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Messico Chiapas e zapatismo | Testi e Documenti | Notizie |
Messico Chiapas e zapatismo Prima di inoltrarci nella disamina
delle posizioni zapatiste è opportuno vedere, quantomeno in grandi
linee, le caratteristiche economico sociali del Chiapas, la struttura di
classe del Messico e con riferimenti al Chiapas, e la storia dell’esercito
zapatista. E’
operazione questa che ogni forza o corrente politica dovrebbe fare prima
di lanciarsi in entusiastici sostegni o in accidiose critiche, ma che
ben poche delle forze politiche impegnate sull’uno
o sull’altro fronte fanno. Da una parte troviamo il "frente
amplio" - che va dall’Autonomia
ai soliti organismi cattolici di sinistra, passando per una grande fetta
degli anarchici e da Rifondazione - incondizionatamente schierato al
fianco dell’EZLN,
come ieri era al fianco dei Sandinisti nicaraguesi o ai Vietcong di Ho
Chi Min. Dall’altra
alcuni raggruppamenti, anche appartenenti al campo politico proletario,
che pur sostenendo posizioni critiche in gran parte condivisibili, si
guardano bene dal fornirle di un supporto d’analisi,
a filo di marxismo, del fenomeno oggetto dei loro anatemi, che
ovviamente come tali rimangono impotenti. Il Chiapas grande
sconosciuto "Il censimento del 1910 rivela
che il 96,9 per cento dei contadini messicani erano senza terra e che l’1
per cento della popolazione possedeva il 96% delle terre" L’indipendenza
del Messico dalla madrepatria spagnola nel 1821 aveva rafforzato la
proprietà latifondistica e le forme di lavoro forzato e di servitù per
debiti che per secoli erano stati motivo di altalenanti decisioni della
corona spagnola. Le condizioni degli Indiani sino ad allora protetti -
si fa per dire - dai cattolici re, erano ovunque peggiorate. In seguito, "La progressiva
divisione delle terre delle comunità indigene (con le leggi di
alienazione dei beni di manomorta del 1856 e con quelle di
colonizzazione e sui terreni incolti) incrementò lo sviluppo della
grande proprietà e ridusse gli Indiani a contadini senza terra (peones)." Datano da allora le prime rivolte
degli Indiani. Nel Chiapas ci fu la ribellione chamula che pochi,
non a caso, ricordano. Era la rivolta immediata delle comunità indiane
alle leggi del ’56,
contro l' esproprio delle terre comunitarie, dunque. E’
in questa situazione che termina il "porfiriato", ovvero il
periodo di potere del presidente Porfirio Diaz. La sollevazione di
Chihuahua comandata da Pancho Villa porta alla elezione di Francisco
Madero in un clima di profonda agitazione operaia e contadina, nel quale
il leader contadino Emiliano Zapata proclama il Piano di Ayala del 1911,
che prevedeva non solo il ritorno ai contadini delle terre che erano
state tolte loro ma anche il prendere un terzo delle terre rimaste alle
grandi haciendas. Intermezzo zapatista Ma quale ritorno ai contadini? In
realtà il Piano era il tentativo di restaurazione delle tradizionali
strutture economico e sociali delle comunità indie. Nulla a che vedere
con nessuna forma di progressismo, dunque, tanto meno di socialismo. L’idea
che la "originale proposta" zapatista sia un possibile veicolo
di emancipazione può essere instillata solo in menti a digiuno di
qualunque metodologia e nozione storica, tanto quanto distanti da un
sano punto di vista di classe. Giudicare così il zapatismo è come
sostenere che il socialismo e il superamento del capitalismo consistono
nella riproposizione debitamente aggiornata nelle forme, dei modi di
produzione e delle formazioni sociali idrauliche pre-classiche (Egizia,
Cinese, Maya...). Le collettività raccolte attorno a un loro
rappresentante totemico (Faraone o Imperatore che sia, pur sempre
sacro), quale condizione di sopravvivenza nelle date condizioni
geo-economiche, lavoravano in "volontaria" schiavitù sotto le
caste teocratiche e burocratiche (nobiliari) al mantenimento delle quali
andava tutto il surplus della produzione rispetto ai miserrimi consumi
dei contadini che prestavano loro anche tutta la forza lavoro necessaria
ai servizi comunitari (dighe, arginamenti, strade) e ai servizi del
nobilato (dalla costruzione delle piramidi e palazzi al servizio alle
persone). Cosa ha a che vedere tutto questo con il socialismo che deve
seguire il capitalismo, giunto a questa decadente fase di sviluppo? Ma procediamo sulle linee storiche. I disordini politici e civili
continuano dopo la caduta di Porfirio Diaz, sino all’assassinio
di Zapata nel 1919 e all’ultima
sollevazione sotto il comando del generale Obregon che diviene
Presidente nel 1920. Nel ripercorrere - cosa che qui non facciamo per
ovvi motivi - le vicende politiche del decennio 1910-1920 quel che
risulta evidente è il profondo coinvolgimento delle masse contadine e
operaie, sotto la direzione di questo o quel politico o generale, da una
parte, e la regolarità delle sconfitte che gli uni e gli altri
subiscono nelle loro aspirazioni. Abbiamo detto della natura dello
zapatismo originario: non c’era evidentemente spazio
perché si potesse affermare. La storia raramente torna indietro e
tuttalpiù si tratta di un ritorno ad alcune forme che furono
all'origine del modo di produzione e della formazione sociale in essere,
mai a modi di produzione e formazioni sociali precedenti. La marcia è
ritmata dallo sviluppo dei mezzi di produzione e dal loro rapporto di
determinazione con la formazione sociale. Per quanto riguarda invece il
movimento operaio, siamo alle sue prime manifestazioni in Messico,
lontano ed estraneo alla già maturata esperienza della classe operaia
europea e ancora a digiuno degli ideali socialisti che in questa, per
quanto conculcati e traditi, si presentavano. Fu operazione
relativamente facile per Obregon e Carranza realizzare il patto con i
sindacati che nel 1915 portò alla formazione di battaglioni operai
anche mediante i quali i due sconfissero Villa. Bastò "accentuare gli aspetti
sociali" della lotta", promettendo la cogestione dello stato
da parte dei sindacati operai, da una parte, e annullando formalmente
gli espropri degli ejido (le terre comunitarie degli Indiani) posteriori
alle leggi del 1856. La nuova costituzione messicana del
1917 dichiarò inalienabili le terre degli ejidos. E’
del 1994 la modifica dell’articolo
21 della Costituzione che sanciva quel principio. Ed è anche da questa modifica che
parte la reazione neo-zapatista. Il Chiapas moderno Ma la realtà chiapaneca vuole che
le terre comunitarie siano, e ovviamente, quelle più disgraziate. L’esproprio
delle migliori era avvenuto ben prima delle famigerate leggi
post-indipendenza del 1856. D’altra
parte la grande proprietà fondiaria, sfruttatrice del lavoro in
affittanza e del bracciantato, ha sempre caratterizzato la regione del
Chiapas e rallentato i processi di modernizzazione capitalista. "A partire dagli anni ’40
le montagne aride degli Altos de Chiapas, divise dall’ipocrita riforma agraria di
Cardenas si convertono in perfetti bacini di riserva di mano d’opera
per i latifondi del Centro, della regione di Fraylesca e del Soconusco,
che di colpo non hanno più bisogno di trattenere e nutrire tutte le
bocche fuori stagione di raccolta perché queste bene o male
sopravvivono sulle terre comunitarie" D’altra
parte continua il fenomeno della espulsione degli Indiani dalle terre:
vuoi per debiti, vuoi per eccesso di manodopera "libera" sui
latifondi. Gli "expulsados" si dirigono massivamente verso il
Chiapas a partire dalla fine degli anni ’50 e
ben presto il governo li incita in questo senso. La foresta Lacandona
costituiva una sorta di valvola di sicurezza, lontana come era dai
centri del potere e dove le masse indigene e contadine potenzialmente
esplosive potevano essere messe al lavoro. "In qualche anno più di 150
mila indiani senza terra si installarono nella foresta e nelle montagne.
Come in ogni distribuzione capitalista della terra anche questa fu fatta
in maniera inegalitaria. I nuovi arrivati si ritrovarono sulle terre più
povere e non avrebbero mai avuto accesso alle valli fertili. Poco tempo
dopo, queste terre o furono abbandonate perché troppo povere, o di
nuovo espropriate (con la forza o legalmente). Il fatto che questi
contadini poveri fossero in maggioranza degli Indiani rese più facile l’accaparramento
delle terre da parte dei ricchi proprietari legati all’agroindustria. Si riunivano così le condizioni per
l’apparizione
di nuovi antagonismi sociali e la "valvola di sicurezza" si
trasformava in una bomba a scoppio ritardato. La decomposizione delle
antiche comunità indiane si accompagna alla creazione di un nuovo
contadiname povero composto di una popolazione mista (Indiani, maya o
no, e meticci)." "Già all’inizio
degli anni ’70 le vecchie comunità,
prima strutturate, lasciavano apparire gli effetti di un intenso
processo di differenziazione sociale interna che erodeva i loro
meccanismi di coesione e di difesa. I contadini senza terra e senza
lavoro cominciarono a concentrarsi nelle miserabili periferie (delle
città del Chiapas). All’inizio
degli anni Ottanta l’offerta
di mano d’opera è raddoppiata mentre,
nello stesso tempo, la politica di terra bruciata del governo di Rios
Mont nel Guatemala rigettava sul Chiapas più di 80 mila rifugiati maya
in fuga dal paese vicino e che sono venuti ad aggiungersi all’armata
di riserva da questa parte della frontiera" Gli Indiani espropriati erano spesso
marginalizzati: i proprietari preferivano rimpiazzarli con i lavoratori
guatemaltechi che vivevano in modo ancor più precario e spesso nell’illegalità. E’
qui evidente l’ulteriore modifica nella
composizione del contadiname povero in Chiapas e gli anarchici più seri
giustamente si chiedono: "Chi è indiano? Chi è messicano? chi è
guatemalteco? I devoti della causa zapatista restano stranamente
silenziosi sulla presenza di questa immigrazione. Che misure prevede l’EZLN
per risolvere il problema? Ed esiste (per loro) un ‘problema’?" Agli anni Ottanta la situazione
chiapaneca è a grandi linee la seguente: sebbene un terzo delle terre figuri
appartenente agli ejidos o alla piccola proprietà contadina, solo il
10% delle terre comunitarie sono coltivate collettivamente. L’80
per cento dei coltivatori degli ejidos sono obbligati a lavorare anche
nelle aziende dei grandi proprietari per sopravvivere (s’è già detto che le terre
comunitarie erano anche le più povere). E, come vedremo meglio in
seguito, le terre comunitarie stesse si sono trasformate di fatto in
terre della piccola proprietà. Grazie a questo processo di
impoverimento del contadiname, il Chiapas è oggi, con una popolazione
pari a poco meno del 4 per cento di quella complessiva messicana, il
maggiore esportatore di caffè, il terzo produttore nazionale di mais e
fra i primi tre stati messicani produttori di banane, tabacco e cacao. Struttura agraria Per comprendere la contraddizione
evidente fra una economia agraria fiorente e le condizioni di miseria
della gran massa della popolazione, anche contadina, occorre
evidentemente andare al di là della distribuzione quantitativa delle
terre chiapaneche. In Chiapas ci sono (dati del
1990/91) circa 179 mila produttori agricoli nel settore comunitario
(degli ejidos) l’11
per cento dei quali (19 mila 722) sono considerati commercialmente
"vitali", destinando al mercato il 90 per cento della loro
produzione. Sono quei produttori, spesso nuclei familiari, che conducono
in modo sostanzialmente privatistico porzioni di terre comunitarie
(abbiamo visto sopra che solo il 10 per cento degli ejidos è realmente
coltivato comunitariamente), e in modo evidentemente capitalisticamente
efficiente. Coltivano solo il 15 per cento delle
terre comunitarie. La Commissione Economica per l’America
Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite (ECLAC) attribuisce la vitalità
di questo strato a un più facile accesso al credito bancario e dunque
all’impiego
di trattori, fertilizzanti e pesticidi sulle loro terre. Molti di loro
poi impiegano stagionalmente e in alcuni casi permanentemente, lavoro
salariato. Va da sé che occupano le terre di miglior qualità e meglio
irrigate. Poi si trovano, nel medesimo settore
degli ejidos, i contadini "di sussistenza" che rappresentano
il 31 per cento della forza lavoro sugli ejidos coltivando il 27 per
cento delle terre comunitarie. Pur conducendo le terre formalmente
comunitarie anche questi in maniera privatistica, essi consumano gran
parte di ciò che producono e destinano al mercato mediamente solo un
terzo della produzione; e ciò rende loro meno di quanto necessario per
vivere. Gli altri lavoratori (58 per cento)
del settore ejido sono considerati produttori "diversificati",
nel senso che commercializzano una parte significativa della loro
produzione. Ma la loro stragrande maggioranza trae a mala pena i mezzi
per sopravvivere dalla terra, in quanto ricavano dal loro cosiddetto
surplus commercializzato (ovvero dalla parte di raccolto non
direttamente consumata) un reddito annuo di 300 dollari (e vale la pena
ricordare a questo proposito che le Nazioni Unite hanno stabilito a 3
dollari al giorno il minimo assoluto per la sopravvivenza in Messico).
Perché questa miseria? Perché più della metà di questi contadini
produce granturco e fagioli, cioè il cibo di base destinato al consumo
domestico o al mercato locale, che rende ben poco in termine di cassa. Se i coltivatori del settore ejido
producono quel che capitalisticamente si definisce un surplus economico
(cioè più di quanto consumano, facendo loro la fame o giù di lì), la
economia agricola chiapaneca è dominata dai produttori agricoli
privati. Il governo messicano e il suo ufficio statistico rifiutano di
fornire i dati relativi a questo settore e risultanti dal censimento del
1990. Tuttavia sono stati recentemente compiuti studi sul Soconosco che
è la regione del Chiapas con il settore privato più sviluppato. Il Soconosco occupa solo il 7 per
cento della superficie "agraria" del Chiapas, ma comprende il
18 per cento della sua popolazione. L’autore
dello studio osserva che "da una parte c’è
un sistema di agricoltura capitalistica fatto fondamentalmente di grandi
piantagioni per le colture rivolte al mercato internazionale, dall’altra
c’è
una agricoltura contadini di minifundia che producono mais e
alcuni pochi prodotti commerciali venduti sul mercato capitalista per la
semplice sussistenza". Le terre migliori sono naturalmente
impegnate dalle piantagioni: di banane, canna da zucchero, caffè cotone
e cacao per il mercato internazionale. Nelle stesse grandi aziende
vengono anche allevati su grande scala bovini per il mercato interno e
internazionale. Nel Soconusco le terre sono
approssimativamente divise a metà fra settore privato e settore
"sociale" e si verifica che sul primo troviamo solo 3 mila e
81 fattorie e piantagioni mentre sull’altro
faticano e stentano a campare 19 mila produttori. Ne risulta che
mediamente le "aziende" del settore sociale coltivano 11
ettari ciascuna mentre nel settore privato la media è di 81 ettari. Ma
al di là delle medie, sempre fuorvianti nelle realtà eterogenee, al
vertice del settore privato ci sono 144 proprietà di superfici
variabili fra i 500 e i mille ettari, mentre 109 superano i mille
ettari. Pensando di aver fornito un quadro
sufficientemente chiaro della struttura agraria oggi, possiamo
concludere che la struttura sociale del Chiapas risulta profondamente
sconvolta, rispetto agli anni 10 o 40. Proletarizzazione e
sotto-proletarizzazione Alla modifica del quadro rurale si
accompagna una urbanizzazione caotica e selvaggia delle città. Terre
comunitarie che non sono più tali e che, anche dove lo sono, non
sfamano chi le coltiva hanno espulso di fatto masse crescenti. Ciò si traduce in termini di
composizione sociale e di classe in un declassamento a sottoproletariato
di masse considerevoli di contadiname, indiano o no, con tutte le
conseguenze del caso. Diverse stratificazioni contadine, anche
fortemente intrecciate (coltivatori comunitari, contadini "a doppia
economia" perché anche salariati delle aziende capitaliste,
piccoli proprietari), da una parte, masse di sottoproletariato marginale
precariamente inurbato dall’altro.
Gli uni e gli altri classicamente senza speranza, senza programmi
propri. Ne risulta in qualche modo sconvolto
anche il tradizionale quadro di riferimento ideologico. In Messico, l’attaccamento
del contadiname povero alla terra era impregnato del rimpianto di un
passato comunitario indiano, alimentato come si è visto dall’eredità zapatista della
cosiddetta rivoluzione 1910-1919. Ma questo rimpianto e le connesse
aspirazioni svanivano parallelamente all’esproprio
delle terre comunitarie e dell’introduzione
del capitalismo nelle più sperdute campagne. Il tessuto comunitario, anche per
chi si ostinasse a considerarlo il motore di una possibile alleanza
naturale col proletariato, è stato distrutto e macinato dall’affermarsi
e raffinarsi del dominio totale del capitale che è passato dal
controllo del processo di produzione nel quale sfrutta la forza lavoro
al controllo della riproduzione della forza lavoro. E’
nelle nostre tesi che il capitalismo si è affermato nelle più sperdute
periferie sussumendo le formazioni sociali, senza omologarle nei loro
meccanismi alle formazioni metropolitane. E’
così che si spiega, senza indulgere alle scorciatoie fuorvianti del
terzomondismo, il fatto che il capitale domini anche laddove
sopravvivono forme di remunerazione del lavoro in natura, o rapporti
sociali di forma precapitalista. Ma potremmo aggiungere che il capitale
domina direttamente i meccanismi della riproduzione della forza lavoro,
anche quella remunerata in natura, attraverso la proposizione dei suoi
modelli, della sua cultura, del suo consumo. E’
un neo-riformista messicano a riconoscere che "Già negli anni '70
in Chiapas l'ideale di un Totzil era un cinturone con una grande fibbia
e una radio.",. Da cui: "Attraverso i mezzi di
comunicazione il capitalismo sta regolando lo sviluppo delle forme di
consumo, sta sostenendo il controllo di tutto il processo di
riproduzione della forza-lavoro." Nessun ritorno alla tradizione
auspicano le masse povere chiapaneche. Ma le condizioni della rivolta sono
lì riunite: miseria estrema di fronte al rutilante spettacolo dei
consumi capitalisti; apertura dei mercati con il Nafta e crescita della
disperazione delle masse contadine e sottoproletarie. Su questo materiale esplosivo, in
assenza della iniziativa di classe operaia, prosperano in loco l’Esercito
Zapatista di Liberazione Nazionale e il suo Fronte. Le classi in Messico Non disponendo di dati
aggiornatissimi non ci addentreremo in valutazioni quantitative,
peraltro sempre oggetto di controversie, ma fisseremo le caratteristiche
qualitative, sufficienti a definire il quadro generale di riferimento. Di più, sorvoleremo sulla
composizione di classe borghese, nelle sue diverse
stratificazioni/articolazioni: rentier della terra, imprenditori
agricoli, imprenditori industriali, rentier della finanza e speculatori,
borghesia di stato. Più importante è certamente
definire la composizione della base della piramide sociale. Abbiamo dunque visto crescere negli
ultimi decenni le masse in miseria, ai margini del mercato del lavoro e
delle merci, ridotte alle condizioni di sottoproletariato. Le masse marginalizzate A caratterizzare questi strati e a
valutarne l’importanza anche ai fini di
una strategia rivoluzionaria, bastano questi recentissimi dati che
traiamo dalla stampa quotidiana e periodica del Messico. Malnutrizione:
secondo il Segretariato per le relazioni esterne e altre agenzie
governative, fra il 70 e l’80
per cento dei bambini indiani soffre di malnutrizione (da La Jornada del
2-11-96) e causa un tasso di nascite sotto-peso di nove bambini su cento
(El eslabon mas debole" in El Norte - 18 ottobre 1997) Povertà:
il Segretariato per lo Sviluppo Sociale (già, esiste anche quello)
comunica che circa 20 milioni di messicani vivono nelle zone aride del
paese e che il 97,3 per cento di questi vivono al di sotto dei livelli
di sussistenza, in condizioni di sovraffollamento, e guadagnando meno di
un salario minimo (vale a dire meno di tre dollari a giorno). (La
Jornada del 21/10/96) 15 milioni di bambini vivono in
condizioni di povertà estrema più in generale, comprendendo
dunque le aree urbane il numero di persone che vivono in estrema povertà
è cresciuto dal 16,2 per cento della popolazione nel 1989 al 50,7 per
cento nel maggio del '96. Ciò significa che su 91 milioni di messicani,
50 milioni sono estremamente poveri. A fornire il dato è il centro di
analisi multidisciplinare della Università Nazionale Autonoma. (Reforma
del 6/9/96) Bande urbane:
Il Capo della Pubblica sicurezza del distretto federale dichiara a La
Jornada del 26/10/96 che Città del Messico ha circa 5 mila bande,
cinquecento delle quali considera molto pericolose. Il 18 ottobre lo
steso giornale dava notizia che nel corso di quest’anno
162 persone sono già state ammazzate a Ciudad Juarez, nello stato di
Chihuahua, in relazione agli scontri fra bande concorrenti nel controllo
del traffico di droga, di armi o di auto rubate. Lavoro infantile
Il 36 per cento dei più di tre milioni di lavoratori agricoli censiti
nel 1990 sono bambine e bambini fra i 7 e i 14 anni, prevalentemente di
origine india. Varie agenzie governative messicane
rivelano che ogni anno gli Stati Uniti deportano 30 mila migranti in
minore età. Il 70 per cento dei bimbi che passano sul territorio degli
SU o che vivono nelle strade delle città di frontiera sono
"autosufficienti" nel senso che non hanno nessuno che si
prenda cura di loro. I contadini Se negli anni ‘10
il contadiname sopravviveva, in condizioni di povertà estrema, ma
forniva il cibo necessario al Messico, oggi secondo il già citato
studio dell’ECLAC, il Messico importa fra
un quinto e un terzo dei beni alimentari di base per il consumo
domestico, mentre metà dei suoi contadini, che erano 24 milioni al
1989, "vivevano al di sotto della linea di povertà e 7 milioni
erano disperatamente poveri". E da allora la situazione è andata
peggiorando, per precipitare con l’entrata
in vigore del Nafta (Accordo di libero commercio del Nord America). Nei decenni che ci separano dall’entrata
in vigore della Costituzione (1917) sotto il dettato dell’articolo 27 i governi, a
partire specialmente da quello di Lazaro Cardenas negli anni ’30,
hanno realizzato più riforme agrarie con relativa re-distribuzione
delle terre e attribuzioni di terra agli ejidos. Senza ripercorrerle
tutte, basterà rilevarne le caratteristiche costanti: il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) che governa il paese dalla
fine della cosiddetta Rivoluzione ha sempre utilizzato quelle riforme
per legare a sé consistenti strati contadini, anche, se non
soprattutto, affidando ai cacicchi locali e ai suoi burocrati la
gestione dei fondi eventualmente in distribuzione e la amministrazione
locale della riforma, e alimentando così quel clientelismo e quella
corruttela tanto caratteristici dell’establishment
messicano; anche quando ha stanziato fondi consistenti per lo "sviluppo
agricolo", nominalmente in favore degli ejidos, il risultato è
sempre stato quello di dare una spinta alla differenziazione interna
alle comunità indiane, da una parte, e favorire di fatto le forme di
privatizzazione e le grandi proprietà fondiarie. Può
essere sintomatico in questo senso il percorso dell’ultima
riforma sotto gli auspici dell’articolo
27, fatta dal presidente Miguel de la Madrid nel 1983. Fra
il 1983 e il 1988 distribuì più terra di quanto non fosse stato fatto
nei trent’anni
precedenti. Ma... Delle 493 maggiori concessioni di terre, solo 27
andarono alle comunità contadine o agli ejidos legati alle
organizzazioni militanti dei contadini opposte al PRI. "In molti
casi la Confederacion Nacional Campesina (sindacato del PRI), sapendo
quali terre il governo stava per espropriare armò i contadini allineati
ad essa o usò la polizia per espellere con la violenza le
organizzazioni contadine indipendenti che già occupavano quelle
terre." Come
nelle precedenti riforme, i grandi proprietari che in qualche modo
venivano toccati dalla riforma agraria trattennero le terre migliori per
sé. Molti altri non venivano affatto toccati oppure ottenevano speciali
decreti di esenzione anche da qualunque futura espropriazione di terre.
Nel 1988 circa il 70 per cento degli allevamenti bovini erano
ufficialmente esenti dalla riforma. Badando
ai risultati macroeconomici, si ebbe, nel solo Chiapas una caduta della
produzione di granturco e di fagioli (rispettivamente del 20 e del 18
per cento) e letteralmente un boom nella produzione di soya, arachidi,
sorgo e tabacco, tutti per il mercato internazionale. Anche la quantità
di bestiame commercializzato salì del 400 per cento, fra il 1982 e il
1987. Ma ad aumentare drammaticamente ci fu anche l’importazione
di beni alimentari: sei miliardi di dollari all’anno
di importazioni di mais! Risultato
complessivo: nessuno sviluppo dell’agricoltura
comunitaria, anzi un suo ulteriore indebolimento, una crisi generale del
bilancio agricolo. La
ricetta era pronta: il neo-liberismo e il Nafta. Per
i piccoli coltivatori e i contadini senza terra messicani il Nafta
costituisce una mazzata da cui non si potranno mai riprendere. Pochi
dati che diamo schematicamente lo dimostrano in modo indubbio. Mais:
la produttività di questa coltura è in Messico mediamente di 1,7
tonnellate per ettaro; negli Stati Uniti è di sette tonnellate. Per
produrre una tonnellata di mais in Messico sono necessarie 17,8 giornate
di lavoro, mentre negli Stati Uniti la stessa tonnellata è prodotta con
un ora e mezza di lavoro vivo. E’
così escluso ogni possibile "vantaggio competitivo" dovuto al
costo del lavoro, per quanto basso sia. Fagioli:
il Messico produce mezza tonnellata per ettaro, gli Stati Uniti 1,6
tonnellate. Quanto
al lavoro vivo richiesto in Messico si tratta di 50,6 giornate per
tonnellata, negli USA basta poco più di mezza giornata. Granturco
e fagioli nordamericani invaderanno il mercato messicano, mettendo in
ginocchio l’agricoltura
già povera, anche quella di sussistenza: chi rimane a coltivare un
prodotto che gli costa sudore e sangue solo per mangiarlo quando lo
stesso prodotto è immediatamente disponibile sul mercato per la metà
di quello che costava prima? E’
previsto che altri tre milioni di famiglie, ovvero circa 15 milioni di
messicani saranno espulsi dai campi quando il Nafta sarà a regime
(certe barriere di protezione salvate dal governo Messicano cadranno con
il tempo), perché i piani e i sussidi alla conversione agricola
stabiliti dal governo (sistema Procampo) sono dagli osservatori seri
universalmente giudicati risibili. In realtà qui sussidi, e come al
solito, andranno a vantaggio delle grandi aziende capitalistiche che
convertiranno con i soldi dello stato le coltivazioni di mais in colture
di fragole, e serviranno tuttalpiù a ritardare l’abbandono
dei campi. La
composizione agraria dunque va rapidissimamente mutando nel senso della
totale sparizione degli ejidos (l’abolizione
della loro inalienabilità con la modifica dell’articolo
27 è il loro de-profundis); la sparizione o il sostanziale
ridimensionamento della piccola proprietà contadina (dove sopravvivrà
solo quella meno piccola, sufficientemente intrigata con il potere da
usufruire dei fondi del Procampo, ufficialmente 100 dollari per ettaro
all’anno);
la proletarizzazione di una quota di piccolo contadiname e la
marginalizzazione nei ghetti periferici del resto. L’immiserimento
ulteriore degli Indios, già in fondo alla scala dei poveri, crescerà e
andrà ad alimentare il già vastissimo sottoproletariato. Questa
è la prospettiva "in avanti" che offre il capitalismo; quella
proposta dagli zapatista va all’indietro
ed è dunque molto più utopica della pur ancora lontana prospettiva
rivoluzionaria comunista. A
vantaggio di questa sta scavando, come al solito, la vecchia talpa
capitalista. Abbiamo
visto le lotte "fratricide" che hanno opposto contadini a
contadini sulle linee dei diversi schieramenti clientar-politici. Il
superamento di queste contrapposizioni non sarà certo un processo
istantaneo, ma le loro materiali ragioni di esistenza vengono eliminate
dallo sviluppo stesso del capitale, nella sua veste neo-liberista. Sulla
terra rimangono i più forti in grado di convertire le produzioni e
rimanere sul mercato, gli altri sono già stati ed ancor più verranno
espulsi. Non c’è
più guerra fra i poveri, ma opposizione dei pochi meno poveri a fianco
degli strepitosamente ricchi ( i grandi hacienderos) agli estremamente
miseri. Fra
le tantissime parole che zapatisti e filo-zapatisti spendono per
esaltare la loro lotta risulta peraltro impossibile trovare qualunque
trattazione di questa realtà. L’unico riferimento è al fatto
che la presenza dell’EZLN
"è più localizzata fra la gioventù, le comunità indigene e le
organizzazioni dei poveri urbani, che nel movimento sindacale, nelle
organizzazioni contadine e nelle classi medie." Vedremo
più avanti come ciò mal si concilia con le richiesta dell’EZLN
in materia di riforma agraria. Gli
operai industriali Abbiamo
già accennato nella prima parte al fatto che i sindacati operai furono
sin dall’inizio
cooptati nella amministrazione politica del nuovo stato messicano uscito
dalla rivoluzione del 1910-1919 e furono anzi fra i principali artefici
della sconfitta di Pancho Villa. Essi entrano a far parte istituzionale
del PRI fin dalla sua formazione. Il
Partito Rivoluzionario Istituzionale è una originale riuscitissima,
finora, esperienza di corporativismo istituzionale. Il partito è
infatti costituito di tre settori (contadino, operaio e popolare) con l’esclusione
formale sin dagli anni Trenta, dei grandi capitalisti e grandi
proprietari terrieri. Che di fatto poi fossero gli interessi di questi
(gli interessi di conservazione del capitale) a dettare la linea
politica e di governo del PRI rientra nella ovvietà, ideologicamente
negata nelle forme costituzionali e organizzative, ma sempre
riemergente. Al
PRI non si aderiva finora individualmente ma attraverso le
organizzazioni di massa dei settori suddetti. Glioperai si ritrovano cioè
iscritti al Pri in quanto iscritti a un sindacato ufficiale. Ora
alla settantesima Assemblea Nazionale del PRI, tenutasi nel settembre 96
si sono sentite anche proposte di creare un quarto settore che
comprendesse il mondo degli affari. La proposta è stata formalmente
rigettata, ma è evidente che la tendenza va nel senso di attenuare
progressivamente l’enfasi
sul lavoro e aumentare l’attenzione
verso il mondo degli affari. Non foss’altro
che per raccogliere direttamente quattrini, visto il processo di
privatizzazioni in corso e la correlata pressione ideologica contro l’utilizzo di partito dei fondi
statali... Ma
a questa tendenza vanno opponendosi fortemente i sindacati, e in
particolare la più forte Confederazione dei Lavoratori Messicani (CTM),
che alla suddetta assemblea nazionale hanno avanzato la pretesa che al
"settore operaio" vale a dire a loro, venga riservato il 60
per cento delle candidature federali. Temono evidentemente che la
ventata mondiale di neo-liberismo - che, sebbene non ostacolata nei suoi
contenuti sostanziali e anti-operai dai sindacati, sta indebolendo
ovunque il ruolo del sindacato, malvisto da tutte le parti -
marginalizzi anche loro, erodendo le grandi quote di potere
amministrativo che sono abituati a gestire. Al
di là delle polemiche interne al Pri fra sindacalisti e altri burocrati
del partito, la presa dei sindacati ufficiali sui lavoratori sta sempre
più somigliando a quella dei sindacati italiani sui lavoratori di qui:
milioni di iscritti (qui sono fortemente in calo) che però non si
sentono rappresentati. E’
il riflesso delle mutazioni intervenute anche nella composizione
operaia. Fino a tutti gli anni ’80
la classe operaia era stratificata, in base ai livelli salariali, grosso
modo in tre fasce. I lavoratori presso le multinazionali statunitensi, da lungo tempo
impiantate in Messico, come in altri paesi della America Latina. Qui a
livelli salariali relativamente alti (o addirittura altissimi rispetto
alla fascia inferiore) si accompagnava una serie di "benefit"
in forma di accesso agli spacci aziendali e servizi quali quelli
sanitari, di alloggiamento, di trasporto. I lavoratori delle grandi imprese statali (dalla petrolifera Pemex, all’industria
idroelettrica, ai diversi servizi). Qui i salari si attestavano poco al
di sopra di quelli della piccola industria domestica e dell’artigianato, ma con la
possibilità di fruire di tutti i vantaggi del corporativismo di cui
sopra. La restante parte dei lavoratori nella piccola e media industria
domestica e nei servizi privati, senza alcun benefit e con salari
pressoché da fame. Se
negli anni 80 il salario medio operaio si attestava a un settimo di
quello medio statunitense,
si può ben comprendere quanto fosse basso quello del gradino inferiore
della scala messicana. In
queste condizioni l’unità della classe operaia
sul terreno rivendicativo, e appena agli inizi della fase di crisi del
ciclo a livello mondiale, era una chimera. Ed è questa la ragione di
fondo per la quale la sinistra radicale (borghese) sudamericana si è
sempre rifiutata di vedere nella classe operaia il motore della
rivoluzione, che loro vedevano invece possibile attraverso l’incendio
appiccabile dai fuochi di guerriglia contadina. A
metà circa degli anni ’80 la
crisi globale comincia a farsi sentire molto pesantemente in Messico.
Esistono specificità legate al settore petrolifero oltre che alla forte
componente di capitalismo di stato propria del Messico, ma come in tutte
le periferie, il complesso industriale locale inizia a risentire
fortemente della ristrutturazione tecnologica avvenuta nelle metropoli.
Nei paesi africani e in molti paesi del Sud America la ristrutturazione
nelle metropoli ha significato la cancellazione o quasi degli apparati
industriali nazionali. In Messico l’industria
poteva reggere alla sola condizione che i salari si abbassassero, non
importa se erano già miseri. Né va sottovalutata l’assenza
di regole e controlli per la sicurezza del lavoro e la protezione
ambientale. Le nubi più o meno tossiche sollevatesi il 20 febbraio ’96 a Città del Messico, che
è già coperta di quella enorme nube tossica che è la sua atmosfera,
hanno sollevato (meglio dire appena scostato) il coperchio di un vero
inferno dove solo a Città del Messico da 3 mila 500 a 5 mila industrie
trattano sostanze tossiche senza alcun controllo e senza neppur essere
censite. Anche
le aziende delle multinazionali, più avanzate sul piano tecnologico
ovvero a più elevata capitalizzazione fissa, sarebbero rimaste nel
paese solo se i salari fossero stati raffreddati. Ebbene
- e secondo la stessa Confederazione dei Lavoratori Messicani - il
potere di acquisto dei salari messicani è sceso di quasi il 50 per
cento negli ultimi 9 anni e precisamente da quando si è aperta la serie
di "pactos" (ovviamente per il lavoro, per l’economia
nazionale, eccetera) fra governo padroni e sindacati ufficiali. Nel
periodo piu breve, fra il Dicembre del 1994 e l'agosto 1997 il potere di
acquisto dei salari è sceso del 24,66 per cento secondo l'INEGI
(l'Istituto nazionale di statistica). (El
Financero, 28 Ottobre 1997). L’ultimo
"patto per la crescita" è del 26 ottobre 1996. Il governo le
maggiori associazioni industriali e i sindacati si sono accordati per un
aumento del salario minimo del 17%. Contemporaneamente sono aumentate la
benzina del 22,13 per cento e l’energia
elettrica del 14,4 per cento. Anche
quest’ultimo patto, che è il
diciassettesimo della serie iniziata dieci anni fa, è teso ad attrarre
investimenti nel settore industriale sia dall’interno
che, soprattutto dall’estero. E’
in queste condizioni che si assiste dal 1992 a una robusta crescita di
manifatture industriali di assemblaggio, famose in Messico come "maquiladoras",
sulla o nei pressi della frontiera con gli Stati Uniti. Molte imprese e
di molti settori industriali (dal tessile al meccanico) impiantano li le
officine per l’assemblaggio
di prodotti i cui componenti possono venire importati da fuori (gli Usa
o addirittura la Malaysia) o prodotti lì. L'
INEGI parla di una crescita dell’occupazione
nel settore manifatturiero nell’Agosto
1996 del 4,7 per cento rispetto all’agosto
95 e di un ulteriore 5,5 per cento all'agosto '97. Conclusioni:
La crisi di ciclo del capitale ha fatto pulizia delle ragioni materiali
delle divisioni in seno al proletariato, che avevano dato modo ai vecchi
radical riformisti guerriglieri di immaginare nel contadino il nuovo
soggetto rivoluzionario. Se prima l’aristocrazia
operaia messicana poteva ritenere di aver qualcosa da perdere nel
solidarizzare con le masse del proletariato agricolo (e si badi bene,
non era neppure al proletariato agricolo delle piantagioni che puntavano
i guerriglieri, ma proprio ai contadini classici, quantunque poveri) -
ora anche gli strati una volta "privilegiati" non son più
tali, o perlomeno le distanze si son di molto ravvicinate. La
classe operaia messicana, tutta, sconta per intero il suo vendere forza
lavoro in un paese periferico. Il suo salario da fame funge da strumento
di ricatto verso il salario metropolitano, che segue la medesima
tendenza al ribasso; ma è anzitutto il motore di un possibile
ritrovamento dell’unità.
Sul terreno della lotta di classe. E’
questa cosa che non interessa minimamente agli zapatisti, né ai loro
seguaci catto-riformisti nel mondo. L’EZLN
orfano spaesato del maoismo Checché
ne pensino gli entusiasti seguaci dell’esercito
zapatista (siano essi i radical-chic, i più ruspanti autonomi o i
delicati "cattolici di sinistra") la storia dei movimenti
politici messicani indica chiaramente nell’EZLN l’organizzazione
armata di una organizzazione politica clandestina di dirette ascendenze
maoiste. Come
osservano gli autori di Au-delà des passe-montagnes du Sud-Est
mexicain, "Oggi non è facile stabilire un legame chiaro e
lineare fra il periodo di insediamento di questa organizzazione
(Politica Popular) e la nascita dell’EZLN.
Ciò che è sicuro è l’esistenza
di questo legame". Lo
stesso sub-comandante Marco avrebbe fatto parte di una delle ultime
brigate maoiste, rifugiatesi nel Chiapas, fra la fine degli anni’70
e i primi ’80. La
miserevole fine dell’Urss e
la ancor più miserevole fine della Grande Rivoluzione Culturale
Proletaria cinese, hanno certamente pesato nel riassetto ideologico
politico di quella e di altre organizzazioni maoiste. Proseguiva intanto
selvaggia la repressione di esercito e truppe mercenarie al servizio dei
grandi proprietari terrieri, sotto i colpi della quale sono spariti
molti militanti. I sopravvissuti si sono evidentemente riorganizzati
rivedendo alcune concezioni politiche e tattiche alla luce delle
condizioni locali. Prima
l’integrazione
nelle comunità indigene, utilizzando a tale scopo anche i loro legami
con la "chiesa indigena"; poi la creazione di organizzazioni
sindacali contadine. La trasformazione nel ’91
della Alleanza indipendente contadina "Emiliano Zapata" in
organizzazione nazionale, segna il relativo successo di quella tattica. E’
evidente che una organizzazione esiste ancora nelle articolate forme fra
le quali si trova l’EZLN. Al
di là della retorica poetica del leader mascherato sulla democrazia, -
organica, verrebbe da dire - delle assemblee comunitarie del Chiapas, è
evidente nella struttura e intestazione dei diversi comunicati e
documenti l’esistenza
di un Comité Clandestino Revolucionario Indígena, al cui
interno c’è la
Comandancia General del Ejército Zapatista de Liberación Nacional,
vale a dire Marcos, con Tacho e compagni. Cosa
è rimasto del vecchio maoismo? A giudicare dai documenti noti, solo un
sentimentale riferimento all’accerchiamento
della città dalla campagna, che qui prende la forma di pressione dalla
comunità indigene come principale motore della riforma dello stato
messicano. Se
in un primo tempo i vertici zapatisti hanno pensato alla scalata del
potere nazionale a partire dal solido insediamento nel Chiapas, hanno
presto e rapidamente cambiato idea: troppo distanti e isolati dal centro
per puntare da lì a una sua conquista. Meglio accumulare le forze a
scala nazionale e far cadere il potere sotto la spinta congiunta di
tutte le comunità indie nelle diverse regioni del Messico. Ma
se il vecchio maoismo poteva prospettare il socialismo, ovvero il
capitalismo di stato sotto la amministrazione di un "potente
Partito comunista" nel quale sarebbero confluite le masse contadine
e proletarie, oggi quella prospettiva non è più praticabile: ne
riderebbero gli stessi ex-maoisti. Cosa
prospettare allora? Pace, libertà. dignità, giustizia e democrazia. Valori
sani, eterni (vale a dire anche un po’
vecchiotti) che possono piacere a tutti: anime belle del cattolicesimo e
frementi signore radical-chic, soggettività antagoniste e terzomondisti. E
su chi puntare? Le comunità indigene come base operativa e piazzeforti
logistiche, la società civile come leva del cambiamento. Davvero
le affinità originali con i fratelli peruviani di Sendero Luminoso si
sono perse. La
piattaforma politica dell’EZLN Chi
volesse cercare un qualunque documento che seppur vagamente somiglia a
una piattaforma programmatica dell'ELZN o dei suoi mentori clandestini
impiegherebbe tempo ed energie invano: un simile documento semplicemente
non esiste. Le
posizioni e le prospettive strategiche degli zapatisti devono essere
dedotte dai comunicati, proclami e lettere varie di Marcos e dei suoi
attendenti. Iniziamo
con l'ultimo contributo diretto di Marcos - pubblicato sulla catena
Internazionale di Le Monde Diplomatique e in Italia da Il
Manifesto in opuscolo a sé - titolato: "La quarta guerra
mondiale è già cominciata". Prescindiamo ovviamente, dalle
ovvie sciocchezze neo-riformistiche dei presentatori (Gianfranco Bettin
e Marco Revelli) sulle quali avremo modo di tornare, per seguire
l'"autonomo" pensiero dello stesso subcomandante Marcos. Le
ultime uscite del Subcomandante La
prima tesi, che si traduce subito anche in chiave di interpretazione del
testo e delle posizioni politiche, è la seguente. La Terza Guerra
Mondiale si sarebbe combattuta fra i due campi, capitalista e
socialista, con la vittoria del primo. La
originale tesi stalinista secondo cui l'URSS e la Cina erano paesi -
quantunque ultimamente legati da fraterna inimicizia - in cui si era
realizzato il socialismo, torna ovviamente in Marcos e nell'EZLN, come
nei loro sostenitori in giro per il mondo. E'
la forma e la sostanza dell'ideologia borghese applicata alla storia
recente ed è ciò che sostengono tutti: dalla estrema destra alla
estrema sinistra borghesi. Per tutti è punto di partenza di
elaborazioni diverse quanto sono diversi i cosiddetti orientamenti
politici ovvero gli specifici interessi di frazioni di classe borghese
ai quali tali orientamenti obbediscono. Abbiamo così, a destra, la
conclusione che il socialismo è, nella migliore delle ipotesi una
utopia, e che il capitalismo è quanto di meglio la società abbia
potuto partorire in tutta la sua storia (ancor meglio se è capitalismo
"liberista"); a sinistra, invece, si conclude che la via
seguita in passato per migliorare la società (quella della lotta di
classe, dello scontro vinto il quale si apre la strada ad un nuovo modo
di produrre e a una nuova formazione sociale, il comunismo) è sbagliata
- visto che ha fallito - e che bisogna allora cercare nuove strade,
nuovi soggetti e nuovi obiettivi, per fermare la marcia alla barbarie
che, si riconosce, il capitalismo ha accelerato. Abbiamo
sempre definito lo stalinismo e la sua ideologia ala di estrema sinistra
dello schieramento e dell'ideologia borghese, attestata sulla difesa del
modello di capitalismo di stato rappresentato dalla Unione Sovietica e
dalla Cina ed esportato nei paesi satelliti. Al
fallimento di quel modello, i suoi difensori, anche i più ostinati, si
sono divisi: da una parte i pervicaci nostalgici, che ancora vedono in
quello il modello da perseguire, dall'altra i più "raffinati"
transfughi. A loro volta questi si presentano in modo affatto
disomogeneo e sparso: c'è chi, presa la rincorsa è finito in braccio
alla destra borghese (quella del "ciò che esiste ora è bello e
meritevole di difesa") e sono i lacchè Deaglio, Rinaldi, o Liguori
di tutto il mondo; e quelli che per rimanere a sinistra si inventano
strade e obiettivi che, detti nuovi, sono riedizione di vecchie idiozie
già demolite più di un secolo fa dal movimento marxista. Fra questi si
collocano tanto gli ex-maoisti alla Marcos, quanto i vecchi "nuovi
sinistri" alla Rossanda e alla Revelli. Va da sé che dichiarare
finita la lotta di classe significa oggettivamente dichiarare eterno il
capitale, nonostante soggettivamente qualcuno creda di no perché
rivaluta idee e percorsi già dimostratisi fallimentari. C'è
una intima coerenza nel percorso dell'ex-maoista Marcos, e dei suoi
simili: questo mondo così com'è non ci piace, fa schifo, e lo dobbiamo
cambiare; si tratta di trovare i soggetti sociali capaci del cambiamento
e gli obiettivi da perseguire. La
ricerca non è facile, evidentemente, se la seconda domanda non ha
ancora trovato risposta presso Marcos, né presso i cosiddetti marxisti
autonomi che lo sostengono. Il
citato volumetto di Marcos risponde alla prima domanda (quali i soggetti
del cambiamento?) alla fine; alla fine di un percorso
"analitico" che è condivisibile, quantomeno nella denuncia
dei guasti del moderno capitalismo. Ma prima di inoltrarci è bene fare
il punto su questa questione della Terza e Quarta guerra mondiale. Guerra
mondiale? Qui
Marcos gioca un po' con le parole e, come sempre succede in questi casi,
confonde un poco le acque. "La
globalizzazione moderna, il neoliberismo come sistema mondiale, deve
essere intesa come una nuova guerra di conquista di territori La fine
della III Guerra Mondiale o «Guerra Fredda», non significa che il
mondo abbia superato il bipolarismo...." Scambiare,
anche se letterariamente, una fase della dinamica capitalista con la
manifestazione massima del suo collasso che è appunto la guerra è
operazione forse funzionale all'inquadramento, sempre sul terreno
letterario, dei guasti che quella fase del capitale comporta, ma
completamente errata sul terreno analitico poiché equivale a dire che
il capitalismo è sempre guerra. E anche questo è "letterariamente"
vero, ma non serve per nulla a criticare la dinamica capitalista in
funzione di un suo superamento. Di più si rischia di cadere in
gravissimi errori che andranno a confondere definitivamente le idee. E
nel rischio Marcos incorre poche righe più in là quando scrive: "Nel
mondo del Dopoguerra Freddo vasti territori, ricchezze e, soprattutto
forza lavoro qualificata, aspettavano un nuovo padrone... Ma
uno solo è il posto di padrone del mondo, e diversi sono gli aspiranti
a diventarlo. E per ottenerlo si dispiega altra guerra, che questa volta
oppone coloro che si erano autonominati «impero del bene»." Qui,
è implicito il concetto che appunto la Guerra e cominciata e si
concluderà con la conquista da parte di qualcuno del posto di padrone
del mondo. Questo qualcuno, si legge subito dopo, sarà uno dei centri
finanziari tra i quali si combatte la quarta guerra mondiale, "con
scenari totali e con una intensità acuta e costante". Torna
qui di soppiatto la vecchia tesi, battuta da Lenin, del
super-imperialismo e, peggio, si ipotizza che ci si arrivi senza lo
scontro militare diretto fra le metropoli. Le
149 guerre locali combattute in tutto il mondo dalla fine della II
Guerra mondiale, i morti per fame che quotidianamente la dinamica
capitalista lascia sul terreno, gli scombussolamenti degli assetti
politico-statuali di intere nazioni e gli altri orrori che si presentano
sul pianeta fanno identificare dal Subcomandante lo scenario presente
con quello della guerra. E la guerra reale, che nelle guerre commerciali
e finanziarie si prepara, sfuma. Ma
ciò che emerge nel quadro tracciato da Marcos (o meglio nelle tessere
che l'autore descrive e che dovrebbero comporre il quadro) è l'assenza
di ogni e qualunque riferimento di classe, evidentemente ritenuto
decaduto e reso obsoleto dalla "fine del socialismo". Non sono
più le classi i soggetti della storia ed il soggetto... sfuma. Nella
sesta "tessera", definita "La megapolitica e i
nani", si tratta appunto della politica mondiale "che sa di
poter esercitare meglio il suo potere e creare le condizioni migliori
per la sua propria riproduzione, sulle rovine degli stati
nazionali". Ma il soggetto della megapolitica evapora. L'insieme di
interessi e di uomini che persegue le condannate politiche neoliberiste
non è identificato e così la megapolitica appare una entità
metafisica con tanto di proprio punto di vista. "Dal
punto di vista della megapolitica le politiche nazionali sono cose per
nani che devono piegarsi ai diktat del gigante finanziario. E così sarà
fin che i nani non si ribelleranno" Nazionalismo Obietterà
il lettore che qui il soggetto è identificato nel gigante finanziario.
Ma, insistiamo, chi rappresenta il gigante finanziario? visto che perché
una politica si esprima occorre che qualche insieme di uomini con
precisi interessi la esprima. La
domanda non è oziosa come qualche sciocco maligno potrebbe pensare. Una
seria analisi del gigante finanziario e quindi anche degli uomini e
interessi che lo conformano, porterebbe a scoprire che questi si trovano
anche fra i presunti nani, quei nani che dovrebbero ribellarsi e
riaffermare le politiche nazionali (e qui siamo al cuore del vero
Marcos-pensiero, il nazionalismo). Citando
da Le Monde Diplomatique, che non fa mistero delle sue simpatie
zapatiste, "...les capitaux d'origine mexicaine déposés aux Etats-Unis atteignaient, à la fin de 1995, 24,6 milliards de dollars, soit exactement deux fois plus qu'à la fin de 1994" (i capitali d'origine messicana depositati negli stati uniti raggiungono alla fine del 1995 24,6 miliardi di dollari, vale a dire esattamente il doppio rispetto a fine '94). Questi
capitali d'origine messicana sono posseduti, gestiti e debitamente
distribuiti sui mercati finanziari internazionali da quei signori
messicani che confrormano la borghesia messicana, sorella di classe
della borghesia internazionale e nemica acerrima del proletariato
messicano come del proletariato internazionale. Ma tutto questo nei
discorsi di Marcos e dei suoi seguaci. Sfuma, scompare, viene rifiutato.
La ragione è sempre quella: nella lotta fra capitalismo e socialismo
(quello russo o cinese) il capitalismo ha vinto, e dunque il modello
della lotta di classe non vale più. Si
rientra dunque, di soppiatto o al suon di tamburi e trombe - non conta,
nell'ideologia (in senso proprio, dunque borghese). E sul terreno
dell'ideologia, la conclusione del "ragionamento" puo'
benissimo essere quella del nazionalismo. Stabilito
che le attuali dinamiche economiche politiche cozzano con la
sopravvivenza delle forme statual-nazionali delle fasi precedenti del
capitale, o si punta al superamento di quelle stesse dinamiche, con i
soggetti e gli obiettivi adeguati (proletariato internazionale,
rivoluzione internazionale e comunismo) e si va avanti, oppure si è
costretti a scegliere fra le due opzioni: parteggiare per la
globalizzazione o difendere l'autonomia delle suddette forme
statual-nazionali, e si va col capitale o addirittura all'indietro. Marcos
e l'Ezln finiscono con l'attestarsi proprio con il nazionalismo. "...gli
zapatisti pensano che, in Messico - attenzione in Messico - (lo
sottolinea lui, ndr) il recupero e la difesa della sovranità nazionale
sia parte di una rivoluzione antineoliberista. Paradossalmente, l'Ezln
viene acvcusato di volere la frammentazione della nazionale messicana.La
realtà è che i soli che hanno parlato di separatismo sono gli
imprenditori dello stato di Tabasco ricco di petrolio e i deputati
federali chiapanechi che appartengono al PRI (...). Gli zapatisti
pensano che sia necessaria la difesa dello Stato nazionale di fronte
alla globalizzazione...". Più
chiaro di così.... Abbiamo
dunque un gruppo guerrigliero nazionalista che si batte contro le
dinamiche attuali del capitalismo difendendo... quel che c'era prima, o
si pensa ci fosse prima. E' certo che se c'è qualcosa di rivoluzionato
è il concetto stesso di rivoluzione. I
soggetti Alla
conclusione del documento Marcos ci dice quali sono i soggetti del
cambiamento, o quantomeno i soggetti sui quali si fondano le speranze di
sopravvivenza dell'umanità: "Se
l'umanità ha ancora speranza di sopravvivere, di diventare migliore,
queste speranze sono nelle sacche formate dagli esclusi, da quelli in
sovrannumero, da quelli che si possono gettare via." Il resto
è poesia. Non dice Marcos, in questo testo, come faranno gli esclusi a
rendere migliore il mondo. Né emerge con chiarezza dagli altri
documenti. Quel
che si può arguire (oltre che dai fatti della politica) è negli altri
documenti più propriamente politici dell'Ezln. Ci
sono anche storie dello zapatismo, che raccontano delle tre fasi
attraversate dal movimento e dalla politica dell'Ezln. In
tutti i documenti ciò che emerge con prepotenza è il riferimento
alla... società civile. La
società civile Ora
la storiella che la società civile possa rappresentare come tale il
motore dei mutamenti negli assetti economico-sociali del mondo è
vecchia quanto è vecchia la ideologa borghese, che dai suoi esordi ha
mascherato dietro questa finzione (o concetto giustappunto ideologico)
la realtà della divisione in classi della società e della sua propria
dominazione sulla società medesima. Che
cosa è la società civile? E' la cittadinanza indistinta, fatta di
operai, impiegati e bottegai, liberi professionisti, artigiani e pony
express, studenti, insegnanti e piccoli imprenditori. E' l'insieme cioè
dei cittadini che una volta ogni tanto (od ogni poco) sono chiamati a
eleggere i loro rappresentanti politici (nelle mtropoli ridotti
anch'essi a contar poco più che nulla) e quotidianamente vivono (nella
rispettiva posizione) la realtà dei rapporti di produzione e
dell'assetto sociale dati. Nella vita quotidiana dei cittadini, le
urgenze e i problemi della normalità, della sopravvivenza,
dell'adattamento seguono dinamiche diverse, quanto sono diversi i
"vissuti" e i "sentire" dei cittadini stessi. Spesso
i modi d'essere e i sentimenti dei cittadini si scontrano con le norme
(sia legislative che etiche) che la formazione sociale stessa sta in
quel momento seguendo, o con i comportamenti degli "organi
superiori" (governo, chiesa, organi vari dello stato). E' così che
nascono - quando comuni modi d'essere e di sentire i problemi della
quotidianità e del quotidiano rapporto col Potere, si riconoscono e si
uniscono, i grandi movimenti civili che hanno caratterizzato molti
periodi delle formazioni sociali borghesi metropolitane, che tuttora si
verificano e continueranno a verificarsi. I
movimenti per il divorzio, l'aborto, la pace, sono gli esempi più
significativi, fra i molti possibili. Talvolta,
o addirittura spesso, i movimenti civili risultano alla fine vincenti
sui loro obiettivi specifici. Quando si tratta di aggiornare il senso
comune e, prima ancora, le norme giuridiche e i comportamenti repressivi
dello Stato, alle nuove reali dinamiche. civili appunto determinatesi
nella formazione sociale, la probabilità di vittoria del movimento
civile che va in quel senso è direttamenmte proporzionale alla portata
del movimento stesso. Ma quando il movimento civile punta come tale a
obiettivi che in qualche modo interferiscono con le dinamiche più
intime e determinate del capitalismo, ovvero quando cozzano con le
fondamenta stesse della formazione sociale borghese, non possono che
fallire: in genere estinguendosi nel momento stesso in cui emerge
l'inconciliabilità fra la il capitale e l'ggetto del movimento, Le
vicende del movimento pacifista, che ha furoreggiato per anni anche in
Italia, con centinaia di migliaia di cittadini in piazza, si è
letteralmente squagliato di fronte alla Guerra del Golfo e alla imprese
imperialistiche della mini-potenza italiana in giro per il "suo
mondo": Somalia, Libano, Albania. Chi ancora piange la dipartita
del movimento insiste nell'errore di credere che una qualche funzione
tale movimento la potesse avere. Ma
quale è l'ipotesi sulla quale gli zapatisti e i loro seguaci fondano il
loro riferimento alla società civile? Ebbene,
letti tutti i documenti possibili, la conclusione è sempre una e ben
sintetizzata ed esemplificata da quanto segue: "Il
governo messicano, le forze politiche, e anche la società civile, hanno
l'opportunità di fare del Chiapas un laboratorio per la transizione
pacifica verso una democrazia plurale e rispettosa della realtà
multietnica del paese (sottolineatura nostra, ndr), o di permettere
che si converta nello scenario in cui si compirà un genocidio contro la
sua popolazione indigena" E
più recentemente: "Seguiremos
luchando junto a todos por que todos los Méxicos de México tengan: Democracia!
Libertad! Justicia!"
(Continueremo a lottare perché tutti i Messico del Messico ottengano:
Democrazia, Libertà, Giustizia) In
sostanza, un programma di riforma dello stato messicano, sul terreno di
un più spinto nazionalismo svincolato dai tentacoli strangolanti (per
proletari e contadini, non certo per la borghesia messicana) del NAFTA e
nel senso di una sua democratizzazione, identificabile con la fine del
monopolio del potere da parte del PRI. E
allora, in questo senso, il "soggetto" è adeguato: la società
civile, se adeguatamente mobilitata, e anche le organizzazioni sociali e
politiche, possono rendersi capaci di tanto cambiamento. (Los
maestros de esta lección de historia son los trabajadores del campo y
de la ciudad, los indígenas, las organizaciones sociales y políticas,
los niños, las mujeres, los jóvenes, los ancianos, los homosexuales y
lesbianas, todos los mexicanos y mexicanas.) Qualche
conclusione a)
L'Ezln chiapaneco è di fatto, e al di là dunque delle dichiarazioni
retoriche in contrario, una forza politica che - indipendentemente
dall'essere interessata a una futura gestione del potere - mira a
riformare gli assetti e gli equilibri del potere borghese in Messico e
che a questo obiettivo deve necessariamente piegare le tattiche
contingenti. Le tre "virate" sinora verificatesi e da altri
raccontate ne stanno già preparando una quarta, con lo stabilimento di
relazioni più strette col potere centrale per isolare e combattere gli
estremismi (per esempio dell'ERP) e soprattutto i rischi di una virata
classista del movimento proletario in Chiapas e in tutto il Messico. Il
Comitato clandestino rivoluzionario, di cui apparentemente l'Ezln è uno
strumento, tornerà alla luce o preferirà rimaner nell'ambra a celare i
suoi connotati di vecchie scarpe maoiste? b)
E' dunque prevedibile un progressivo "imborghesimento" degli
zapatisti che, se lascerà di nuovo orfani i perenni cercatori di miti
da rincorrere (prima erano i sandinisti nicaraguagni, ma prima ancora...
i Vietcong), tenderà a rinnovare e rendere più dinamico il quadro
politico messicano c)
si stringeranno i rapporti con la parte "militante" della
chiesa cattolica (significativi in questo senso i messaggi di solidarietà
nei confronti del personale vescovile di di San Cristóbal de Las Casas,
Samuel Ruiz García e di Don Raúl Vera López, che il 4 novembre hanno
subito un attentato). Nulla di strano: come abbiamo visto sopra è
tradizionale di quella parte dell'ex movimento maoista il praticare la
chiesa e i preti. d)
il proletariato messicano resta ancora senza un referente politico
sufficientemente radicato, sebbene stia già subendo un processo di
ricomposizione sul basso, con la fine tendenziale delle vecchie
stratificazioni e graduazioni di "privilegi" e la
generalizzazione dello stato di "maquiladores". E quel che è
più grave è che alcuni pretesi rivoluzionari là presenti manco si
accorgono di quel che sta succedendo. Mauro
jr. Stefanini Tratto dal sito di "Battaglia Comunista" |