FARINA FRANCESCO

Quando si dice disegno

Franco Farina ha cinquanta anni. Disegna, dipinge, scolpisce (ma soprattutto disegna) da sempre. Dicono a casa sua che il disegno lo scoprì da solo, quando aveva sette-otto anni o giù di lì: da quel momento le matite colorate diventarono un regalo obbligato. Lui si ricorda delle elementari. Quando il maestro gli dava un tema, dice, scriveva in fretta un paio di facciate di componimento (si chiamerà ancora così?) e passava subito a tradurre il compito in immagini. Quel suo maestro di allora lo conosco anch’io: anzi, è uno dei maestri più apprezzati e più intelligenti che ha potuto avere la generazione di Farina. Ma Farina va poco per il sottile con le finezze pedagogiche: ancora non si dà ragione del perché al maestro quei disegni non piacessero. Meglio, perché non gli piaceva che disegnasse. E si capisce: se il componimento si fa per imparare a scrivere in italiano, saltare al disegno vuol dire disertare il campo, cercare un escamotage. Ma quando fu all’ultimo anno delle elementari fu proprio quel maestro così rigoroso a consigliare ai suoi genitori di mandarlo all’Istituto d’Arte .Così il disegno sta nel destino di Farina da sempre. All’Istituto d’Arte fece tutta la strada, dalla scuola media fino agli anni delle superiori. Con insegnanti di non molti anni più grandi di lui, come Zaza Calzia e Nino Dore, ma anche con quello che è stato, nella storia dell’arte sarda del Novecento, il maestro di tutti i disegnatori, il più raffinato e sapiente, Stanis Dessy. È aneddoto fin troppo conosciuto che ai funerali di Michelangelo ci fu disputa breve per decidere quale delle espressioni dell’arte che il morto aveva frequentato dovesse precedere le altre in posizione d’onore nella animata processione che lo accompagnò: il disegno vinse alla grande, quasi senza opposizione. Da allora ci fu accordo comune, nei secoli, che saper disegnare fosse il fondamentale più necessario a chi voleva vivere d’una qualunque arte figurativa. La convinzione dura ancora e ha attraversato indenne il Novecento, che pure in molte delle sue manifestazioni pittoriche è sembrato voler saltare questo primo momento di base. Certo, è abbastanza facile sostenere che attorno al disegno – o, meglio, ai disegni: cioè alle espressioni concrete di questa applicazione alla linea e al segno – spira un’aria un po’ desueta. Che, insomma, quella fase la si può anche bypassare, soprattutto in ogni esperienza pittorica che rifiuti consapevolmente e programmaticamente un’imitazione troppo ravvicinata della realtà. Il “figurare”, insomma, è possibile anche senza la figurazione tradizionale, senza andare a scuola di disegno. Sono considerazioni generali (generiche) che secondo me, però, bisogna tenere presenti quando si parla dei disegni di Farina: soprattutto se si conoscono anche, di lui, le incursioni in altri campi, come la pittura e la scultura, ad esempio. Perché Farina ha scelto il disegno non per ripetere piuttosto pedissequamente la lezione imparata all’Istituto – e sia pure nella scuola di quel severo istruttore che fu Stanis Dessy – ma per sperimentare fino in fondo le potenzialità di una tecnica che è, per lui, forma – come dire? – inedita del rappresentare per immagini: insomma, come se questa sua opzione forte e continuativa per il disegno fosse (sia stata) una scelta primaria, non l’addestramento alle tecniche basilari della figurazione.

Manlio Brigaglia

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Farina è nato a Sassari il 30 novembre 1950 dove vive ed opera. Conseguita la maturità artistica, dai primi anni ’70 partecipa attivamente alla vita artistica regionale e nazionale, proponendo la sua produzione grafica, pittorica e scultorea. Il percorso è caratterizzato dall’esposizione di numerose mostre personali, collettive e rassegne d’arte a carattere concorsuale nel cui ambito consegue premi e riconoscimenti. Sue opere sono esposte in collezioni pubbliche e private, gallerie, chiese e piazze.