevamo il suo arrivo soprattutto per la pesantezza dei carichi di lavoro, ma poi sul campo volavamo e i risultati facevano dimenticare la fatica. Riportò la passione e i tifosi allo stadio". Non fu il suo solo merito. Ma quali furono i suoi demeriti? Tu, se fosse rimasto, saresti andato via, ormai è noto. "Voglio chiarire un concetto: è vero, se fosse rimasto sarei andato via perché con il mio fisico non reggevo più i suoi allenamenti. Ma ti confesso che gran parte delle colpe dei risultati che non arrivarono furono nostre, non sue. Eravamo noi che sul campo non riuscivamo ad applicare concetti che invece sembravamo aver acquisito. In allenamento sembrava tutto facile, in partita qualche volta mollavamo psicologicamente. Ecco, forse il limite del metodo di Zeman è che per avere successo richiede un'applicazione e una concentrazione costanti. Non puoi rilassarti un attimo, altrimenti prendi il gol. È inevitabile. Ma i suoi schemi offensivi restano l'aspetto più spettacolare di un allenatore unico, nel suo genere". E siamo a Capello. "Il primo anno con lui non ho saltato una partita: 34 presenze e un rendimento continuo. Peccato per il crollo psicologico della squadra tra fine febbraio e inizio marzo, con la sconfitta in campionato a Torino e l'eliminazione europea, altrimenti avremmo potuto vincere qualcosa anche allora. Poi l'anno scorso la svolta c'è stata con la debacle in coppa Italia contro l'Atalanta: dopo quella partita, il mister ha spostato Samuel al centro della difesa e mi ha lasciato fuori. Pensavo fosse una soluzione temporanea, invece la squadra ha preso a volare e io sono rimasto fuori a lungo. Peccato, ma sono cose che capitano nel calcio". Gli hai chiesto spiegazioni, all'epoca? Tu sei uno che parla chiaro agli allenatori. "Esatto, io parlo con tutti. Ma non gli chiesi nessuna spiegazione, non ce n'era bisogno". Adesso, da quando sei tornato in forma, avresti potuto chiedergliene. Non fosse stato per la squalifica di Zago forse non avresti neanche giocato a Torino, e non avresti potuto dimostrare ancora una volta la tua classe. "Non lo so, ma tanto il mister non cambia idea. Se ci fate caso ha cambiato spesso gli altri reparti, dal portiere ai centrocampisti agli attaccanti. Ma lì dietro non cambia: lui vede Zebina, Samuel e Zago". Ma adesso Zago non c'è e dovrà scontare ancora due turni. "Io ci provo. Vedremo". Dì la verità, non ti sei mai arrabbiato sul serio con nessuno dei tuoi allenatori? (Alda sorride ancora, chiude per un attimo gli occhi e rivede in un secondo cento feroci discussioni che ha avuto, anche di fronte a spaventati testimoni. Ma poi sceglie il basso profilo) "No, non ricordo episodi particolari". E non ti è mai capitato neanche di attaccare al muro un tuo compagno di squadra? (Stavolta non si trattiene) "Una volta è successo qualcosa con Candela, ma poi abbiamo messo una pietra sopra. Ora ci ridiamo su". Che fai quando ti arrabbi? Porti rancore? "Sul momento sì. Il giorno dopo neanche saluto la persona con cui ho litigato. Ma poi mi passa". I compagni del passato con cui sei ancora legato, invece? "Voeller, Carboni e Giannini. Con Peppe poi ci lega un rapporto speciale. Dicono tutti che se avessimo giocato in una Roma più forte avremmo vinto tanto anche noi. Non lo so, forse è vero". Ma che cos'è 'sta storia che a fine anno lasci la Roma? L'ennesima minaccia? "Mah, stavolta faccio sul serio. Mi scade il contratto, forse ho voglia di fare un'altra esperienza in Brasile. Ma non sono stanco di Roma. Anzi, ti confesso una cosa". Prego. "Ho deciso di acquistare casa in questa città". Beh, meglio tardi che mai. "Anche perché se non lo faccio adesso (non lo dice chiaramente, ma intende adesso che ancora guadagna bene, ndr) non lo faccio più". Segno che tornerai a Roma anche se a fine anno volerai di nuovo in Brasile. "Sì, l'intendimento è questo". Sensi è stato chiaro: vorrebbe che Aldair restasse alla Roma anche a fine carriera. "Vedremo, ne parleremo. Ne abbiamo fatto cenno una volta, solo che era presto". Che rapporto hai con il presidente? "È sempre stato leale e sincero con me, sin dal primo giorno in cui l'ho conosciuto. Venne a farmi visita in ospedale, durante la convalescenza per il crociato". Ma il presidente è stato messo da tutti voi in stato d'accusa, come denunciato nel comunicato. "In effetti, sarebbe buona norma che i premi per un'eventuale vittoria in una competizione vengano discussi prima della competizione stessa e non dopo. Per questo ci siamo arrabbiati". Dài, Alda: far uscire quel comunicato è stata un'operazione stupida. Come avete fatto a non rendervene conto? "Non lo so, non voglio accampare scuse, anche se io non c'ero. Ma l'ho firmato e quindi ne sono responsabile come gli altri. Ci sembrava la via giusta per chiedere alla società di onorare l'impegno a riceverci". Ma siete passati dalla parte del torto con quel passo del comunicato in cui richiedevate il famoso "riconoscimento non formale". Se non aveste parlato di soldi, ma aveste richiesto - con fermezza, magari - un colloquio alla società, forse l'effetto non sarebbe stato così controproducente per voi. "È vero, è stato quello il nostro errore. E il paradosso, è stato che poi quel colloquio non l'abbiamo mai più ottenuto. E adesso non possiamo più parlare di premi...". I tifosi hanno giustamente presa male tutta la vicenda. "Però la contestazione non la capisco. I premi nelle squadre sono sempre esistite, perché ci si stupisce se se ne discute?". Tu hai spesso fatto parte delle commissioni interne. "Sì, ma da tre anni ho preferito lasciare ad altri l'incarico. Mi stressava". Oggi lo stress è un altro. Nel mondo spirano venti di guerra. "La paura è tanta. Non dimenticherò mai quell'11 settembre. Stavamo preparando la partita con il Real Madrid, quando ho sentito la notizia non mi sono reso conto subito. Poi in ritiro abbiamo visto le immagini in tv ed è stato scioccante. È stato sbagliato giocare, quella sera. Io ero in panchina, non in campo. Ma più che guardare la partita, scrutavo il cielo... Avevo paura. E percepivo questa tensione anche nelle facce dei miei compagni. Non sembri una scusa, ma questa stessa tensione non l'ho notata sulle facce dei giocatori del Real". Tornando al calcio, il Real introduce anche l'ultimo argomento. Vincere la Champions League per la Roma sarebbe un evento eccezionale. E per te sarebbe la rivincita della sconfitta del 1990. In un certo senso chiuderesti perfettamente il cerchio della tua permanenza a Roma... "Non so come andrà a finire questa Coppa. Oggi mi sembra che il Real abbia ancora qualcosa in più rispetto a noi. Ma tra qualche mese i rapporti di forza potrebbero essere diversi. L'importante è andare avanti oggi". È la Roma più forte in cui hai mai giocato. La considerazione ti fa rabbia, perché oggi tu hai 36 anni, o ti fa comunque piacere? "Mi fa piacere, sicuramente". Qual è, se dovessi indicarne uno, il vero segreto del successo di questa squadra? "Indicarne uno è impossibile: ma gli elementi più importanti sono stati l'arrivo di Batistuta - uno che trasmette una grinta incredibile agli altri giocatori e che incute timore agli avversari anche quando, come nell'ultimo periodo, non sta benissimo - e poi l'impostazione tattica digerita dopo un anno difficile, la maturazione del gruppo e la definitiva affermazione di Totti". Tu l'hai tenuto a battesimo. "Sì e sono contento di poter dire che la sua crescita è stata costante ed è coincisa anche con l'esplosione atletica. Oggi Francesco Totti è un giocatore che lascia il segno. In tutte le partite".