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Intervista con Assuncao

di Daniele Lo Monaco - Nov. 2001

"Il mio calcio di punizione comincia il giorno prima quando tra un consiglio e l'altro di Capello, mentre studiamo l'avversario che troveremo di fronte, io osservo le caratteristiche del portiere, se esce o non esce con quel secondo d'anticipo, se scatta bene da un palo all'altro, se è più o meno attento alle traiettorie del pallone".

La vita in un calcio di punizione di Marcos Assunçao comincia a Caieiras il 25 luglio di 25 anni fa, primo dei quattro figli di Maurina e Waltemir: "Non navigavamo certo nell'oro quando ero bambino. Non abbiamo mai fatto la fame, propriamente detta. Però non riuscivamo neanche a mangiare carne tutti i giorni, anche se papà lavorava proprio al mercato della carne. Arrivava a casa alle undici, mezzanotte e alle quattro era costretto a uscire di nuovo. Mamma invece lavorava nella cucina di un ristorante. E io sin da piccolo mi ingegnavo per dar loro una mano, anche perché sono il più grande. Facevo piccole consegne, come si dice?, sì, il fattorino. E studiavo, poco perchè ero sempre stanco. E appena potevo scappavo a tirare calci ad un pallone. Come tutti i ragazzi brasiliani". La decisione di tentare la carriera di calciatore provocò discussioni in famiglia? "Mia mamma era contraria, sosteneva che con il calcio non potevo portare soldi in casa. Voleva che studiassi per imparare un mestiere. Papà invece mi sosteneva, assecondava la mia passione. E quando avevo gli scarpini rotti, si presentava subito con un paio nuovi, magari rinunciando a comprare qualcosa da mangiare. Mi diceva sempre: "Tu pensa a giocare, che io lavoro anche per te". Ecco perchè ricordo come uno dei giorni più belli della mia vita quando arrivai a casa forte del mio bel contratto da professionista e dissi ai miei che da quel giorno non avrebbero più dovuto lavorare. Adesso la ruota era girata, con quello che guadagnavo tutta la famiglia avrebbe potuto garantirsi un'esistenza serena. Avremmo potuto mangiare carne tutti i giorni, non solo i soliti riso e fagioli, e permetterci persino qualche piccolo lusso".

"Il piede a quel punto è già caldo, soprattutto se nel corso della settimana di allenamento sono stato costante a provare e riprovare il tiro giusto. L'allenamento per me è fondamentale, senza allenamento non migliori, non raggiungi nessun obiettivo".

Il primo contratto professionistico il giovanissimo Marcos lo strappa al Rio Branco, il piccolo club di provincia dove muove i primi passi. "Ma lì guadagnavo poco: i primi soldi veri li vidi al Santos, due anni dopo il mio trasferimento ai bianchi. Mi concessero un aumento sostanzioso, capii di avercela fatta". Giocare nel centrocampo del Santos significa reincarnare l'anima di Pelè, il più grande calciatore di tutti i tempi che proprio con la maglia bianca del Santos ottenne straordinari successi: "Dopo Pelè il Santos non è mai più stata una squadra vincente. Succede un po' quello che succedeva alla Roma fino allo scorso anno, e infatti sono giusto diciotto anni che non si impongono nel campionato nazionale. Noi vincemmo il torneo di Rio-San Paolo, uno dei campionati regionali. In quello nazionale invece arrivammo terzi. E da quelle parti ogni anno è la stessa solfa: i tifosi che si esaltano, pensando che sia l'anno giusto, poi però i risultati non arrivano e allora cresce la tensione e tutto il resto". Tutto il mondo è paese verrebbe da dire. Qui l'anno scorso proprio Assunçao fu duramente colpito da una contestazione vergognosa: "Avevo deciso di andarmene, fu una cosa incivile. Dovevi vedere la mia macchina com'era ridotta, distrutta. Anche Cafu subì lo choc, anche perchè aveva i figli in macchina. Salvammo Aldair, invece: lo avvisammo, arrivò dentro la macchina della polizia. Io non riuscivo a credere che fosse accaduto quel macello. Volevo andarmene, sul momento. Non volevo più stare qui. Poi parlai con tutti i miei amici, con Mario, con Paolo, con Cafu ed Aldair. Mi convinsero e dentro mi scattò qualche cosa. Vediamo chi è più duro, mi sono detto. E ho ripreso ad allenarmi con maggior attenzione di prima. Io non scappo, non sono mai scappato: ho cinque anni di contratto, ho pensato, e sono appena al secondo, devo arrivare fino al termine, se non mi caccia via la Roma". In un certo senso la contestazione sembra avergli fatto bene: (Sorride) "Beh, l'anno prima è successo alla Lazio e hanno vinto lo scudetto, poi è capitato a noi ed è accaduta la stessa cosa. Quanto meno porta bene. In realtà (si fa più serio) può essere giusto che un tifoso contesti: ma arrivare a quegli eccessi non è mai giustificabile". A Marcos danno fastidio anche certe fastidiose sottolineature vocali dello stadio: "Sì, sembra quasi come se i tifosi in alcuni momenti ci accusassero di scarso impegno: che senso ha far alzare un boato di disapprovazione per un passaggio sbagliato? Ad alcuni di noi va meglio, in certi casi c'è sempre maggior tolleranza. Con altri no, al primo passaggio sbagliato giù fischi. Col risultato che se per caso quel ragazzo non è sostenuto da un carattere di ferro poi magari non ne azzecca più una. Io per fortuna ormai sono temprato".

"Poi arriva il fischio dell'arbitro e a quel punto mi concentro sulla situazione. Studio dov'è il pallone, la distanza della barriera, la distanza tra il pallone e la porta, il piazzamento dei compagni e quello del portiere avversario".

Stare accanto ad Aldair l'ha aiutato: "Alda è un mito, siamo anche compagni di stanza, ha sempre il consiglio buono per me, mi ha aiutato molto, è un vero e proprio punto di riferimento". Lo dice convinto e mentre lo fa si rigira tra le mani l'ultimo numero di rosso&giallo, quello con la copertina colorata del biondo dei capelli di Aldair. Possibile che in tre anni di convivenza non ci sia stato mai neanche un litigio? In fondo anche in campo il vecchio Pluto non è uno che le manda a dire... "Ma sono io che non riesco a litigare mai con nessuno". Però ultimamente con le sue continue esclusioni Capello l'avrà spinta in tentazione: "Non giocare quando si è intimamente convinti di essere in forma non fa piacere a nessuno. Ma capisco il tecnico: non è facile scegliere sempre gli undici uomini migliori. Non resta che adeguarsi. Poi adesso non ho problemi: sto giocando abbastanza". Stiamo parlando nel cortile del suo palazzo, luogo scelto da Paolo per scattare le fotografie più suggestive, nel bel mezzo del quadrilatero dei brasiliani, quello spicchio di quartiere alle spalle del "fungo" dell'Eur dove abitano anche Cafu, Aldair e Zago. C'è il sole di giugno e la luce migliore: nonostante sia quasi ora di pranzo Marcos s'è svegliato da poco, la sua ragazza, Fatima, approfitta dell'intervista per sistemare un po' la casa e un paio di volte s'affaccia amorevole dal balcone mentre il fratello di Marcos, Fabiano, appena arrivato dal Brasile dorme ancora: "Farà un provino per la Roma: ha diciassette anni e promette davvero bene. Il ruolo? È lo stesso mio, centrocampista, e ha la stessa sensibilità di piede".

"Poi penso alla traiettoria: in un intensissimo momento di concentrazione capisco dove devo tirare e non cambio più idea. Quando l'ho cambiata, in passato, ho sempre sbagliato".

Giocare in un centrocampo a quattro o a cinque per Marcos non è un problema: "Credimi, l'importante è giocare, a tre a quattro o a cinque è la stessa cosa. Giocherei pure in porta, basta entrare in campo". In Brasile e con la Nazionale è stato sempre impiegato come centrocampista intermedio destro nella linea a quattro: "Lì può permetterti di sbilanciarti come vuoi, c'è sempre qualcuno che ti copre le spalle. In Italia e con Capello non è possibile". Sorride ancora, con la serenità che gli arriva anche dall'aver imparato a muoversi sui campi italiani: "Il primo anno ho sofferto molto: in Brasile ti arriva il pallone e hai sempre qualche secondo prima di decidere cosa fare. Qui tocchi il pallone e immediatamente, quasi contemporaneamente, hai addosso i tacchetti degli avversari. La cosa più importante che ho imparato qui è stata proprio quella di decidere cosa fare del pallone prima che il pallone stesso ti arrivi tra i piedi. E poi a correre un po' di più". Sa di non essere velocissimo, Marcos. Ne ha fatto anzi una virtù. Fuori da Trigoria, la sua vita si consuma lenta tra le mura di casa: "Usciamo pochissimo e quelle poche volte solo per stare con qualche amico, magari a cena. Io adoro stare a casa, rilassarmi navigando su Internet, poltrire sul divano, guardare film in dvd o partite di calcio, al massimo esco con Speedy, il mio cane". Dice che l'ha chiamato così perché non sta mai fermo e si rende conto dell'umorismo involontario che il nome provoca se raffrontato con la calma serafica del padrone. Tanto non s'arrabbia mai, anche quando è inseguito per lunghi mesi dall'ironia tutta romanesca scaturita da un titolo che solo oggi, a due anni di distanza, si può definire profetico. Era il Corriere dello Sport e il titolo di prima pagina che sollevava meraviglia diceva "Assunçao, ma come fai?". Gliel'abbiamo portato e si diverte a farcisi fotografare, oggi che il dubbio è diventato "Ma chi sei?", se il campione che garantisce in più diversi prodigi su punizione o il portaborse buono solo a sbloccare partite inchiodate. Lui appare sereno: "Io sto bene e sono sicuro di poter mostrare tutto il mio valore. Qualcosa, del resto, penso si sia visto". Marcos va matto per i programmi sportivi di calcio internazionale: "Il lunedì quando posso non mi perdo la rassegna dei gol di tutti i campionati. In Inghilterra seguo Manchester United e Arsenal, in Spagna mi piace il Real". La Roma ha provato a specchiarsi nella leggenda madrilena e non ne è uscita ridimensionata, anzi: "La Roma oggi è in grado di giocarsi la partita contro qualsiasi squadra al mondo. In Brasile si dice "di ugual per ugual", da pari a pari con tutte. Poi si può perdere, ma il valore di questa squadra ha raggiunto livelli assoluti. Tre anni fa, al mio arrivo in italia, non era così. Certo però il Real...". E parte spiegando le braccia nell'aria, a dipingere i due-tre tocchi che ogni giocatore del Real Madrid concede alla palla prima di servire l'altro compagno libero: "Tic toc, e la palla non la vedi mai. Che squadra...".

"Poi è il momento della rincorsa: e allora, uno, due e tre, faccio tre passi indietro segnando la distanza utile per non perdere potenza e per garantirmi rapidità di tiro".

C'è tempo ancora per parlare dei tecnici che ha avuto. Uno, l'ex portiere Leao, non lo vuole neanche sentire nominare: "Una persona irritante, un tecnico scarso e un uomo di pochissimo valore". Gliela deve aver combinata grossa: "Non gli piaceva proprio il mio tipo di gioco, ma non aveva il coraggio di dirmelo in faccia. Sparlava di me alle mie spalle, e poi mi fece fuori dopo che segnai tre gol su punizione (ma guarda un po'..., ndr). Me ne andai al Flamengo, per causa sua. Figurati poi se potevo conservare il posto in nazionale quando lo chiamarono a dirigere la Seleçao. Ora che c'è Scolari ho ripreso a sperare in una convocazione per i Mondiali del Giappone. Bisogna solo aspettare e giocare". Parla benissimo di Selinho, suo primo tecnico al Rio Branco, e di Wanderley Luxemburgo. E ha rispetto di Capello: "Sa come metterci in campo e come correggere i nostri errori, quando sbagliamo qualcosa le sue urla si sentono...". Parla un italiano fluentissimo, niente a che vedere con quello di Aldair: "Ho anche un desiderio: vorrei riprendere gli studi e vedere dove posso arrivare, magari anche laurearmi. Vorrei studiare per corrispondenza, ho già chiesto ad Eli, il mio procuratore, di attivarsi per farmi conoscere quali possibilità ci sono". E naturalmente tra gli obiettivi più vicini c'è il matrimonio: "Ci sposiamo il prossimo anno, seguro". Paolo prende nota e riporta a Fatima, che dall'alto scuote un tappeto. Lei finge di non capire, ma cerca con dolcezza lo sguardo di Marcos, che, rassicurante, arriva dritto. Nella confusione s'è svegliato Fabiano e in pochi minuti ci raggiunge. Pende dalle labbra del fratello, anche perché non capisce una parola d'italiano. Ma sorride, di quel sorriso malinconico con cui i brasiliani affrontano la vita. E calciano il pallone. Cercando sempre quell'angolo lontano. Come se la vita fosse davvero un calcio di punizione.

"Poi parto e tiro, con l'interno collo per imprimere quella traiettoria che non deve girare esternamente, ma salire e scendere all'improvviso. Se tutto è fatto bene, la palla entra in porta. E io godo".