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APPENDICE II°



Racconti e Tradizioni orali




Vita della Santa Martire Anatolia
(Da un racconto di Vincenzo Rubeis, mio zio - 19/03/1986)

Sant’Anatolia era figlia di un ricco di Subiaco che la voleva far sposare con alcuni conti o principi. Sant’Anatolia invece aveva giurato di rimanere casta e pura e soprattutto Vergine per Cristo, e così decise di darsi alla vita Cristiana; il padre allora la mise dentro una casettina con moltissimi serpenti per vendicarsi ed ucciderla; ma ella, quando dopo tante ore fu tirata fuori da questa casa, aveva tutte queste bestie attorcigliate intorno al corpo, e per miracolo nessuna l’aveva morsicata. A questo punto S. Anatolia scappò dal padre cioè da Subiaco ma quest’ultimo non si accontentò della prima prova e gli mandò due piccoli eserciti di uomini per riprenderla o ucciderla. Quando questi eserciti l’ebbero accerchiata, S.Anatolia fece un altro miracolo e cioè, disse alle nuvole di scendere sopra di lei e dell’esercito di modo che nessuno la poteva vedere; A quel punto da una parte e dall’altra i due eserciti fecero fuoco e si uccisero a vicenda. S. Anatolia andò allora a Tora. Lì incontrò due cacciatori di Rosciolo che le chiesero chi era e cosa stava facendo lì in quella valle. Allora S.Anatolia rispose loro: Sulla terra in cui spirerò, molte grazie io farò". Ella non disse più nulla ma, rotta dalle lunghe fatiche e tormenti, morì. La Santa spirò proprio in mezzo a degli spini, onde fu difficile per i due di Rosciolo riprenderne il corpo. Comunque con molta fatica presero il suo corpo e lo riportarono dal padre a Subiaco. Ma, queste sono le ultime parole di mio zio: a S. Anatolia in Tora, dov’è morta, essa fa molte grazie, mentre a Subiaco ella non farà mai nessuna grazia.

Distruzione di Tora, invasione degli zingari e formazione del paese antico
(Da un racconto di Giovanni Sgrilletti, paesano - 01/09/1980)


"La distruzione di Tora avvenne circa 700 anni fa’ ed in questo modo: c’erano due imperatori in lite, uno di nome Corradini ed un altro di nome Carlo d’Escia. Con le loro battaglie avvenne la distruzione di Tora. I cittadini di Tora fuggirono nei paesi vicini e pochi rimasero fra i resti della città. Dopo alcuni anni, sui resti di Tora si era formata una folta vegetazione, giunsero nei pressi di Tora alcune carovane di zingari che, vistosi scacciate da tutti gli altri paesi e trovata l’acqua fra i resti della città, vi si accamparono. Qui dovettero litigare con la gente del luogo ma infine si stabilirono pacificamente e costruirono delle case nel posto ora chiamato "Case Vecchie". Così iniziò a sorgere il paese. Le rovine dell’antica città di Tora si possono guardare alle quattro strade vicine alla "Calegara", a Colle Pizzuto, a Cartore, alle Case Vecchie ed in alcuni terreni di Placidi in Cantu Riu."

    L’invasione dei serpenti e la fuga dalle Case Vecchie
(Da un racconto di Giuseppe Tupone, mio padre - 27/11/1981)


"Raccontano i vecchi, che anticamente il luogo "Case Vecchie" era abitato; anzi la maggior parte del paese si trovava in quei pressi. Però il luogo era frequentato da qualche famiglia di vipere e altri rettili. I paesani cominciarono a ritrovarsi a volte quei serpenti in casa e sempre più numerosi. Fu per questo motivo che alcune famiglie cominciarono a traslocare nelle parti più alte del paese e, come succede sempre nei piccoli paesi, quando uno comincia tutti lo seguono, e fu così che le Case Vecchie vennero gradatamente abbandonate trasformandosi poi in stalle."

    Fuga da Cartore alle Case Vecchie e spostamento sulla collina.
(Da un racconto di Vincenzo Rubeis - 19/03/1986)


"Dopo Cartore, il paese di S. Anatolia sorse alle Case Vecchie mentre poi, siccome lì era una zona troppo calda e piena di serpenti ed altri animali, preferirono, i paesani, spostarsi più in alto, e andarono al colle Noce di Cristo."

    Gli Zingari.
(Da un racconto del sig. Generoso De Sanctis di Torano - agosto 1986)


"Pare che fra l’VIII° e l’XI° secolo (?), da una valle chiamata "Knosh" in Ungheria, si mosse una grande carovana di Zingari che, entrando in Italia, in parte si fermò nel nord vicino alla provincia odierna di Udine, ed in parte discese l’Italia stanziandosi fra l’altro nel paese della Valle del Salto chiamato oggi Sant’Anatolia. Vi è un paese molto piccolo in provincia di Udine in cui ci sarebbero i discendenti degli Zingari che si erano fermati nel nord-Italia e che parlano lo stesso dialetto che oggi si parla in Sant’Anatolia: il paese si chiama San Leopoldo e l’unica differenza che c’è con Sant’Anatolia è che a San Leopoldo sono state mantenute moltissime tradizioni ungheresi, mentre a S.Anatolia gli unici segni rimasti di tale colonizzazione di Zingari sono il dialetto parlato, i tratti somatici persistenti ed un tenuo ricordo nelle tradizioni orali tramandatoci nelle generazioni. I Santanatoliesi sarebbero in buona parte i discendenti di questa colonia di Zingari che vi fu stanziata dopo una grande moria de’ vecchi abitanti del paese".

    I serpenti e gli Zingari alle ‘Case Vecchie’
(Da un racconto di Alfredo Tupone, mio cugino - 24/03/1986)


"Nel tempo antico, siccome il paese era stato infestato dalle "serpi", nessuno poteva viverci, per cui furono presi degli "Zingari", una colonia, e trapiantati a S. Anatolia, poiché solo essi sapevano, con le loro tecniche, uccidere i serpenti, per cui viverci a contatto. Gli zingari per cui inizialmente dovettero abitare vicini al Santuario poiché era in quella valle che erano stati visti tutti quei rettili".

    La zona Scannacavagli
(Da un racconto di Vincenzo Rubeis - 19/03/1986)


"La zona "Scannacavalli" in paesano "Scannacavagli", è nominata in questo modo poiché: "Al tempo in cui c’erano le guerre civili e da Magliano doveva venire un esercito di centinaia di uomini a cavallo, i nostri per difendersi si appostarono e guardarono chi dalla Torre di Torano, chi dalla Torre di Guardia, chi da un altro punto verso Colle PizzoDente, e quindi quando il nemico si avvicinò al centro fra le tre torri, i padroni di queste ultime li circondarono e ne uccisero in molti. In quell’occasione, furono uccisi anche moltissimi cavalieri da cui "Scanna Cavalli o Cavalieri";

    Pitti a Catasto
(Da un racconto di Maria Spera - 04/03/1986)


"Se uno faceva lo sbruffone, ed era di famiglia povera, per smontarlo o prenderlo in giro, i paesani poco più ricchi gli dicevano: "Che parli, che parli !!! Tu non pitti nemmeno a catasto !!!" . ‘Pitti a Catasto’ significa iscritto al catasto e cioè possessore di terre. ‘Non pitti a catasto’ si diceva di solito alle persone povere che non avevano terre e che quindi non risultavano negli archivi catastali. (04/03/1986)


    Zacchè il falsario
(Da un racconto di Mario Tupone - 18/08/2002)


"Nel 1805, quando Napoleone conquistò il Regno di Napoli e cacciò il borbone Franceschiello, uno de' quissi de Zaccheo venne a S. Anatolia con un bottino rubato forse durante la guerra, composto da una macchina stampatrice, con relative piastre originali d'argento, e tutto il materiale necessario a falsificare il denaro che allora era in circolazione: lo Scudo borbonico o napoletano. Zacchè nascose la refurtiva in una grotta sopra il colle Paco in modo che, ogni volta che ne aveva bisogno, andava e si stampava gli scudi necessari ma, non sapendosi trattenere dal fare lo spaccone, venne presto preso di mira dalla polizia locale.
In quel tempo un certo Guglielmo, ricordato dai paesani come Guglieramo, era governatore di S. Anatolia e il palazzo del governo era l'antico palazzo dei Placidi al Terrone. Si dice che il palazzo era allora di proprietà dei monaci benedettini ma in quel periodo era stato confiscato dal governo Napoleonico. Guglieramo ordinò alle sue guardie di seguire Zacchè ma ogni volta che questi arrivava al colle Pago, spariva nella grotta e, essendo questa introvabile, l'inseguimento finiva sempre a vuoto. Dopo un paio di inseguimenti si decise di utilizzare i cani e in questa maniera alla fine Zacchè venne colto con le mani nel sacco. Nella grotta vennero trovati gli attrezzi da falsario e furono requisiti 1000 scudi freschi di stampa. Zacchè venne arrestato e gli scudi furono consegnati al governatore.
Poco tempo dopo alcuni loschi individui di S.Anatolia decisero di derubare il governatore ed entrarono nel palazzo. Guglieramo dormiva su una sedia con le braccia incrociate e un tizio di S.Anatolia (in seguito il sospetto ricadde su Vincenzo Luce) con una accetta lo colpì con forza nel petto ma, invece di ucciderlo, gli recise di netto ambedue le braccia. Guglieramo ebbe il tempo di urlare e far fuggire i ladri ma morì comunque poco tempo dopo. Gli scudi rimasero nel palazzo e in seguito, dopo che Napoleone fu detronizzato e rientrò il re Franceschiello la chiesa riprese possesso del palazzo e, essendo allora abate uno dei Placidi, fu la sua famiglia ad impossessarsi dei 1000 scudi di Zacchè. Con i mille scudi i Placidi divennero molto ricchi e si comprarono sia il palazzo che molte terre. Alcuni anni dopo, quando i briganti, dopo il saccheggio del palazzo, chiesero a don Costantino Placidi un riscatto per la restituzione dei beni rubati, non fu un caso che la cifra richiesta fosse esattamente di 1000 scudi: erano gli scudi del falsario Zacchè.
La grotta ancora esiste e viene chiamata "La grotta de Zaccheo". Essa è grande come una stanza e ancora oggi è introvabile perchè con una piccolissima entrata "coperta dagli macchiuni".
Vincenzo Luce venne sospettato dell'omicidio del governatore perchè, si diceva a S.Anatolia, che solo lui era talmente forte e veloce da poter recidere con un sol colpo le braccia di un uomo.
Quando Erminio Tupone decise di mettere al proprio figlio il nome di Guglielmo, la moglie Caterina Lanciotti, volle subito soprannominarlo col diminutivo di Memmo perchè aveva paura che gli altri di S.Anatolia lo chiamassero Guglieramo, nome che le risultava molto poco propizio vista la fine che aveva fatta il governatore.
Antonio Placidi, a differenza di molte voci che raccontano che la sua famiglia non fosse di S.Anatolia, asserisce invece che la sua famiglia vive a S.Anatolia dal 1400 e cioè da quando essi fuggirono da Pisa in seguito alle lotte fra guelfi e ghibellini.
La storia del Falsario Zaccheo mi è stata raccontata da Mario Tupone figlio di Erminio e Caterina Lanciotti. A lui venne raccontata dal nonno materno Pietrantonio Lanciotti.


    Il terremoto del 1915
(Da un racconto di Filippo Falcioni detto Pippo, nato a S. Anatolia il 14/02/1901 - 20/10/1987)


Il mattino del 13 gennaio 1915 ero nella mia stalla in località Casevecchie, a stramare le mie bestie: due vacche ed una cavalla. Avevamo anche ottanta pecore in un’altra stalla in località Stallescure. Andavo quasi sempre io alla stalla, di mattina, ragazzo di quattordici anni, perché mio padre era malato di asma e tosse. Verso le ore sette, se ricordo bene, improvvisamente sentii un forte fragore: la cavalla scalpitava, il pavimento sussultava e ondulava. Preso da grande paura, corsi fuori e vidi Luce Raffaelluccia fu Luigi, anche lei uscita dalla sua stalla di fronte alla mia, che mi faceva segno con la mano verso la parte storica del paese di fronte, e, nello stesso tempo emise un forte grido e piangeva. Come ragazzo poco o nulla esperto di terremoti, impressionato, guardai anch’io, e vidi meravigliato e stupito, che la parte storica del paese era un ammasso di macerie e a mano a mano che la grande nube di polvere diradava, spazzata via dalla forte tramontana, vi apparivano punte di travi più o meno lunghe.
La parte storica del paese sorgeva su una collina, che dal lato nord era ed è tutt’ora molto scoscesa ; mentre le stalle erano tutte situate nella zona della fontana Valle Rio, sparpagliate, come sono tutt’oggi.
Quasi nessuna delle stalle fu diroccata dal movimento sismico; solamente qualcuna lesionata.
Santa Anatolia era l’unico paese del Cicolano fornita di fognature. Aveva una planimetria ben precisa: una via centrale detta La Terra, che partiva da piazza S. Nicola lunga circa cento metri, intersecata da cinque vicoletti, le cui fognature collegate con quella centrale situata sotto via La Terra.
Il giorno del terremoto era fiera a Magliano de’ Marsi: molti abitanti si erano alzati presto per condurre il bestiame alla fiera; anzi, tanti erano già sulla via, costretti, poi dal terremoto a tornare subito in paese.
Ritornando all’atto del terremoto, quelli che erano nelle stalle correvano tutti verso la parte terremotata per portare aiuto ai loro familiari.
Corsi anch’io e presi l’accorciatoia per la viottola La Costa. Giunto alla casa di Di Gasbarro Giovanni, diroccata fino al pavimento del primo piano, sul quale Giovanni, già vecchio, nudo con addosso la sola camicia, tutto impolverato, andava avanti e indietro sul pavimento e ripeteva in continuazione: Poreglie mi, poreglie mi, come faccio mo …
La parete della casa verso Valle Rio era rimasta intera: in essa vi era un balconcino con una piccola ringhiera di ferro: lì stava Di Cristofano Mariassunta, ragazza di circa vent’anni, a tre metri dal suolo, che gridava e chiedeva aiuto: Curri Felippu! Curri , Felippu, aiutami…
In quel mentre arrivò Peppinuccio, figlio di Giovanni, tutto ansante dalla corsa che aveva fatta, mi guardò ansioso e mi disse: Io vado da mio padre, tu vedi di aiutare quella ragazza …
La famiglia Di Gasbarro aveva una bottega di generi alimentari. La ragazza era andata a comprare il pane: la bottega però non era ancora aperta e la moglie di Giovanni l’aveva fatta salire in cucina, al primo piano e fatta sedere vicino al focolare. In quell’istante avvenne la scossa di terremoto. La ragazza, sorpresa, corse al balconcino per accertarsi di quel rumore insolito, e mentre guardava fuori, la casa crollò, e lei rimase là, attaccata alla ringhiera.
Io andai dalla ragazza che strillava e piangeva, e le dissi: Stai calma, adesso vedrò come farti scendere… In quell’istante una nuova scossa, le fece cadere un pezzo di mattone sul capo : presa da una forte paura, si appese alla ringhiera e si lasciò cadere. Si fece un po’ male, ma cosa non grave. L’aiutai e la presi per un braccio e andammo a prendere la strada del Trainello, per poter arrivare a piazza S.Nicola, essendo per le altre strade impossibile passare.
A piazza S. Nicola era uno spettacolo orrendo: quelli che erano potuti fuggire e mettersi in salvo, sanguinanti, impolverati, con macchie violacee sul viso e alle mani, qualcuno nudo, coperto con un lenzuolo, altri con una coperta e qualche altro seminudo: Lanciotti Luigione avvolto con una imbottita e con la faccia macchiata di sangue, Luce Sinibaldo ferito in più parti del corpo e seminudo, imbrattato di sangue sulla faccia e mani e sui calzoni, dalla paura e dal freddo non era più capace di parlare.
I feriti erano tanti. Tutti si radunavano a Soprell'ara (il piazzale vicino alla fontana dell’acqua santa) dove furono accesi i fuochi da alcuni soccorritori per farli scaldare, perché il freddo era eccessivo, dovuto alla gelata ed alla forte tramontana.
Inoltrandomi poi insieme ad altri soccorritori per via La Terra, giunto alla casa De Amicis, in una finestrella del pian terreno De Amicisa Annachiara e sua sorella Virginia chiedevano aiuto con ripetuti strilli. In quel momento arrivò De Amicis Luigi, un giovane alto e robusto, cugino delle due ragazze, con una pietra piegò i due ferri a croce della finestrella e le fece uscire.
Continuai per arrivare a casa mia in vicolo Falcioni, ma mi fu un po’ difficile, perché i soccorritori, scavando, buttavano pietre ed altro materiale con molta fretta, senza guardare dove andavano a finire.
Finalmente giunto a casa mia, i miei genitori, mio fratello Alessandro e mia sorella Caterina di appena un anno erano già vestitie subito li accompagnai temporaneamente a Soprell'ara, dove erano i fuochi .
La mia casa in un lato era crollata ed il resto molto lesionato. Ritornando a casa mia per prendere coperte ed altra roba, in piazza S. Nicola, Amanzi Giuseppe camminava qua e là a testa bassa e si lamentava: Povero me, o povero me! Che disgrazia, che disgrazia!
Egli stava alla stalla a stramare le sua bestie ed era accorso come tutti gli altri, per poter salvare i suoi genitori, la sorella Annina e l’altra sorella sposata con quattro figli, Mariuccia, il cui marito Luce Pietro, detto Mazzante, era negli USA. Purtroppo i suoi familiari erano tutti morti sotto le macerie delle loro case interamente crollate.
De Santis Fedele era rimasto incastrato fra due travi ed altro materiale: i socorritori riuscirono a liberarlo dopo cinque giorni, ma due ore dopo morì, per le lunghe ed estenuanti sofferenze.
Peduzzi Antonio – detto Mastrantonio – e sua moglie Clotilde, ruzzolarono, avvolti nel loro letto, giù per il pendio in località Terrone, per ben cento e più metri fino a Valle Rio, uscendone incolumi, fortunatamente.
Complessivamente i morti, se ricordo bene, furono ottantasette.
Con legni vari e con le porte delle case crollate, subito cominciarono a sorgere baracchete un po’ dappertutto nelle vicinanze delle stalle. I più coraggiosi dormivano nei pagliai, gli altri si adattavano dentro baracchette provvisorie.
Dopo pochi giorni arrivarono i militari e distribuirono molte tende, ciascuna per quattro persone, e coperte.
I militari si erano accampati con le loro tende al prato detto Cimino, sopra la fontana Valle Rio: essi distribuivano ai terremotati il rancio e il pane.
Un giorno mentre i soldati distribuivano il rancio ai terremotati, arrivò un’automobile dalla quale scesero un uomo bassotto accompagnato da un ufficiale e da un maresciallo dei carabinieri.
Chi era quell’uomo bassotto? Era proprio il re Vittorio Emanuele III in in borghese.
Luce Antonio, detto Antonio di Gemma, uomo anziano lo riconobbe e lo salutò, levandosi il cappello: Buon giorno Maestà.
Il re quando si accorse di essere riconosciuto, montò subito in macchina insieme alla scorta e ripartì.
Amanzi Augusto, aiutante di battaglia, in licenza per causa del terremoto, stava spesso insieme agli ufficiali e aiutava anche a distribuire il rancio ai terremotati.
Ho ritenuto opportuno scrivere questo racconto del giorno del terremoto del 13/1/1915, per tramandare ai posteri, soprattutto di Sant’Anatolia, notizie utili.
Filippo Falcioni, addì 20 ottobre 1987


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